Sono i pigri a muovere il mondo. Gli altri non hanno tempo.”
Albert Camus, lettera a Francis Ponge, 1943
Cos’è la pigrizia? La miracolosa sopravvivenza del paradiso, la chiamava Emil Cioran. È anche la difficile arte di riposarsi prima di andare a dormire, per esempio.
Se indaghiamo nella storia umana i sintomi della pigrizia, già una prima traccia si trova nel libro dei libri, il primo a essere stampato nero su bianco nel 1453, e su quelle pagine nella voce tonante di dio che intima all’uomo: «Mangerai il pane con il sudore del tuo volto» (Genesi 3.19). Il duro lavoro è un elemento cruciale della punizione inflitta da dio per la ribellione di Eva e quella sua brutta storia con la mela. Scacciati con daspo perpetuo dal prato divino, Eva e Adamo e i loro discendenti sono obbligati a faticare per nutrirsi; e il lavoro diventerà simbolo prediletto dell’espiazione, strada lastricata di affanni per chiunque ambisca a redimersi. La pigrizia è quindi implicitamente esecrata come attitudine che non possiamo permetterci se siamo in qualche misura interessati alla sopravvivenza spirituale; è un vizio che a tempo debito prenderà il suo posto d’onore accanto agli altri sei nella lista di papa Gregorio Magno nel VI secolo d.C.
Ben prima delle liste, cosa ci dice la Bibbia? Che nel giardino dell’Eden, al tempo in cui non c’era traccia del sudore della fronte, il primo uomo e la prima donna vivevano nell’accidia, senza darsi pena; la pigrizia, quella riluttanza moralmente discutibile, quell’allergia intollerabile allo sforzo, il sollazzo del perdere tempo, quell’appetito ben sviluppato per i piaceri dell’ozio, è indiscutibilmente miniata all’interno del codice genetico umano. Anzi, la pigrizia ci definisce come esseri umani, una macchina non potrebbe mai essere pigra: «Con ogni evidenza, noi siamo al mondo per non fare nulla; ma, invece di portare con noncuranza la nostra putredine, esaliamo sudore e ci affanniamo nell’aria fetida», ce lo diceva sempre Emil Cioran nel Sommario della decomposizione (traduzione di Mario Andrea Rigoni e Tea Turolla, Adelphi).
Cosa farcene quindi del nostro monopolio tutto umano sulla pigrizia? Potremmo essere orgogliosi del nostro status di animali pigri, a dircelo è proprio la lettura, piacere in cui indulgere che ci viene in soccorso contro ogni velleità eroica, dallo scendere a prendere il latte al buttare il rusco: non è forse la lettura, come l’ozio, il vizio dei solitari? L’ozio infatti «che non è affatto il non fare nulla, ma piuttosto il fare una quantità di cose non riconosciute dai dogmatici regolamenti della classe dominante, ha lo stesso diritto dell’operosità di sostenere la propria posizione», dichiara Robert Louis Stevenson dalle pagine di In difesa dei pigri (traduzione di Stefania Colpi, Archinto); dobbiamo rivalutare il significato della pigrizia dandole la connotazione positiva di «ricerca del piacere all’interno del difficile mestiere di vivere» (ibid).
E cosa possono dirci i testi letterari così spesso dominati da storie di lotte disperate, conflitti titanici e viaggi epici – sul lato inequivocabilmente sedentario e timido dell’esperienza umana? In fin dei conti, possiamo rispondere come Kurt Vonnegut, «siamo qui sulla Terra per andare in giro a cazzeggiare»: non date retta a chi dice altrimenti.
Le definizioni del peccato d’indolenza sono cambiate notevolmente nel corso dei secoli: era in origine fonte di massimo pericolo per i cristiani, i cui regimi di preghiera, abnegazione e ritiro spirituale li esponevano alla svogliatezza e al torpore. Nel medioevo il concetto si è ampliato per comprendere tutte le forme di inattività peccaminosa, tra cui, sia mai, l’addormentarsi in chiesa. L’indolenza divenne quindi l’argomento preferito delle favole: i fratelli Grimm raccolgono dalla tradizione e riscrivono la storia dei tre fratelli pigri, in cui il terzogenito del re eredita il regno grazie alla sua neghittosità: se dovessero impiccarlo e avesse già il capestro al collo, e uno gli desse in mano un coltello affilato con il quale poterlo tagliare, si lascerebbe impiccare piuttosto che alzare la mano.
Le punizioni esageratamente severe, persino sadiche, inflitte agli indolenti nel medioevo – Dante piazza gli accidiosi nel quinto cerchio dell’inferno, immersi nella palude dello Stige – erano congegnate per spaventare la gente dalle insidie spirituali del fancazzismo, una scorciatoia seducente e soprattutto senza ansie verso l’autodistruzione. A volte però la pigrizia salva, e lo sa bene la protagonista senza nome di Il mio anno di riposo e oblio (traduzione di Gioia Guerzoni, Feltrinelli) di Ottessa Moshfegh: un’ex gallerista ora disoccupata e conchiusa nel suo bozzolo, che dimostra come attraverso l’abulia sia possibile completare la locuzione latina «Faber est suae quisque fortunae», con una strategia attenta e alacre di preparazione al letargo chimico. «Poter dormire tutto il giorno e diventare una persona completamente nuova», questo stato di grazia larvale richiede grandi dosi di Seroquel o litio mischiate a Xanax, e Ambien o trazodone ma soprattutto «calcoli raffinati per somministrare i sedativi. In genere l’obiettivo era arrivare a un punto in cui potevo scivolare alla deriva facilmente e tornare in me senza spaventarmi. I miei pensieri erano banali, il battito casuale».
Torniamo al vecchio inferno. L’aldilà descritto dal poeta fiorentino resta la mappa dei peccati più dettagliata per orientarsi nei recessi della perdizione, e gli abulici che hanno avuto la sfortuna di mancare lo Stige e arrivare al Purgatorio sono irregimentati in una tabella di marcia implacabile: è infatti detto che tutto il lavoro rimandato sulla Terra deve essere portato a termine nel luogo eterno che ci aspetta dopo la morte. Molto meglio il rimedio di Ottessa: «Oh, dormire. Nient’altro poteva darmi altrettanto piacere, libertà, il potere di muovermi e pensare e immaginare, al sicuro dalle miserie della mia coscienza da sveglia».
L’etica del lavoro come veicolo indispensabile di valore, dignità e significato nell’esperienza umana si rinsalda, ahinoi, con l’illuminismo: uno dei più grandi inni del lavorismo nella letteratura inglese è il Robinson Crusoe del 1719, in cui il naufrago di Daniel Defoe non perde occasione per ricordarci quanto era stoicamente privo di indolenza, quanto incessantemente ha lavorato per sopravvivere in modo civile in un territorio ostile a ogni forma di attività, carico di promesse ludibri. Fortunatamente la letteratura in controtendenza ci viene in aiuto: la figura più notevole tra gli apatici è senza dubbio Bartleby, lo scrivano di Herman Melville dell’omonimo racconto del 1853 e la sua resistenza passiva alla vita con la dichiarazione d’intenti «preferirei di no». La sua figura «pallidamente distinta, penosamente rispettabile, inguaribilmente desolata» oppone il silenzio all’azione, la mitezza alla gaia e spesso turbolenta operosità dei colleghi: è quasi uno sciopero esistenziale, una campagna sistematica di refrattarietà al modo in cui le nostre vite possono essere definite dalla trista monotonia del lavoro.
Oltre a darci lo scrivano stanco di Melville, il diciannovesimo secolo avrebbe anche assistito alla nascita del manifesto della pigrizia notoriamente esemplificato da Le droit à la paresse («Il diritto di essere pigri», 1880), una denuncia veemente da parte dell’anarchico francese Paul Lafargue, genero di Karl Marx, contro i sacerdoti, gli economisti e i moralisti che hanno gettato un’aura di sacralità sula fatica. Fa specie che non abbia incluso anche il suocero, che secondo lo scrittore Philip Ó Ceallaigh aveva edificato il sol dell’avvenire proprio sul lavoro: «Sotto al comunismo, il lavoratore, l’idiota sbavante, la pecora, sono tutti presentati come vittime innocenti della storia. I buoni dei film. E poi lo stato dei lavoratori ti libera. Dall’obbligo di fare qualsiasi cosa. Tranne lavorare. L’elemento bovino dell’uomo viene proclamato come il più virtuoso» (Appunti da un bordello turco, traduzione di Stefano Friani, Racconti). Un secolo dopo il discorso sulla pigrizia viene ripreso da Roland Barthes in Osons être paresseux («L’audacia di essere pigri», 1979): «Avete mai notato che parliamo sempre del diritto allo svago, ma mai del diritto di essere pigri? Mi chiedo se qui, nel moderno Occidente, esista davvero il non far niente», guardare la pittura data di fresco che si essicca sulla parete senz’altra preoccupazione. La piena automazione auspicata dall’accelerazionismo e anatema per i lavoristi, ma anche solo la meccanizzazione parziale del lavoro, dovrebbe sgravarci della maggior parte della fatica implacabile e straziante che è stata la vita umana da quando dio, essere supremo ma suscettibile, ha licenziato Adamo e Eva precarizzandoli al di fuori dell’Eden. Il primo grande outsourcing della storia.
Nei primi anni dieci di questo millennio il sociologo Robert A. Stebbins teorizzava la comparsa dell’Homo otiosus, in opposizione all’Homo faber: ma i lettori che prediligono i ponderosi romanzi russi lo conoscono già. Si chiama Il’ja Il’ič Oblómov, il protagonista del romanzo che porta il suo nome scritto da Ivan Aleksandrovič Gončarov nel 1859. «Era questi un uomo di trentadue-trentatré anni, di media statura, di aspetto piacevole, con occhi grigio-scuri, ma nei tratti del volto privo di qualsiasi idea determinata, di qualsiasi concentrazione. Il pensiero passeggiava come un libero uccello sul suo viso, svolazzava negli occhi, si posava sulle labbra semiaperte, si nascondeva nelle rughe della fronte, poi scompariva, e allora su tutto il volto si accendeva l’uniforme colore dell’indifferenza. Dal volto l’indifferenza passava alle pose di tutto il corpo, perfino alle pieghe della veste da camera.» Anche Oblómov indulge nel non fare, anche lui preferisce di no come l’americano Bartleby, tuttavia non come conclusione di un distacco progressivo dalla vita, bensì come torpore esistenziale, assistito dal fedele, riottoso e altrettanto pigro servitore Zachar; le soluzioni alle questioni importanti è meglio pensarle dal letto: «Si perdeva nella fiumana delle preoccupazioni e continuava a star sdraiato, rivoltandosi ora su di un fianco, ora sull’altro. Di tratto in tratto si sentivano delle esclamazioni spezzate: – Ah, Signore Iddio! La vita t’incalza, ti acchiappa da tutte le parti».
L’etica del lavoro è curiosamente resistente; anche se pare giunto il momento di abbandonare i suoi imperativi ostinati per inaugurare un’èra di pigrizia senza più sensi di colpa. La celebrazione dell’ozio potrebbe sembrare un duro lavoro, anche perché a noialtri pigri pesa la condanna sociale. D’altronde siamo quella brava gente che «non concepiva la vita altrimenti che come un ideale di tranquillità e d’inerzia, disturbata di tempo in tempo da vari casi spiacevoli, come le malattie, le perdite, le contese, e tra l’altro il lavoro». È attraverso l’inazione che arriviamo al divino, come dice Manganelli chiamando in causa quel cabalista ateo di Freud e la sua pulsione di morte, la tensione verso la quiete originaria propria del momento che precede il primo gesto dell’esistenza, la nascita dell’uomo. Ma a noi pigri tutto queste tendere fa fatica e allora il divano diventa il nostro giardino del paradiso.
E qui concludo, e torno a non fare niente. Anche ieri non ho fatto niente, ma non avevo finito.
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↔ In alto: Frederic Leighton, Flaming June, 1895.
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