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Oggi pubblichiamo il terzo capitolo di analisi storica dedicata al rapporto tra costruzione dello Stato-nazione italiano e controllo sociale del corpo, dalla nascita del Regno d’Italia fino alla Grande Guerra. Qui la prima parte. Qui la seconda. Buona lettura. 

Omosessualità e Grande Guerra

«Separare il grano dal loglio», la guerra come rigenerazione

La mattina del 28 giugno 1914 Gavrilo Princip sparò contro l’arciduca asburgico Francesco Ferdinando, uccidendo sia lui che la consorte Sofia: nessuno in Europa poteva immaginare le implicazioni di un tale gesto. Il concitato affastellarsi degli ultimatum, delle manovre militari e delle immediate reazioni all’attentato lasciarono impreparati i popoli di tutte le nazioni su quanto il futuro aveva in serbo per loro. In Italia, la situazione era aggravata dall’incertezza politica sulla linea da seguire, sulle alleanze da tessere, oltre all’innegabile impreparazione militare di fronte ad un conflitto bellico con le superpotenze europee. Inoltre, vi era un’oggettiva divergenza di opinioni tra governo e forze armate, i primi non concordi con i secondi sulla durata della guerra.

Inizialmente l’Italia scelse la neutralità, con lo scopo di intavolare delle trattative segrete con le autorità tedesche per ottenere il Trentino e solo successivamente entrare in guerra; ma si alzarono in coro le proteste dei nazionalisti che spingevano per l’intervento. In realtà, sia al governo sia tra la maggioranza della popolazione prevaleva la linea della neutralità, dunque i nazionalisti erano in continua polemica. Il leitmotiv di molti interventisti era che la guerra fosse moralmente superiore alla meschinità morale dei neutralisti. Infatti, in qualche modo la neutralità «umiliava» l’Italia nelle sue aspirazioni al ruolo di grande potenza, l’unica tra le nazioni europee più importanti a rimanere estranea ad una prova di valore, individuale e nazionale, un segno di disciplina, carattere e capacità di sacrificio.

La generazione del 1914 si arruolò volontaria allo scoppio della guerra spinta dal bisogno personale di provare la propria mascolinità. Ovvero partecipò alla rivoluzione antiborghese della fin de siècle, ma in chiave totalmente diversa: se prima l’alternativa privilegiata al modello proposto dalla classe media era il decadentismo, in seguito fu la virilità[1].

Rientra in questo contesto il Manifesto del Futurismo di Filippo Tommaso Marinetti,  pubblicato  il  20  febbraio  1909  su  «Le  Figaro»  (in  anteprima sulla «Gazzetta dell’Emilia» di Bologna in data 5 febbraio 1909), dove il poeta, in forma declamatoria e in 11 punti, inneggiava al «movimento aggressivo, l’insonnia febbrile, il passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo ed il pugno» ma soprattutto esclamava: «Noi vogliamo glorificare la guerra – sola igiene del mondo – il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore dei libertari, le belle idee per cui si muore e il disprezzo della donna».

Il futurismo, sia avanguardia artistica che movimento politico, fu determinante per il costituirsi dell’ideale del nuovo uomo fascista. Questo faceva propri i concetti di virilità, energia, violenza, incanalando tali concezioni nell’immagine di un uomo pronto a combattere e a sacrificarsi per la patria, in apparente contraddizione con l’odio per la tradizione. Secondo Marinetti, l’uomo nuovo doveva essere allievo della macchina, nemico dei libri, convinto assertore dell’esperienza personale e insieme della potenza e della gloria dell’Italia.

Dello stesso tono fu l’articolo pubblicato il 1° ottobre 1914 da Giovanni Papini, sulle pagine della rivista «Lacerba», intitolato Amiamo la guerra!, chiaramente una chiamata alle armi, un’occasione da cogliere per rinvigorire la stirpe italiana e mondarla dalle mollezze dei decenni precedenti.

Ci voleva, alla fine, un caldo bagno di sangue nero dopo tanti umidicci e tiepidumi di latte materno e di lacrime fraterne. Ci voleva una bella innaffiatura di sangue per l’arsura dell’agosto; e una rossa svinatura per le vendemmie di settembre; e una muraglia di svampate per i freschi di settembre. […] Siamo troppi. La guerra è una operazione malthusiana. Cioè un di troppo di qua e un di troppo di là che si premono. La guerra rimette in pari le partite. Fa il vuoto perché si respiri meglio. Lascia meno bocche intorno alla stessa tavola. E leva di torno un’infinità di uomini che vivevano perché erano nati; che mangiavano per vivere, che lavoravano per mangiare e maledicevano il lavoro senza il coraggio di rifiutar la vita. 

Papini, in pieno stile futurista, esaltò la carneficina della guerra come evento che potesse rigenerare la civiltà: finalmente il fuoco dei soldati e la distruzione provocata dai mortai avrebbero fatto «piazza pulita fra le vecchie case e le vecchie cose» e fra «le tante centinaia di migliaia di antipatici, farabutti, idioti, odiosi, sfruttatori, disutili, bestioni e disgraziati». La guerra sarebbe servita anche a separare il grano dal loglio, smascherando gli effeminati inadatti a sopportare lo stress bellico dagli smaglianti «veri uomini». E tra i cultori delle scienze, non furono in pochi a vedere nella guerra un’esplosione di violenza primigenia ed atavica sotto la fragile crosta della civiltà, uno scontro fatale tra le “razze” europee[2].

Anche Emilio Gentile, nel suo Le origini dell’ideologia fascista, ha dimostrato come lo scoppio della guerra europea fosse stato non solo previsto, ma in un certo senso anche auspicato dalle avanguardie moderniste, dal movimento nazionalista e dal sindacalismo rivoluzionario. Tra gli intellettuali italiani era diffusa l’idea di

un’attesa messianica di un’incombente catastrofe palingenetica, che questi movimenti invocavano per realizzare la rivoluzione spirituale che doveva rigenerare la nazione e portarla definitivamente alla “conquista della modernità”. La partecipazione dell’Italia alla grande guerra fu voluta dall’interventismo nazional-rivoluzionario come necessario rito di iniziazione collettiva degli italiani alla modernità. E la guerra fu effettivamente, per milioni di italiani, una tragica “esperienza di modernità”. 

Tuttavia medici e psicologi covavano la preoccupazione che la guerra, devastatrice del corpo e della mente del fior fiore della nazione, potesse avere l’effetto opposto a quello che ci si stava augurando: lo psichiatra e deputato socialista Ferdinando Cazzamalli, costretto come tanti suoi colleghi allo spettacolo del dramma di invalidità psichica causato dalla trincea, pubblicava nel 1916 un articolo in «Quaderni di Psichiatria», dove riconosceva che il conflitto fosse tutt’altro che un benefico bagno di sangue. La guerra «è un evento storico per sua natura squisitamente degenerogeno» che «dal punto di vista biologico della razza» non lascia ben sperare per il futuro. La guerra in corso sembrava una minaccia biologica per l’avvenire della civiltà europea.

Le più giovani vite e gagliarde, promesse insostituibili alla continuità generativa della stirpe, falciate, stroncate. E i superstiti? La maggior parte, indebolita dai disagi fisici, e dalle gravi emozioni deprimenti il tono del sistema nervoso, vedrà diminuito indubbiamente quel patrimonio biologico ereditario destinato a trasmettersi alla progenie.

Seguendo questa concezione, la Grande Guerra venne anche tacciata di «eugenetica a rovescio»[3], in quanto i nuovi modelli di scontri bellici, non basandosi più sul corpo a corpo ma sulle trincee, le granate, i gas asfissianti, non avrebbero eliminato i meno adatti alla sopravvivenza, come avrebbe voluto la teoria darwinista: al contrario, proprio i soldati più eroici, assaltando con il loro coraggio le frontiere nemiche, erano i primi a soccombere sotto i colpi dei fucili dell’esercito ostile. Molti furono i medici che si posero il dilemma se relegare gli elementi «difettosi» dell’esercito in un ospedale o semplicemente riformarli, oppure utilizzare fino in fondo anche gli «anormali» in un’ottica di mobilitazione generale e considerarli una risorsa per la macchina bellica. Lo psichiatra Cesare Agostini, direttore prima del Manicomio provinciale di Arezzo e dal 1904 dell’Ospedale psichiatrico di Perugia, diventato poi consulente neuropsichiatra dell’armata Carnica, preoccupato dal sovraffollamento dei reparti neurologici, propose l’istituzione di un centro specializzato che fosse in grado di distinguere i veri casi di epilessia dalle possibili simulazioni. I primi, se affetti da forme gravi, dovevano essere «rimandati a casa per essere reclusi in un istituto di cura o nel manicomio criminale», mentre quelli «affetti da episodi rari», ovvero coloro che erano affetti da una sintomatologia episodica o semplicemente ipereccitazione nervosa o depressione, potevano diventare utili risorse per i reparti speciali di truppe, non addetti al combattimento, ma collocati nelle retrovie «ai soli lavori di sterro, di apertura di strade, di camminamenti e di trincee, di adattamento di campi d’aviazione e magari della coltivazione di terreni compresi nella zona delle operazioni». In questo modo, infatti, si sarebbe evitato «l’assurdo salvataggio delle scorie sociali» e dunque scongiurare una sorta di «eugenetica alla rovescia» che avrebbe infatti sacrificato «la parte della nazione più forte fisicamente» e lasciare che «individui tarati nel fisico, degradati moralmente» e pronti «a moltiplicare i candidati alla pazzia e alla criminalità» tornassero in patria in tranquillità. Ad esempio, Enrico Morselli, favorevole all’impiego lavorativo dei malati psichici, caldeggiava l’utilizzo del «materiale di scarto».

Può essere che dei frenastenici miti, obbedienti, fisicamente forti, si prestino con vantaggio al servizio, sia pure nelle unità belligeranti, qualora attorno ad essi si trovino più numerosi elementi psichicamente validi, dai quali ricevano un’utile suggestione pel lavoro in comune, per la disciplina, magari pel coraggio.

Infatti, ad ogni grado di malattia coniugava una forma di impiego economico che fosse vantaggioso per tutti.

Vi sono nelle zone di Guerra molti lavori materiali, per i quali bastano le braccia senza la partecipazione del pensiero: lavori di scavo o di sterro per le trincee, trasporti di munizioni e di rifornimenti vari, costruzione di ripari ecc. Perciò dato pure che fra le truppe in servizio attivo rimangano dei frenastenici calmi e obbedienti, non si deve rinunziare troppo presto ad utilizzarne gli sforzi muscolari. 

Su tale argomento si scontravano le opinioni di chi considerava l’impiego dei degenerati troppo pericoloso. Tra questi, il direttore del «Giornale di Medicina Militare» Edmondo Trombetta, il quale privilegiava le ragioni della disciplina militare e dell’efficienza operativa dei reparti combattenti. In un articolo del 1918 sul giornale che dirigeva, Gli epilettici in zona di guerra (nota critica), sebbene affermasse che l’eugenetica avesse le sue buone ragioni a voler valersi degli anormali, sottolineò il paradosso di reclutare nell’esercito i malati al posto dei sani.

Nella guerra guerreggiata, tutti sanno ormai che, dall’oggi al domani, le retrovie possono essere incluse nella zona d’operazioni, dove la moltitudine degli epilettici, dei tracomatosi, degli erniosi, dei mezzi orbi, degli sdentati, ecc. ecc., rappresenterà uno di quei malaugurati ingombri […] che gli accorti e gloriosi comandanti delle legioni romane non si sarebbero mai sognati di trascinarsi dietro come una pesante catena.

D’altronde, anche gli alti gradi dell’esercito condividevano questa opinione. Il maggiore Pighini, ad esempio, si lamentava che «per un errato concetto di sacrificare la qualità alla quantità, e di non creare categorie di beneficati dell’esenzione dalla trincea, si è voluto rimpinzarlo questo esercito nostro di tutte le scorie possibilmente utilizzabili, sia fisiche che morali».

Nuovi stereotipi maschili

Per i medici coinvolti nelle operazioni sanitarie lungo i fronti, l’esercito fu un grande laboratorio per sperimentare e studiare fatti sociali più ampi. Infatti, essendo un gruppo selezionato, controllato e al tempo stesso rappresentativo dello stato biologico della comunità, grazie all’istituto della leva, l’esercito veniva considerato, già negli anni prebellici, un utile campo per analizzare e curare i mali del corpo della nazione. Subito dopo l’Unità d’Italia, si era levato il grido di allarme delle élite dirigenziali a fronte del gran numero di riformati alla leva, per deficienza toracica e organica ma anche per «idiotismo» e «cretinismo», aumentando la diffusione degli allarmi degenerazionisti. Per molti medici, la partecipazione alla guerra fu un banco di prova per realizzare su vasta scala un’irripetibile «sperimentalismo sociale», dove era possibile osservare «traumi, emozioni, commozioni, disagi, mutilazioni e devianze di ogni genere, conosciute e sconosciute, già codificate e nuove».

Qualunque fosse l’ottica medica prescelta, il discorso politico si articolava in maniera differente, in quanto anteponeva agli interessi privati quelli collettivi. Il nazionalismo intervenne a questo punto come collante ideologico, utilizzato dalla retorica del discorso politico anche dopo la guerra. Fu lo stesso Mussolini, quando nel novembre del 1917 dalle colonne del «Popolo d’Italia» scrisse l’appello per la mobilitazione totale della popolazione civile, a proclamare che era per la nazione che ci si immolava come eroi.

Non fermiamoci dinanzi ai diritti della libertà individuale. Spazziamo questo feticcio[…] Non ci può essere diversità di trattamento e di regime fra chi combatte e chi non combatte[…] Ogni uomo, ogni donna dev’essere utilizzata[…] Diciamo la parola: tutta la nazione dev’essere militarizzata. Togliete il troppo atroce e stridente squilibrio materiale e morale tra fronte esterno e fronte interno; […]togliete dalla circolazione i parassiti; fate insomma che la Nazione all’interno, invece di presentare l’aspetto normale dei vecchi tempi, presenti l’aspetto di un arsenale dove ognuno e tutti lavorano.

Quando il 23 maggio 1915, l’Italia decise finalmente di intervenire nel conflitto europeo, consegnando la dichiarazione di guerra all’Austria-Ungheria, le élite erano nervose per quanto riguardava la performance degli italiani in questa nuova prova bellica. I primi mesi di combattimento avevano già chiarito che la guerra di trincea non fosse il campo da gioco adatto ad atti di eroismo vecchio stile: sul fronte occidentale, migliaia di uomini caddero vittima di crolli nervosi, attacchi di pianto, incubi[4].

Barbara Bracco, in La patria ferita. I corpi dei soldati italiani e la Grande guerra, ha sottolineato come i mutilati e i menomati rappresentarono nel tempo e nello spazio la memoria fisica, la testimonianza vivente dell’esperienza bellica sconvolgente che fu il primo conflitto mondiale. La guerra avrebbe segnato in modo permanente quel corpo nazionale, investito negli anni precedenti da una cura maniacale per la sua forma fisica e la sua salute.
Le conseguenze del conflitto, impresse non solo sul corpo ma anche sullo spirito dei soldati, non fecero che aumentare i sospetti sui segni di cedimento della virilità occidentale. I medici affrontarono la situazione con una durissima cura a base di scosse elettriche e umiliazioni, con lo scopo di indurre nei soldati vittime di nevrosi da guerra un po’ di «autocontrollo», di cui ogni “vero uomo” avrebbe dovuto essere naturalmente dotato[5]. Le forme più estreme di panico sembravano il manifesto della perdita totale dell’autodisciplina, quando anche i più bravi ufficiali, abituati a superare la prova del fuoco, cadevano vittime della paura.

Se da una parte è indubbio il legame tra mascolinità e militarismo, accentuato dalla coscrizione obbligatoria, dall’altra è innegabile che la guerra mise a dura prova l’immagine del soldato virile, forte, coraggioso, impassibile di fronte alla morte in nome della patria e del Re, perché la stanchezza, la confusione e la depressione erano impressi e ricorrenti sul corpo dei soldati. Di fronte alla totale arbitrarietà della morte, quando era la sorte a decidere chi cadeva e non l’eroismo, le virtù militari non venivano più legate all’ardore virile, ma alla capacità di resistere e ubbidire. Gli storici che hanno affrontato gli effetti “svirilizzanti” del conflitto, si sono soffermati sulle preoccupazioni generate dalla incapacità di rispettare le aspettative di coraggio e autocontrollo riposte in loro. Questo timore derivava dal codice di virilità incentrato sulla capacità combattiva.

Ad esempio, Elaine Showalter, in Rivers and Sassoon. The inscription of the Male Gender Anxieties, ha mostrato come lo choc da bombardamento rappresentasse anche una forma di fuga da questo modello troppo rigido di virilità. Dal momento che il codice comportamentale rendeva impossibile il mostrarsi deboli e vulnerabili, esprimere la paura significava infatti rifiutare più o meno consciamente non solo la guerra, ma anche una concezione troppo performativa della mascolinità. Questi fattori, che mettevano totalmente in discussione lo stereotipo del soldato ipervirile, pronto a sacrificarsi per la patria, portarono alla creazione di una nuova immagine dell’eroe: una mascolinità caratterizzata dall’amore per la casa e la famiglia e il desiderio di una vita tranquilla. I feriti della guerra assumevano poi caratteristiche ritenute femminili: passività, dipendenza dagli altri, fragilità, vulnerabilità, infantilismo. La principale causa di destabilizzazione viene identificata nella perdita di una mobilità indipendente, della forza, dell’azione, sfociante in un rapporto problematico con la propria identità di genere[6].

Venne dunque emergendo questo nuovo tipo di eroe, borghese, consapevole dei rischi a cui andava incontro, soldato per dedizione e senso del dovere e non per irrefrenabile piacere di uccidere, capace di azioni violente senza per questo perdere la propria moralità e il proprio autocontrollo. Ciò che veniva richiesto agli ufficiali era infatti di formare «un soldato non di sentimenti aggressivi, ma d’animo mite, di mente calma, di cuor risoluto».

Sarebbe una grande illusione la nostra se credessimo di poter preparare disciplinarmente il soldato italiano ad una guerra di conquista violentatrice dell’altrui diritto; potrà ubbidire ma non consentire: tal genere di guerra suona stridentemente alla nostra coscienza invasata da un gran sentimento di giustizia[7].

Di questo stereotipo alternativo si fecero promotori i socialisti, i quali tentarono durante la guerra di proporre un modello più pacifico, fondato sulla solidarietà piuttosto che sulla lotta. Anche l’aspetto esteriore veniva esaltato: corpi robusti, magri, muscolosi, scattanti, volti segnati dalle infinite morti a cui si era assistito. La liberazione emotiva che si trovava in battaglia dipingeva i soldati come ebbri di sangue e folli di rabbia: un’esuberanza che implicava non una repressione della sessualità, bensì un nuovo orientamento: i giovani incanalarono la propria sessualità nell’aggressione contro il nemico. Infatti, il servizio militare si rivelava spesso una occasione di iniziazione sessuale. L’immagine del soldato, tra eroismo e forma fisica, buone maniere e divisa, diventò il modello ideale di mascolinità, coniugazione di eleganza, marzialità e signorilità.

L’omoerotismo nelle trincee

Nell’intimità della trincea, dove i soldati erano costretti a vivere in continuo contatto, la diffusione di certi stereotipi era veloce. Invero, tutti i soldati, identificati come componenti di un’esperienza collettiva e non come individui, provarono durante la guerra una qualche versione di fraternità; per questo l’ideale del cameratismo divenne una delle componenti più solide del mito della guerra. Il cameratismo nelle trincee fornì ai soldati la prima esperienza di vita in comune, dove l’assistenzialismo reciproco era necessario alla sopravvivenza, e dove esisteva una rude uguaglianza tra ufficiali e truppa. Ciò portava ai soldati una sorta di piacere di sentirsi parte di un organismo collettivo e di vivere in intima unione con i propri commilitoni. Essenziale era la fedeltà al gruppo, il bisogno di non tradire i propri compagni e di non lasciarli soli di fronte al pericolo[8]. Il mito del cameratismo, per essere stato in buona parte creato dagli ufficiali, conteneva un’abbondante dose di sentimentalismo per gli uomini, perché molti militari, appartenenti alle classi superiori, avevano incontrato le cosiddette classi inferiori per la prima volta nelle trincee. L’«uguaglianza naturale» non escludeva la gerarchia, ma presupponeva, al contrario, una «guida naturale», all’interno di una comunità interclassista, che poteva essere assunta soltanto da coloro che avevano messo sé stessi alla prova nell’azione, e che possedevano virtù virili e sembianze maschili.

Anche in questo caso il ruolo dell’apparenza fisica nel carisma del comando possedeva elementi omoerotici difficili da sopprimere; ad esempio, Francesco Sapori, scrittore e critico d’arte romagnolo, sottotenente di fanteria durante la guerra, nel suo romanzo La trincea, descriveva il proprio capitano come «giovane, alto e bello da guardare».

Il mito del cameratismo e della “comunità maschile” aveva avuto una profonda e ampia risonanza attraverso il movimento tedesco del Männerbund[9] omoerotico, fondato dal giovane studente berlinese Hans Blüher all’inizio del XX secolo, sulla base di una precedente partecipazione al movimento giovanile tedesco esclusivamente maschile, il Wandervogel, formatosi nel 1897 nella periferia berlinese di Steglitz grazie all’impegno del docente Herman Hoffmann Fölkersamb[10]. I membri del Wandervogel avevano la passione delle passeggiate nelle campagne e nei boschi della regione; dal gruppo, cominciò ad emergere anche una sorta di ribellione giovanile contro il mondo degli adulti, contro la mentalità piccolo borghese dei loro genitori, contro la civiltà urbana e la vita normale dei loro coetanei giovani. Convinti che solo nella natura e non nella civiltà moderna si potesse trovare il significato della vita, il loro profondo spirito antiborghese si esprimeva nella vita del campo e nel cameratismo.

Il gruppo patrocinava ogni tipo di attività giovanile, come escursionismo, campeggio, sport di gruppo, canto, con una forte attenzione sull’indipendenza, la responsabilità e lo spirito di avventura. Provavano un profondo disprezzo per il mito borghese del denaro, della felicità materiale, del successo, della vita comoda, oltre che per gli pseudo-valori della società liberaldemocratica. Nonostante ciò, erano fortemente nazionalisti e sognavano la rinascita della Germania attraverso i Männerbünde (“ordini virili”), ovvero piccole cerchie unite dal culto dell’amicizia e del cameratismo. Blüher, avendo aderito al programma quando aveva solo 14 anni, nel 1902, apprezzava il cameratismo omosociale delle escursioni e dei canti e la leadership carismatica di un Führer (o capo). Ebbe alcune relazioni omosessuali, soprattutto durante la scuola, così come i suoi compagni. «Tra coetanei, le relazioni erotiche erano molto appassionate; nelle tenebre, eravamo come travolti da una passione sconvolgente». Almeno fino ai venti anni ebbe altre relazioni con giovanotti, per poi approdare alle relazioni romantiche con le donne nel 1908.

Attingendo alla propria esperienza personale adolescenziale, nel 1912 pubblicò una storia in tre volumi del movimento Wandervogel. Il Männerbund divenne una teoria popolar-sociologica nonché un tropo culturale per spiegare la socialità maschile a tutto tondo. Per Blüher e i suoi contemporanei fu difficile non considerare le truppe smobilitate dopo il novembre 1918 come manifestazioni del Männerbund, cosa che apportò al successivo movimento nazista un modello sociologico e un substrato intellettuale. Il movimento riuscì anche a diffondere la cognizione dell’amore tra persone dello stesso sesso e ne preparò un’incerta accettazione, nonostante la persistente e spesso agguerrita resistenza da parte di molti conservatori. Infatti, non vi erano motivi validi per condannare un adulto apertamente omosessuale se, come il suo modello di Männerbund richiedeva, poteva anche essere un virile nazionalista e forse addirittura un capo militare e politico.

Paul Fussell in La grande guerra e la memoria moderna ha specificato come l’omoerotismo della prima guerra mondiale debba essere inteso come amore casto e sublimato, basato su legami maschili intimi, ma privi di implicazioni sessuali. L’omosessualità attiva fu assai rara al fronte. Ciò che si rivela, invece, fu piuttosto una sorta di «cotte idealistiche» e appassionate ma non fisiche che gli ufficiali avevano provato a scuola. Ad ispirare reazioni del genere erano un bell’aspetto faunesco, innocenza, vulnerabilità, fascino. Il fine era l’affetto, la protezione e l’ammirazione reciproci. In guerra come a scuola, queste passioni funzionarono come antidoti contro la solitudine ed il terrore.

Ad esempio, J.R. Ackerley, durante la guerra, così raccontava nel suo romanzo Mio padre ed io[11], apparso postumo nel 1968: «Non incontrai mai un adulto che fosse manifestamente, o per sua ammissione, omosessuale…; semplicemente l’esercito, con i suoi rapporti tra uomini, fu un prolungamento della scuola». Lui stesso, mentre era nell’esercito, riuscì a sublimare la propria omosessualità in qualcosa di puramente estetico e «ideale».

Le mie staffette e ordinanze personali erano scelte di solito per il loro aspetto; del resto, durante la guerra si poté osservare in molti altri ufficiali la stessa tendenza ad avere attorno a sé i soldati più prestanti; se poi costoro abbiano tratto da questa relazione stretta, omogenea e quasi paterna più vantaggi di quanti io abbia potuto supporre, non so. 

Per quanto riguarda l’Italia, il cameratismo violento e misogino era in realtà una rarità, un’eccezione piuttosto circoscritta. Infatti, nella maggioranza dei casi, alla rude socialità maschile si univano forme più tenere e delicate di amicizia, incentrate sulla compassione e sul prendersi cura l’uno dell’altro. A rinsaldare i legami era soprattutto l’affidare la propria vita ai compagni. La vita in trincea era talmente intima, che non vi era più spazio per la rispettabilità borghese e per le buone maniere; ogni cosa veniva fatta di fronte ai propri commilitoni, annullando completamente la privacy, condividendo nudità e funzioni corporali. Il contatto fisico costante permetteva una maggiore dimestichezza con la propria identità di genere: ciò però poteva portare ad attivare un’omosessualità rimasta fino ad allora latente. Non a caso, una delle preoccupazioni principali dell’esercito era proprio quella di prevenire questo problema, vietandone ogni minima manifestazione[12]. Proprio per le oggettive minacce alla mascolinità causate dalla guerra, gli omosessuali potevano costituire un cattivo esempio per i soldati, tanto che per evitare la diffusione del “contagio” si riteneva opportuno tenerli lontani dal fronte riformandoli e i sospetti venivano destinati alle compagnie di disciplina Fussell individua nel momento intimo del bagno, nudi, un’occasione perfetta per far emergere il clima dell’erotismo (oltre a quello dell’idillio pastorale). L’atto dell’affettuoso ufficiale che sorveglia i propri uomini divenne infatti una scenetta tipica in quasi tutte le memorie di guerra. Per Fussell, il quasi erotismo e il patetismo della scena del bagno serviva anche ad esprimere la tremenda fragilità della carne nuda, per sottolineare il contrasto tra questa e le crudeli armi che attendevano di spezzarla.

La guerra sembrava aver minato nelle fondamenta l’archetipo della virilità, mostrando la fragilità del soldato di fronte ai pericoli della battaglia: i suoi effetti destabilizzanti si mostravano soprattutto nei prigionieri di guerra. Nel loro caso, la cattura, la privazione della libertà, la condanna a sottostare al volere del nemico, portavano i soldati a perdere progressivamente la forza vitale e la carica virile, con la conseguenza, talvolta, che all’impotenza fisica si sommasse quella sessuale. La detenzione nei campi di prigionia finiva per cancellare ogni minima traccia di umanità di questi reclusi, abbandonati a loro stessi, spesso senza cibo e assistenza sanitaria. Il degradamento era conseguenza di una lotta per sopravvivere condotta senza esclusione di colpi che, oltre ad annullare ogni minima forma di solidarietà, finiva per allentare anche i freni morali. La virilità fu considerata l’ambito privilegiato di questa abiezione. Fiaccati nel corpo e nello spirito, senza più dignità e coscienza delle proprie azioni, alcuni prigionieri si lasciavano infatti andare all’autoerotismo e all’omosessualità. Paolo Monelli, nel suo romanzo diaristico Le scarpe al sole, raccontava della degradazione morale a cui aveva assistito.

C’erano dei maschietti del novantanove vestiti da donna che si dimenavano sotto gli occhi lucidi dei colleghi. Ci sono state delle scene di gelosia, dei corteggiamenti. C’erano quelli che a far la donna ci avevan preso gusto, stavano tutto il giorno seduti sulla finestra in spoglie femminili a cucirsi dei corredini trasparenti, e civettavan con i dami che se li contendevano. Ci fu uno che andò al comando austriaco a protestare perché l’altro non gli voleva più bene. E alla sera, champagne e abbracci.

E per dimenticare questi atteggiamenti degradanti, bisognava riaffermare con forza la propria virilità: «Mi chiusi in camera con i due amici taciturni, e in fondo alla bottiglia ritrovammo la nostra guerra scarpona e il nostro ritroso orgoglio di combattenti».

L’accusa di degenerazione omosessuale venne utilizzata anche per demonizzare e screditare, durante la prima guerra mondiale, i tedeschi; il popolo teutonico, accusato di pederastia e “degenerazionismo”, era rappresentato nella figura dei suoi soldati come individui effemminati. Già nel 1902 uno scandalo del genere aveva investito l’élite tedesca: venne infatti alla luce che il ricco industriale Friedrich Alfred Krupp, il “re dei cannoni”, avesse come interesse i maschi adolescenti. Nella villa privata a Capri o a Berlino all’Hotel Bristol, si circondava di ragazzi italiani; quando le sue scappatelle vennero rivelate grazie alla stampa, gli agenti italiani bandirono Krupp nella primavera del 1902 per aver fatto sesso con minori[13]. I giornali italiani, soprattutto il quotidiano napoletano socialista «La propaganda» denunciarono la questione e dipinsero Krupp come corruttore dei giovani capresi; il «Vorwärts», rivista del Partito socialdemocratico tedesco, con lo scopo di tormentare il “nemico di classe”, pubblicò l’intera vicenda in un articolo del 20 ottobre 1902. Krupp valutò l’opzione di far causa per diffamazione, ma venne diffidato dall’intraprendere azioni legali se la sua coscienza non fosse stata pulita. Il 22 novembre 1902 l’industriale venne trovato morto in circostanze misteriose. Neanche il Kaiser Guglielmo II fu risparmiato: investito nel 1907 dallo scandalo sessuale sulla presunta perversione della sua corte, veniva descritto circondato, nel suo gabinetto, da un covo di depravati. A questo proposito, in Italia, Giuseppe Senizza sosteneva che l’omosessualità fosse insita nella natura etnica dei tedeschi, perché il loro culto della forza, delle «forme aspre, rudi, brutalmente e francamente virili», del dominio, del militarismo, della crudeltà e della guerra li portava inevitabilmente a disprezzare «la mitezza, la gentilezza, la debolezza propria della femminilità». Continuava Senizza sostenendo che «il Teutono sprezza la donna perché ama la forza, la violenza, la virilità brutale. Esso in erotismo tende all’omosessualismo od al sadismo, come in politica tende all’imperialismo e all’assolutismo militarista».

Così in Germania, il «daltonismo erotico», presente anche in altre parti del mondo, diventava «da individuale a collettivo, da sporadico a endemico», tanto che persino il caso della «Tavola Rotonda di Harden» non suscitava in madrepatria una reale indignazione, ma anzi “l’omosessualismo” veniva addirittura considerato un segno di superiorità etnica[14]. L’accusa generale nei confronti della Germania era che avesse provocato la guerra per distogliere l’attenzione dalla piaga della pederastia e dare un’immagine virile al suo popolo irrimediabilmente corrotto. Tanto che in Italia, il ginecologo Luigi Maria Bossi, medico e deputato socialista, dichiarava che bisognava lasciare «a Berlino di rivendicare a sé gli albori di Sodoma e Gomorra», scagliandosi contro i «mogli», ovvero quelle persone «simili ai rappresentanti del terzo sesso, […] ammiratori e difensori della cultura tedesca»[15].

Dopo Caporetto

L’omosessualità venne quindi ascritta come pericolosa minaccia all’avvenire della nazione, alla salute della razza, all’ordine della famiglia e alla morale dei cittadini. Al contrario, la guerra venne esaltata come esperienza che dava nuova forma al popolo e le trincee i luoghi dove i soldati stavano sorgendo come nuova élite. Giuseppe Prezzolini, in una lettera a Giovanni Papini, Dopo Caporetto, pubblicata nel 1919 sul giornale «La Voce», descriveva questa nuova élite come composta di persone serie, che si impegnavano duramente e facevano il proprio dovere senza attirare l’attenzione su di sé. Prezzolini era chiaro su chi imputare la colpa della disfatta di Caporetto.

Questo è certo e fondamentale: che non si tratta di una catastrofe militare, derivante soltanto da errate disposizioni di un generale o di uno stato maggiore, o unicamente da un tradimento, o principalmente da due inferiorità d’armi e di uomini; bensì da un disgregamento morale, repentinamente rivelatosi, in un momento critico e sopra una così larga parte dell’esercito, da far perdere a questo, in un periodo di pochi giorni, due terzi della sua efficienza bellica, quasi tutto il suo materiale di guerra, posizioni conquistate in due anni e mezzo di dura lotta.

Auspicava dunque una trasformazione politica, sociale, culturale; una rigenerazione di questa «piccola Italia», dove il male era palese, evidente, innegabile.

Se noi usciremo dalla guerra con i nostri confini naturali e finalmente consci della nostra realtà di popolo che ancora è da fare, di nazione inferiore alle grandi che si contendono la direzione del mondo; se saremo capaci del modesto e serio programma di prendere questa «piccola  Italia» e cominciarne l’educazione e il dirozzamento, se potremo cacciare dal governo gli elementi malsani e incoscienti, iniziando dall’alto un regime di giustizia e di severità  generale; se l’abisso fra chi comanda e il popolo sarà colmato e correrà dall’uno all’altro un ricambio di energie e di fiducia; allora questa catastrofe non sarà stata invano e fra venti anni gli stranieri dovranno rispettarci assai più di quello che farebbero se avessimo carpito, con immeritata fortuna, il posto che nel mondo non ci spettava né per forza né per maturità di animo.

Dopo la fine della guerra la “rigenerazione” diventa una parola chiave dei linguaggi politici, i quali, indipendentemente dall’angolatura ideologica di riferimento, alimentano la nostalgia di un “uomo nuovo”, capace di sorgere moralmente rigenerato e fisicamente perfetto dalle ceneri della società borghese. Specie dopo un conflitto che ha messo a disposizione di larghe masse di cittadini-soldati il consumo retorico di un ideale aristocratico-virile che fa dell’efficienza fisica, della forza, della salute, della gioventù, un elemento centrale per la definizione dell’identità individuale nell’era delle masse[16].

L’idea di una rigenerazione attraverso la guerra e la conquista non era una novità, ma con la fine del conflitto era accompagnata da una sorta di urgenza, da un linguaggio violento ed estremamente connotato in termini di genere, dall’imporsi di un aggressivo movimento politico che chiedeva una politica energica, nazionalista e imperialista. Riducendo il proprio vocabolario morale a poche parole chiave da cui era scomparsa ogni preoccupazione per altri valori, i nuovi nazionalisti enfatizzavano costantemente il senso di disciplina, del dovere e del sacrificio personale, la fede e la sincerità, virtù che avrebbero infranto le abitudini di un popolo tendenzialmente indisciplinato, inaffidabile, servile, legato al proprio piccolo tornaconto e propenso al compromesso. Queste idee entrarono a far parte integrante del vocabolario del fascismo, informandone, una volta che giunse al potere, il progetto di “rifare gli italiani”[17].

[1] Mosse, G.L., Sessualità e nazionalismo. Mentalità borghese e rispettabilità, Roma-Bari, Laterza, 1984, p. 131.

[2] Mantovani, C., Rigenerare la società. L’eugenetica in Italia dalle origini ottocentesche agli anni Trenta, Soveria Mannelli, Rubbettino Editore, 2004, p. 146.

[3] Cassata, F., Molti, sani, forti. L’eugenetica in Italia, Torino, Bollati Boringhieri, 2006

[4] Mosse, G.L., L’immagine dell’uomo. Lo stereotipo maschile nell’epoca moderna, Torino, Einaudi, 1997

[5] Zanotti, P., Il gay: dove si racconta come è stata inventata l’identità omosessuale, Roma, Fazi editore, 2005

[6] Benadusi, L., “Il corpo del soldato. Militarismo, mascolinità e nazione dal Risorgimento alla Grande Guerra”, in Nuove frontiere per la storia di genere vol. III, a cura di Laura Guidi e Maria Rosaria Pelizzari, Salerno, Libreriauniversitaria.it, 2013

[7] Colbertaldo, C., Riassunto delle materie di cultura militare per gli allievi ufficiali di completamento, Bologna, Cappelli, 1916

[8] Benadusi, L., Ufficiale e gentiluomo. Virtù civili e valori militari in Italia, 1896-1918, Milano, Feltrinelli, 2015

[9] Letteralmente “Gruppo di uomini adulti”

[10] Beachy, R., Gay Berlin. L’invenzione tedesca dell’omosessualità, Milano, Bompiani, 2016

[11] Ackerley, J.R., My Father and Myself, New York, 1969 (trad. it. Mio padre ed io, Milano, Adelphi, 2000)

[12] In Italia l’esercito era l’unico luogo dove fosse vietata espressamente l’omosessualità e punita con il passaggio in una compagnia di disciplina. 

[13] In quel periodo non era vigente alcun tipo di legge antisodomia in Italia, se non nell’esercito.

[14] Senizza, G., Corruzione sessuale e crudeltà germanica, Firenze, Istituto Editoriale “Il Pensiero”, 1917

[15] Bossi, L.M., La cultura dei tedeschi e quella degli Alleati, Venezia, Libreria Editrice Nazionalista, 1917

 [16] Mantovani, C., Rigenerare la società. L’eugenetica in Italia dalle origini ottocentesche agli anni Trenta, Soveria Mannelli, Rubbettino Editore, 2004

[17] Patriarca, S., Italianità. La costruzione del carattere nazionale, Roma-Bari, Laterza, 2010

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↔ In alto: John Singer Sargent, Studies for “General Officers of World War I”, 1920-1922.

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