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Aspettiamo che arrivi l’uomo con le corde. Oggi siamo quattro, due e due, rami millenari ci sorreggono; restiamo seduti in attesa. Aspettiamo che arrivi l’uomo con le corde. L’albero che ci accoglie ha l’età dei miti, un’età astuta fatta di flutti e ricami, con cui non possiamo competere, ma a cui dobbiamo prostrarci – i nostri tendini non sono radici: potremmo conficcare le dita nel terreno per millenni senza che il vento smetta di abbatterci, perché uomo e albero non appartengono allo stesso ordine di natura, né possono in ugual maniera partecipare all’universo. Persino uccidendo l’albero per guardare i cerchi del tronco e contarli, ci perderemmo prima di essere arrivati al centro. E se uccidere una pianta sacra senza motivo è peccato, massacrarla per curiosità è inaudito. Da generazioni cogliamo le sue foglie con mormorii di scusa e ne estraiamo clorofilla per il sangue, perché il respiro non crolli, perché il nostro ciclo mestruale arrivi quando deve e sia clemente. Ma la notte, nel sonno, sentiamo l’aria gridare e sappiamo che l’urlo parte dai rami e il soffio lo porta con la scorta degli astri, per ricordarci che vento e albero e uomo siedono su gradini diversi del mondo e per la vicinanza dei pioli sulla scala possiamo solo ringraziare. E benedire.

La corteccia su cui sediamo è rugosa, i suoi solchi sono l’alveo di fiumi di insetti. Il loro scorrere è misura di un tempo che non ho ancora imparato a calcolare; velocità e distanza non danno risultati accettabili, perché il risultato non esiste,  è tutto attesa e fusione. Qualche formica mi ha già valicato il ginocchio. Il mio ramo è spesso, scalfito da tagli e incrostazioni di secoli; le mie croste sulle gambe sbucciate. Ho provato a scavare anche io un segno con l’unghia, qualcosa che serva per dire ai prossimi che qualcuno è stato qui. Che non devono avere paura. Le schegge che mi rastrellano la carne morbida sono l’ultimo regalo del tronco.

Nessuno di noi ha realmente paura, o bisogno di sapere che non è solo: il nostro è un popolo rispettoso delle tradizioni. I vecchi dicono che un tempo l’esecuzione riuniva tutto il paese sotto il grande albero, che le giornate erano torride e la folla piangeva e si torturava con le dita la bocca dello stomaco, in silenzio. Col tempo sono rimaste a guardarci solo le nostre madri dal capo rasato – donare le chiome e i germogli, i nostri corpi trascinati via in dono e le ciocche di capelli neri sparsi al suolo, arsi dal sole nel giro di poco, nuova cenere che concima la terra. Oggi non c’è più nessuno. Non c’era nessuno nemmeno per i nostri fratelli e le nostre sorelle prima di noi. Non so se i piedi dei nostri padri scalciassero ancora sulla testa di qualche spettatore muto.

Una tradizione non è crudele: è una tradizione. E ogni sacrificio, per quanto ferino o efferato, è inesorabile. Per questo aspettiamo che l’uomo con le corde torni a impiccarci, e aspettiamo con la tranquillità di chi apparecchia la tavola per il ritorno dei propri cari, incastrando le simmetrie disperse di piatti e posate, e manda le figlie a raccogliere fiori nel campo quadrato dietro casa. Mia madre aspetta il ritorno dei miei fratelli affamati, mia sorella con le dita ormai gialle starà sfilando dei crochi da terra, piano, per non spezzarne lo stelo, e oggi sulla tavola ci sarà un piatto in meno. Sono contenta che non sia qui. Ma noi siamo pronti. Siamo pronti madre al sapore di ruggine che avrà la gola mentre la corda si stringe, pronti a sentire l’aria mancare e a morire senza avere nessuno, sono pronta, sono stata allevata per questo e ho nelle mani le vene delle tue mani le righe delle tue mani più una, quella che diceva che sarei finita qui, a farmi corpo a farmi rito a farmi offerta, perché io muoia e viva dopo la morte e voi possiate mangiare e vivere con la mia morte e che nulla vi vada di traverso.

Un tempo tra i rami saremmo stati quattordici. Sette e sette, com’è scritto, com’era in passato. L’albero ha pianto per secoli sotto il peso di tante vittime. Ma noi ci siam fatti più grandi, siamo la stima diversa di una sola merce esposta sui banchi al mercato, dove una spezia migliora a due ceste di distanza anche se porta lo stesso nome – perché il nome non è la cosa, né lo è il prezzo, né l’odore la grana il colore sono la cosa: il suo più intimo valore è la cosa. Oggi offriamo frutti maturi e compensiamo col peso la quantità dei doni. Lui continua a proteggerci: il nostro raccolto prospera, le nostre case non crollano, non ci sono nemici che attaccano le nostre mura. Oggi deporranno le nostre corone ai piedi del suo altare, all’ingresso del labirinto, porteranno dentro i nostri corpi e saremo ancora tutti salvi.

Il labirinto è scavato nel terreno. Questa sera qualcuno entrerà. I suoi cunicoli sono infiniti e le sue stanze enormi, tanto che, se anche si potesse scoperchiarlo, nessuno potrebbe garantire di saperlo mappare; la sua enormità lo rende, come l’albero, intoccabile. Siamo un popolo che accoglie ciò che non può comprendere e sceglie di venerarlo, che trasforma la repulsione in codice per renderla leggibile e legge ai bambini solo ciò che è codificato, per non avere paura – e ci riesce: noi qui, madre, noi ora, noi non abbiamo paura, non ci faranno paura il buio o il gorgoglio dei mostri, perché dove non arriva la luce del sole non cala la notte e dove le orecchie non sentono non c’è rumore, non avremo paura di vederci disfare una pelle che non sarà più nostra, perché noi non saremo più noi, non siamo noi nemmeno qui, nemmeno ora, mentre aspettiamo di non essere più.

Ogni volta che qualcuno entra nel labirinto, deposita i nostri cadaveri in punti diversi. Non si può sapere se vengano accolti, o se ci stiamo accumulando insensatamente per il presunto bene della nostra terra. Dedalo ha creato la fertilità tre volte, questo ci hanno insegnato e questo portiamo con noi sottopelle. La prima volta, creando la giovenca per Pasifae, lasciando che il legno le donasse un corpo di bestia, le schegge si facessero vello e potesse generare quello che ha generato. La seconda, quando ha dato vita al labirinto e con esso ai nostri miti. La terza, quando col nostro sangue ha fatto rinascere questi campi.

Mi guardo i piedi. Nessuno ci ha mai potuto dire che ogni cosa guardata per l’ultima volta sembra diversa. Ho un nuovo neo sotto l’alluce destro. Sulla pelle, in miniatura, c’è lo stesso deserto che abbiamo strappato alla terra, fatto di solchi bianchi tra le cellule – non avevo mai pensato che quello che era polvere tornerà polvere in un futuro reiterato, un futuro che è già presente e annulla i piani temporali: tutto è polvere.

Da quest’albero dominiamo il mondo e il mondo non ci vede. Chissà come ci vedrebbe. Quest’ultimo sguardo che ho è l’unico sguardo che potrebbe essere realmente speculare, in cui noi siamo noi più qualcosa e voi potreste essere voi più qualcosa e saremmo tutti diversi. Ugualmente diversi in modo diverso. Ma nessuno ci guarda. E l’uomo con la corda è cieco.

È tornato.

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↔ In alto: foto di Adarsh Kummur su Unsplash.

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