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Tutto ciò che c’è, c’è già.
Allora nei miei pezzi che si fa?
Renderò possibile l’impossibile
fino a rendere possibile la realtà.”
Caparezza

Tutto comincia come in una sessione d’ipnosi, con un personaggio notturno, violento e malinconico come un fauno, che apre porte, le porte labirintiche di Venezia, quelle che conducono a misteri, porte come tavole di un fumetto, indovinando parole d’ordine e raggiungendo l’elegante covo di un gruppo di giovani telepatici. Siamo a Celestia, che sta a Venezia come Gotham City sta a New York. Quei ragazzi cercano Dora, ragazza affascinante e bizzosa, con poteri telepatici più grandi di lei e di tutti.

Da una parte dunque c’è Dora, che era già apparsa ne L’intervista, dall’altra Pierrot, guida infernale che ogni mattina disegna una lacrima sotto il proprio occhio per non dimenticare la propria tristezza: questi due primi personaggi si impongono all’autore, si conquistano il ruolo di protagonisti. Entrambi fuggono da un potere non voluto, da responsabilità non cercate, passando di nascondiglio in nascondiglio.

Non c’è in questo fumetto una ricerca ossessiva dell’imprevisto, l’avventura è data dall’atmosfera, dai personaggi che appaiono d’improvviso per andarsene ancora più rapidamente, felliniani. La silhouette di Pierrot e il volto di Dora si impongono; in particolar modo il volto della ragazza, che cadenza il racconto con il suo naso sgraziato e le espressioni che cambiano in un batter di ciglia, inquadrata senza preavviso, quando meno se lo aspetta. I due fuggono, e per fuggire toccano la Terraferma, dove il resto del mondo era stato lasciato a morire: Celestia è una Venezia al quadrato, che ha tagliato i ponti per cercare di diventare trascendente come in Moebius. Dopo una luminosissima pianura si ritrovano davanti a un bambino, in un castello vuoto e perfetto, costruito per resistere all’invasione, dove però il ricordo delle ragioni che ne giustificano l’esistenza si è perso nella memoria… Il bambino sembra aspettarli: dopo pochi scambi, si preparano a partire.

Così si chiudeva il primo volume; ora, a distanza di pochi mesi, eccone il secondo, sempre per Oblomov, dove Fior ha seguito Igort da Coconino Press. Pierrot e Dora continuano l’esplorazione della Terraferma, conoscono il mare, l’amore, conquistano alcune verità, scoprono altri castelli e altre pianure, e il Nido dove bambini senza ancora un nome salvano chi è restato, crescendo, loro, con un’idea dinamica di futuro. A quel punto possono tornare a casa: Dora e Pierrot vanno incontro ai propri destini, le profezie possono compiersi.

Nel mostrare al mondo per la prima volta l’effetto di questa doppia copertina, Fior citava con affetto e riconoscenza gli X-Men. È forse difficile da credere, perché il fumetto è di per sé un sottobosco, ma ci sono degli esclusi anche qui, soprattutto dopo che è nato un nuovo pubblico impomatato e schizzinoso. Fior è però classico e pesca dappertutto.

Nel mostrare al mondo per la prima volta l’effetto di questa doppia copertina, Fior citava con affetto e riconoscenza gli X-Men. È forse difficile da credere, perché il fumetto è di per sé un sottobosco, ma ci sono degli esclusi anche qui, soprattutto dopo che è nato un nuovo pubblico impomatato e schizzinoso. Fior è però classico e pesca dappertutto.

Celestia è l’estremo isolamento dal mondo, lei lo allontana e lui la dimentica. Tutto vi scorre uguale, cadenzato. Ma uguale a cosa? Qualcosa forse di bello e poetico eppure stantio, ammuffito. Chi l’ha separata dal resto e da tutti aveva l’illusione che tutto potesse ricominciare da lì; ma ciò che nasce dalla paura genera paura e violenza: Celestia è oscura e illuminata da vampate demoniache, popolata da maschere e gang nei bassifondi costeggiati da Pierrot, abitata dalla banda arroccata di ragazzi con poteri telepatici, da figure solitarie malinconiche e inquietanti.

Nel fumetto di Fior Celestia è notte e carnevale, non c’è evasione, è tutto un gioco rituale: sembra una delle città oscure di Peeters e Schuiten. L’unica luce proviene dall’umanità futura, e a quest’elogio si accompagna anche un ritorno alla giovinezza del fumetto: un personaggio semi-seriale, Dora; una divisione in albi (per quanto il ciclo si presenti come concluso); l’invenzione di altri mondi.

Il tavolo da lavoro di Fior, dal suo profilo Facebook.

Il tavolo da lavoro di Fior, dal suo profilo Facebook.

Venezia è una delle grandi patrie del fumetto italiano, e qualcosa di questa tradizione torna: l’inquietudine di Battaglia, i nudi di Crepax… Non è la Venezia di Canaletto o di Tiepolo, piuttosto quella oscura tra l’arsenale di Dante e i quadri di Bellini, la Venezia bizantina di Ruskin, ripete Fior a ogni piè sospinto, quella oscura intrigante e intricata del primo episodio di Dago.

E poi c’è Pratt tra i maestri veneziani: per l’onirico metafisico di cui Fior si nutre si parte dalla sua Favola di Venezia, «beffardo gioco meraviglioso». Fior però mischia il sogno a una velocità da supereroi, a uno stile a tratti schiettamente cinematografico, con tagli da cartone animato. Ha una densità e concretezza delle immagini che vanno in un’altra direzione, esplosiva, rispetto alla progressiva rarefazione che caratterizzava, invece, il creatore di Corto Maltese. E insieme a Pratt c’è Lorenzo Mattotti, che veneziano non è ma che a Venezia ha studiato, architettura. Di Mattotti Fior sembra ricordarsi l’uso non mimetico del colore e i suoi i viaggi al cuore della tenebra. Pierrot attraversa il mare senza sapere cosa c’è al di là, la terraferma lo stupisce, e questo è il cuore fisico e ideale del racconto: tutto ciò che è arroccato è suicidio, non-vita, il mondo è la fuori e deve essere esplorato, c’è una luce che ci chiama e deve essere seguita, rincorsa, sulla scia di Miyazaki.

Il mondo raccontato in Celestia è aperto come per Pierrot anche per il lettore, che segue complice i personaggi e cui resta l’immaginazione di altre fortezze e altre pianure: è un eterno movimento, necessario e inesorabile, che Fior mette in scena, che dialoga con il picaresco e l’Odissea, che rima con le migrazioni di ogni tempo attraverso la citazione della Profezia di Pasolini in epigrafe al secondo volume:

[…] e prima di giungere a Parigi
per insegnare la gioia di vivere,
prima di giungere a Londra
per insegnare ad essere liberi,
prima di giungere a New York,
per insegnare come si è fratelli
— distruggeranno Roma
e sulle sue rovine
deporranno il germe
 della Storia Antica.

 

Celestia cartella 1_page-0001Celestia cartella 2_page-0001Celestia cartella 3_page-0001Celestia cartella 4_page-0001↑ La Venezia infernale (vol. 1), il primo castello (vol. 1), l’arrivo al Nido (vol. 2), l’ultima battaglia (vol. 2).

Architetto di formazione, Fior sembra a volte ripensare la realtà con quello che avrebbe potuto essere: l’esasperazione della realtà dà accesso all’immaginario, il capriccio è segno che una struttura ti appartiene. Le architetture che sostengono l’impalcatura del racconto sono tutte diritte: un modernismo logico che classifica e imprigiona. Dall’altra parte stanno invece l’acqua e la pianura, l’inconscio con Schnitzler e Spilliaert, l’oscurità di Brodskij.

Fior oscilla tra una tensione improvvisata, ingenua, legata alla sfida dell’ignoto vincolata alla tecnica, e una precisione apollinea, studiatissima. Nel nuovo volume ci sono delle tavole che ricordano Rothko, psichedeliche, che aprono nuove possibilità della percezione: sono nate da un sapere conquistato, non previsto a tavolino dal principio, nato dalla pratica e dalla sperimentazione (in questo preciso caso: come lavorare con un foglio semi-umido).

In Fior il colore non è volgarità e facilità delle sensazioni, non è imbroglio, ma senso. Il disegno tiene dietro all’idea di viaggio e di movimento, senza sapere che cosa ci si aspetta: a ogni luogo corrisponde una palette di colori, a ogni situazione un ritmo preciso e inatteso. La sceneggiatura si piega alle esigenze mimetiche delle allucinazioni e dell’azione, la scrittura cerca definizioni, proverbi, con uno stile da poesia epica (il dejà vu “è solo l’eco del suo pensiero nella testa di un altro”), il testo è continuamente in bilico tra una lingua nitida e la violenza degli scambi di strada.

Tutto in questo racconto avviene rapidamente, leggero, e tutti, personaggi, autore, lettori, tutti sono sollecitati a muovere verso l’ignoto, verso un’alternativa. Questa umanità nuova era già stata annunciata ne L’intervista, il fumetto di Fior dove Dora era apparsa per la prima volta: il mondo vi era «vecchio, e falso, stupido e senza senso, piccolo, ottuso, povero infelice e stanco, finito»: si salva chi si apre all’altro, chi si dona e si lascia esplorare, senza imbarazzo. I bambini di Celestia sembrano poter superare qualsiasi zona d’ombra, gettare il cuore oltre ogni ostacolo: il libro è pervaso da un’idea di speranza che oggi appare con ancora più forza.

Questa immagine di una barca in silhouette nel mezzo di una tempesta sembra essere uscita da una storia di Paperino (ovviamente rimaneggiata attraverso lo stile-Fior: il leone non è altro che montone assimilato).

Questa immagine di una barca in silhouette nel mezzo di una tempesta sembra essere uscita da una storia di Paperino (ovviamente rimaneggiata attraverso lo stile-Fior: il leone non è altro che montone assimilato).

Come simbolo di questo decennio rimarrà probabilmente il Joker di Todd Philips, mortificante, senza alcuno slancio e appello. Descrive e suggerisce una società malata e così diventerà, con merito, un film epocale. Eppure anche Celestia rimarrà come un chiaro segno dei tempi, però di qualcosa che si muove: se tanto Fior quanto Gipi, intorno a questi anni Venti, girano intorno a giovinezza e vivacità, ci deve essere un motivo.

Quelli di Fior sono bambini potentissimi e indifesi, inesorabili, che comunicano tra loro con la mente e si prendono cura di chi è rimasto: non è senso di potere, non è forma di giustizia, ma un’azione pura e naturale; non è più Enea, ma Ascanio, a prendersi sulle spalle il mondo. I sogni dei grandi diventano il loro territorio, e tramite il sogno li avvisano di quello che accadrà, li rassicurano; questa stessa storia esiste perché a un certo punto è stata sognata, questa stessa storia è un ponte verso un futuro che, ci dice Fior, sarà lieto:

C’è chi insegna
guidando gli altri come cavalli
passo per passo:
forse c’è chi si sente soddisfatto
così guidato.

C’è chi insegna lodando
quanto trova di buono e divertendo:
c’è pure chi si sente
soddisfatto
essendo incoraggiato.

C’è pure chi educa, senza nascondere
l’assurdo ch’è nel mondo, aperto ad ogni
sviluppo ma cercando
d’essere franco all’altro come a sé,
sognando gli altri come ora non sono:
ciascuno cresce solo se sognato.
Danilo Dolci

In un mondo dove tra terre e isole tutto è immobile, l’unico posto dove c’è un’idea dinamica è il Nido, dove cresce un’immaginazione di vita e di evoluzione, ricordando il mondo di Katsuhiro Otomo, stravolgendo Gramsci: «il vecchio mondo sta morendo. Quello nuovo tarda a comparire. E in questo chiaroscuro nascono» i bambini luminosi di Fior.

Celestia, 2° volume, pagina 48

Celestia, 2° volume, pagina 48.

 

 

 

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