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Uscito a fine gennaio per minimum fax, Gli dei notturni è il secondo libro di racconti firmato da Danilo Soscia dopo il ‘caso’ dell’Atlante delle meraviglie (ancora per minimum fax, 2018). La nuova impresa affonda le sue radici nella mitologia novecentesca, attraverso quaranta confessioni pronunciate per bocca di altrettanti personaggi noti della politica, dell’arte, della scienza, del cinema e dello spettacolo. Il corteo è a dir poco variopinto, e si va da Buffalo Bill che inaugura la sequenza fino a Virginia Woolf che la chiude (a questo personaggio è legato uno dei colpi di scena più memorabili dell’intero libro), passando per Aldo Moro e Ronald Reagan, fino alle più iconiche Marilyn Monroe e Marlene Dietrich, e così danzando. Una scrittura calma e suadente, un tono che trascorre senza soluzione dalla confidenza sussurrata al delirio, dal racconto paranoico alla seduzione esplicita. Nell’ultima opera Soscia non si risparmia in crudezza, lasciando che i suoi personaggi si spingano negli antri più angosciosi e bui per raccontare se stessi, il proprio tempo, le loro più intime paure, sviscerando traumi e tratteggiando incubi che turbano non poco l’immaginazione.

Lei ha scelto di scrivere un’opera sospesa, mediana, che sembra prediligere la trance (quella in cui si immerge, per esempio, Sylvia Plath nella sua rilettura del mito di Icaro), la visione escatologica (ve n’è un cenno esemplare nel sogno narrato in confessione da Giulio Andreotti), il soliloquio. Nella breve presentazione che accompagna il libro si parla di Artemidoro di Daldi e del suo trattato dedicato all’interpretazione dei sogni. Ci può spiegare quale legame esiste, se ne esiste uno, tra Gli dei notturni e quest’opera in particolare? Mi spiego meglio: il lettore troverà chiavi di lettura esplicite nei racconti che compongono la sua raccolta? Sarà in grado di tradurre i sogni che vengono raccontati dal corteo dei personaggi che appaiono nel corso della narrazione?

Credo che solo l’assunzione totale e incondizionata del punto di vista di questo o quell’altro personaggio possa attivare il nucleo tragico del libro, e quindi il suo significato più profondo. Se la domanda è: che cosa vogliono dire i sogni raccontati?, oppure: cosa rappresentano le figure, le azioni, i fatti che intrecciano la trama di certe visioni notturne? Ecco, a questo punto punto credo debba intervenire il lettore, occupando la nicchia che è stata scavata per lui. Chi scrive si è già consumato nell’evocazione: gli è quasi impossibile imporre un significato univoco a ciò che nasce, come il sogno, immerso in una potenzialità ennesima. Ciascuno farà la propria lettura, e a partire da questa parteciperà o meno della vita dei personaggi. L’Onirocritica di Artemidoro aveva un’aspirazione enciclopedica: concludere in un circuito di senso definito (e definitivo) il mondo dei sogni, declinarne le varianti fino alla particella originaria. Forse anche Gli dei notturni soffre della stessa ambizione: racchiudere una parte considerevole dello spirito di un secolo, ma senza fermarsi alle tesi, alle interpretazioni. Quando si narra credo si faccia da cassa di risonanza, non si recita a memoria.

A proposito dei suoi ultimi racconti si è parlato di ‘ipnografie’ – quasi un neologismo – per definirne la particolare natura. Se da una parte la biografia è la riduzione in scrittura della materia (spesso) caotica di una vita, l’ipnografia sembrerebbe la riduzione in figure della materia (altrettanto) caotica del sonno e dei sogni. Una sorta di contraltare dell’esistenza, una vita dall’interno, in incognito, le cui dinamiche sono sigillate nella mente del soggetto eppure ne condizionano il vissuto materiale. Accade per esempio a Modigliani e a Bukowski, due artisti ripresi nel loro inesausto confronto/scontro con i feticci della malattia e della morte.

L’operazione in sé conserva un certo spirito voyeuristico: adagiare la pupilla su di un foro, una serratura, e da lì spiare una terza dimensione, considerare la vita di quell’uomo o di quella donna, la vita vissuta, gli eventi, gli antagonisti, gli stravolgimenti di fronte, i dolori, ma nella parvenza di fantasmi, e raccontarli per quel che sono, pietre miliari di una solitudine come tante. Era necessario cogliere ciascun personaggio alle spalle, avvicinarsi di soppiatto e trascrivere il loro salmodiare, quella confessione involontaria e coatta che è il sottofondo dell’intero libro.

Davvero il racconto dei sogni può colmare certi vuoti della storia? Se, come dicevamo in apertura, l’interpretazione dei sogni può essere anche il frutto di un arbitrio, di una libera scelta da parte del lettore, come è possibile che la materia onirica faccia da collante tra una tessera e l’altra, come può agevolare la comprensione di ciò che è rimasto in ombra?

La questione riguarda, credo, la credibilità mitologica dei miei personaggi. Il sogno come formazione di senso è un espediente retorico che proviene dai poemi omerici e quindi, con incisività diversa, dalla tragedia. Ecuba, Atossa, Clitennestra, Ifigenia, sono tutte narratrici di sogni, matrici attraverso le quali si anticipano o si condizionano gli accadimenti. Gli dei notturni segue un processo contrario, come se i sogni narrati potessero aiutare a sciogliere i dubbi, le incomprensioni, i misteri legati all’una o all’altra parabola esistenziale. Tuttavia questo non avviene, o non avviene in modo lineare: il quadro viene complicato, o si potrebbe dire arricchito da una prospettiva ‘altra’, dalle ossessioni di fantasmi, di persone che non sono più e che pure continuano a pronunciare la loro verità, ma in modo incompleto, sibillino, come vestigia giunte da un tempo remoto che noi contemporanei ci perdiamo a osservare da dietro una teca.

Benché faccia fronte a una materia magmatica, lo stile del libro è asciutto, sintetico, talvolta cadenzato da una certa ritualità. Non è un rischio, o semplicemente una limitazione, il fatto che le voci dei personaggi si richiamino tra loro, che suonino talvolta simili? Allo stesso tempo, non è mai stato colto da una tentazione mimetica, non ha mai cercato di ‘rifarne la voce’ a tutti gli effetti? In sintesi: quanto ha influito nella scrittura di un libro come il suo il retroterra letterario che si porta dietro?

Anche in questo caso mi permetto di osservare – banalizzando – che Amleto e Re Lear, così come Macbeth e Otello, hanno corpi e storie irriducibili tra essi, ma la loro voce non dissona poi molto. La voce che li anima e tira i fili delle loro esemplari vicende non solo è sempre la stessa, ma è altamente riconoscibile. Un’attesa mimetica, per quel poco che conta il giudizio dell’autore, sarebbe stata un po’ pretestuosa. Una maschera, per quanto possa mostrare orpelli diversi è pur sempre una maschera. E poi, siamo davvero sicuri che siano tutti attori dello stesso coro? Certo, l’intenzione era quella di creare un organismo univoco, come se le singole ipnografie appartenessero tutte a un unico mosaico, ma non credo che le dinamiche possano dirsi simili, o addirittura identiche. Allo stesso modo non credo che parabole diverse – quindi casse di risonanza dalle forme disparate – possano produrre un medesimo suono. Il racconto del suicidio da parte di Kurosawa ha davvero le stesse cadenze di Kawabata Yasunari quando annega nei suoi dubbi erotici? Ligabue e Basquiat parlano proprio la stessa lingua? Non vorrei che la lente dello stile diventasse una sorta di rifugio di comodo, una verifica a senso unico. Cercare di accedere alla carne viva di un libro, magari fagocitandolo, è sempre meglio che presumerlo.

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↔ In alto: foto di Roberto Dessì

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