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Gli ulivi erano fatti per chi aveva pazienza, la loro legge era crescere con lentezza, dare frutti negli anni futuri e le loro piante erano lì da più di cento anni, da nonno a nipote, da padre e figlia, da madre a sorella, duecento piante di nodi e cortecce grigie, foglie lisce.

La prima pianta che s’ammalò fu una delle più vicine alla casa, era piccola, quasi un cespuglio, aveva il tronco spezzato da un fulmine, cavità interne in cui nascondersi. Le sue foglie diventarono ruggine, prima solo alcune, poi rami interi, poi tutta la chioma. In nulla quel colore rosso assomigliava all’autunno, ma molto aveva a che fare col sangue rappreso, le ferite chiuse da poco.

La bambina sentì a tavola e in cortile i nonni parlare di quella miseria: lenti e moribondi, per mesi e mesi, gli ulivi appassivano.

È solo una, disse nonna Maria, solo una pianta non porta sventura.

Eppure il nonno scosse il capo con violenza, dicendo che no, una sola pianta voleva dire tutte.

Come assassino e furia si aggirò tra gli ulivi le notti seguenti, diceva accidenti e colpiva i tronchi, bussava sulle cortecce, chiedeva d’essere rassicurato dall’erba, dal sentiero, dalla luna.

Un giorno il nonno Oreste si fermò con la macchina lungo la strada che portava al mare, in un punto che era vuoto, lo slargo di un campo, una manciata di ciottoli, e la bambina lo guardò scendere, lasciare il motore acceso, fare pochi passi e inginocchiarsi, posare le mani sulle cosce, vomitare.

Margherita non conosceva i suoi singhiozzi, le sembrarono dolori di pancia o cattiva digestione, chiese al nonno: Che c’è? E lui restò fermo in quella posizione, il ronzio del motore in sottofondo.

Faranno i ristorantini, gli hotel, faranno le spiagge fino a qua, fino a dentro casa nostra verranno i bed and breakfast, le discoteche, urlò più che alla bambina al mondo intero.

La terra sta soffrendo, Margherì, la terra ci abbandona.

Quando risalì a lei parve più secco sul collo e il mento, un pesce appeso per la coda, la bambina non fece nuove domande, in silenzio, seduta ai sedili posteriori osservò i campi e le rocce e tutti gli altri ulivi – inservibili, brutti, spaventosi – colpiti da questo batterio, piccolo quanto il demonio, che sa infilarsi in ogni cosa, fa sue le fessure e le crepe nel muro.

Al mare quel giorno non approdarono, ma a una delle rotonde il nonno tornò verso casa, una volta arrivati lasciò la macchina vicino al pollaio, e Margherita provò a corrergli dietro, ma lo vide svelto sparire nel loro uliveto perché con foga doveva controllare quante altre foglie avevano perso, quanti figli gli erano morti.

Dopo il primo alberello infatti ne arrivò un secondo e poi un terzo, venne chiamato il prete, venne comprata una statua alta quasi due metri di gesso, un Cristo dalle braccia aperte, che il nonno mise al centro dell’uliveto, la nonna si confidò con le amiche e le lontane parenti, mescolò erbe e tinture, creò liquidi vischiosi che sparse sulle piante e alle loro radici, a nulla servirono pesticidi, preghiere, invocazioni, da tre le piante divennero quattro e poi dieci e poi quasi tutte.

Nei mesi a seguire ogni ulivo si ammalò, ne parlarono al telegiornale di ciò che laggiù loro stavano smarrendo, ma ne parlarono poco, svogliati, tra un morto ammazzato e il selfie di un politico, nonno Oreste spense la televisione con la bava alla bocca.

Noi ci incateneremo qui, disse tra i denti, mentre Margherita si rigirava tra le dita una bambola di pezza, dal grembiule giallo e le trecce di lana.

Nonna Maria provò a farlo ragionare, se gli ulivi ormai erano maledetti dovevano trovare un’altra soluzione, decidere che farne della terra, se venderla, se ripiantare, aveva sentito infatti al paese alcune donne parlare di piante miracolose, che un’azienda stava producendo, ulivi che invece di venti o trenta anni ci mettevano cinque anni a dare frutti, sarebbe bastato abbattere quelli malati, dar fuoco alle loro radici, dissodare la terra e ricominciare.

Il nonno s’alzò, fece cadere la sedia sul pavimento dalla vergogna: Le mie piante non le butterà giù nessuno, le ha messe mio nonno, hai capito? Le ha messe mio nonno con le mani sue. Non ci venderemo, non accetteremo miracoli se non dal Padre Eterno. Gli uomini no, non ne fanno di cose sante.

Detto questo, voltò la faccia al muro, immobile, dritto nella forza che veniva dalla sua vecchiaia ossuta e compatta. Un uomo da sole sulla nuca, perché sempre piegato a guardare la sua terra.

Margherita pensò a un anno prima, all’olio che il nonno aveva portato in casa dopo la spremitura, quello per le padelle, per il viso l’estate, quello per l’insalata, per il sapone, per curare i capelli sfibrati. Ora le giare s’erano svuotate, goccia a goccia, di quella fatica non era rimasta che ombra.

Così, una settimana dopo, quando le foglie di ruggine comparvero sul pennacchio dell’ultimo albero, Margherita decise che avrebbe fatto una magia, perché solo ciò che non si può pensare in realtà lenisce il dolore.

Trovò un ulivo che ribattezzò Margherita, come se stessa, e in quell’albero si specchiò, fece riflesso della vita bambina che aveva e della vita adulta che le sarebbe toccata in sorte, con mani piccole, calata su piccole ginocchia, iniziò a scavare. La sua bambola la guardava seduta nell’erba, aveva gli occhi vuoti dei giocattoli a cui le storie non danno più vita.

Un giorno non bastò e la bambina tornò al suo ulivo anche quelli seguenti e continuò a scavare, si creò una comoda buca accanto alle radici dell’albero, abbastanza profonda per scomparire.

I campetti da tennis, la movida del lungo mare, le spiagge così affollate da non poter più raggiungere gli scogli, i tramonti da guardare in automobile perché già da giugno ogni strada per arrivare all’acqua era ingombra, seviziata.

Qui c’è bisogno d’una magia, si ripeté Margherita.

Nella sua buca dove s’era infilata raggiunse una grande radice della pianta che aveva il suo nome e la strinse fortissimo: Radice, fa che il mare torni nostro, fa che resistano le cose antiche, avrebbe voluto dire la bambina, ma erano parole difficili per lei da pronunciare, i suoi pensieri infantili però questo desideravano, questo avrebbero voluto difendere.

Dov’è la bambina? Si chiese nonna Maria non vedendola tornare dopo molte ore e avendo capito che da tempo avrebbe dovuto riaffacciarsi per il pranzo. La chiamò dall’uscio, poi dal cortile, poi mise i piedi nell’uliveto, ma dalla sua altezza la buca non si vedeva, era lontana, e quel richiamo: Margherita, Margherita, la bambina pensò fosse per la pianta, qualcuno stava pronunciando l’incantesimo che le teneva abbracciate.

Oreste e Maria presero spavento presto, chiamarono i genitori, in quattro urlarono per i campi, e quella collera per le sciagure si sciolse in apprensione e sgomento: a forza di pensare agli ulivi s’erano dimenticati la bambina.

Quando la trovarono erano trafelati, avevano occhi rossi di pianto, la videro laggiù, piccola, rannicchiata intorno a quella radice, imbucata. Dall’alto restarono dapprima in silenzio.

Margherì, che fai? Gridò poi la madre.

Sto facendo una magia, rispose lei alzando il viso verso il cielo e la sua famiglia.

Nonno Oreste non ebbe bisogno d’altro e senza sgridarla scese nella buca e con care parole la convinse a lasciare la radice, lei si doveva fidare, perché lui ora sì, aveva capito.

Margherita tornò a casa sporca di terriccio e foglie secche, pietruzze, muschio, mangiò la minestra a cena con la bambola sulle ginocchia e la voglia di piangere.

Il giorno dopo nonno Oreste prese la scure dal retro della casa e muto si mise a colpire le piante, una dopo l’altra, queste vennero intaccate, alcune caddero, altre restarono appese alle ultime radici, alcune persero linfa dalle ferite, altre Oreste ne fu sicuro sfiatarono.

Domani chiama i ragazzi di Pasquale, gli ulivi devono sparire, bruciate le radici, dissodate la terra, tra cinque anni, Marì, Margherita avrà le piante sue, disse il nonno rientrando la sera.

Posò la scure all’ingresso, sedette alla sua seggiola che da solo s’era costruito, come il camino e le mensole della cucina, come i letti, i bauli, lui tutto aveva fatto e tutto avrebbe potuto distruggere.

Con l’ulivo che portava il nome della bambina, il nonno accese un fuoco alto, davanti alla statua di Cristo, una nube nera e fitta s’alzò e poi volò sopra ai campi, alle case, arrivò fino al mare e indisturbata si tuffò dagli scogli, venne liberata.

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↔ In alto: foto Steinar Engeland / Unsplash.

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