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Il giorno che hanno appeso le luminarie di Natale su tutto il Corso, luminarie di stato, code di stella tra balconi e imposte chiuse all’ultimo piano di vecchi palazzi borghesi, tornando con la prima nebbia che viene dal basso, dall’intaglio dei pietrini, ho trovato il mio nuovo materasso, fuori sul pianerottolo del condominio con cortile interno in cui vivo in affitto. Se non ti sta bene vai via, mi avevano detto, qui, sopra il Po. Vecchi ischemici con una parte di faccia scaduta, a valanga, correndo su per le scale come un embolo. Guardati intorno e spero tu possa trovare una stanza più consona alle tue esigenze. Non siamo un albergo – sì lo so, cercavo di dire, ma c’è il piscio di tuo nipote, giralo il materasso – in quello vecchio – sì – e questo è nuovo, è pulito – è un materasso a molla – il materasso a molla da centocinquant’anni è ancora il preferito di tutti. Non mi stia a dire tua madre che non è idoneo, perché passa dieci centimetri e perché a molla, non ricordo dove l’ho preso – non era nuovo? – sì. Pausa. Però io posso spiegarti se mia madre ha alzato la voce perché avrebbe dovuto farlo: qui c’è muffa. Sotto il davanzale. C’è muffa in corridoio. Oggi ho passato metà pomeriggio a toglierla con la candeggina. Non ho le tende, ho una tenda trasparente perché si intona con le pareti, è stata messa perché stava bene col resto – qui è tutto Ikea, abbiamo ridipinto – ma c’è la muffa, e dietro l’armadio ho un ripostiglio pieno di polvere, di acari – eh? guardi, (infervorato, rosso e ischemico più di prima) non mi pare il caso che un inquilino rovisti dietro l’armadio (porta scorrevole in plastica marrone, materassi Ikea, due, sottili, per il letto doppio, a coprire la porta chiusa da un pannello in cartongesso) di là c’è un monolocale c’è muffa, non mi pare il caso, se non ti sta bene vai via.

Passeggiavano vecchi levrieri, cani da corsa con la scabbia per il Corso, inciampano sul guinzaglio, sciacalli di prurito, inciampare o cadere nel buio, il buio dentro, avranno anche loro una cuccia a molla, e poi la muffa sotto gli infissi, ci vorrebbe qualcosa come un’ondata di Vetril, ammoniaca, rimane attaccata alla pelle, sotto le unghie come la cipolla, come l’aglio e come le schegge del tagliere di Tiger, ormai in quattro pezzi messo in lavastoviglie.

Incelofanato sul pianerottolo del locale, vicino a una trattoria che scarica fumi sulla strada, centrale, praticamente una traversa prima del Santo, un ex convento rimesso a nuovo. Un grande portone sul cortile, tutte piante attorno che paiono i tropici quando piove, due automobili e qualche bicicletta legata, pioggia come una mitragliatrice per ogni goccia che prima di toccare terra ha decine di stazioni intermedie e si frange, si rompe si spezza, gocce come interventi in periferia, direbbe qualcuno, perché sia tutto mare, ma siamo in centro e ci sono finestre al pianterreno, con le grate.

È una casa signorile, mi ci vergogno dentro, ho dovuto dormire in casa d’altri per sette giorni, prima. Cacciato via dal Palazzo, con nessun preavviso, per un debito, da casa mia, mia per cinque anni, un debito concordato, avrei dovuto ripagare mezzo migliaio di euro, in rate e non sono neanche mie, in quella vecchia topaia ristrutturata – mi dispiace, il Consiglio si è chiesto perché volessi la stanza, se stai cercando casa – per trovarla – per trovarla, certo, io lo so e tu lo sai – lo sapete da tempo – lo sappiamo, ma poi il Consiglio si è chiesto come faresti a pagare la caparra dell’abitazione, i mesi in anticipo eccetera. Sono tutti di Pavia, sanno come sono stipulati i contratti – non capisco – dicono questo, dicono che se puoi cercare casa puoi anche pagare il tuo debito – credo sia priorità, credo che i miei non possano, altrimenti non sarei qui, per la casa possono anzi devono perché è necessario, sennò sto sotto i ponti, mi sembra – sì, lo so, lo sappiamo io e te, mi spiace, mi vergogno – già.

Fuori dal Palazzo proprio in tempo per non trovare affitto, incrociando app e gruppi facebook, in collegamento almeno due genitori su quattro e un’amica L., ossessionata dal cambiare casa, tanto che ne vede di continuo ed è sempre lì a saperne una in più. Il Palazzo casa mia per cinque anni, tra esami da dare e quella strana sensazione che provi con un piede fuori, in fondo pagavo un servizio, di cui non avrei avuto neppure una carezza senza dané, senza la borsa Inps, e invece lì dentro si rimuove, è l’illusione di una casa costruita attorno, una casa di mura cinquecentesche, una chiesa tutta d’argento e matricole come te che si chiedono quale sia il posto, cosa sia successo, e ogni anno come a partire per un viaggio di non ritorno non le vedi più, gente che ha mangiato con te ogni giorno, con cui non hai dormito. È un’illusione che ti si costruisce attorno, mattone per mattone, quando la nebbia si dirada sopra il cortile, al saluto dei cuochi che ti danno il bis, cucinano per te ti danno pacche, l’illusione dell’alcool e delle confessioni sotto gli infissi delle porte, negli angoli delle stanze e alle pareti di corridoi spogli e sporchi, sulla moquette della galleria B., nei cessi del seminterrato, e fuori appena, oltre mezzanotte fuori sulle scale di fronte al Manicomio appaltato alla ‘Ndrangheta, per cui i lavori sono bloccati e grandi impalcature dai teli strappati e lerci, ogni tanto s’intrufola qualcuno, barboni o coppiette o chissà, con attorno le mura vecchie, da un lato che spirano sul Ticino fino alla Porta. Due giorni da ognuno che s’era offerto, a rotazione, spesso alternando, per non pesare, in realtà poi, ripensandoci, per avere un ventaglio di scelte, il letto migliore, cosa avessero da offrire gli ospiti, asciugamani puliti, spifferi, e infatti alla fine qualche strappo al progetto l’ho fatto, fermandomi più da uno.

Me ne andavo dal Palazzo. Tutte le mie cose lì nell’armadio vuoto di F., che ancora doveva traslocare, polveroso, una sola valigia dietro, metà riempita dal computer, che tengo rigorosamente nella custodia da imballaggio, perché non si rompa, viste le rate che devo per un anno ancora con un finanziamento Findomestic, ottenuto dichiarando di fare l’affittacamere. Io che non ho casa neanche per me.

Tornavo una volta ogni due giorni, posavo i vestiti sporchi che non avevo lasciato nella lavatrice di nessuno e ne prendevo altri, si riempiva una grande sacca. Sette giorni, in mensa due pranzi, due volte una pizza patatine e wurstel, una volta presa al tavolo, con le posate che mi sembrava un ritorno alla pace, e poi il resto a casa d’altri. Le cene mai da solo, che son la cosa più facile da fare, ho beninteso. Nel frattempo, bisognava vedere le case, una quindicina in totale tra il centro di Pavia e le immediate vicinanze, una periferia a ridosso delle porte e delle poche mura ancora in piedi, quindi palazzine del Boom, vecchi progetti civili, ambiziosi, come Galleria Manzoni, qualche neon saltato, è tutta buia, una cartoleria, due bar, quattro macellerie, tutti etnici, persino l’agenzia viaggi. Avevo il telefono scarico e m’ero attaccato alla presa di un bar appena all’uscita, frequentato, c’avevo preso l’acqua per guadagnarmi il posto al tavolino vicino, era di plastica come al mare, col buco al centro per l’ombrellone ma coperto da un tappo. Dalla vetrina vedevo un ragazzo con qualche grado di febbre che guardava l’ora, cercava me, l’appuntamento delle due e mezza con l’agenzia, esco con il telefono appena acceso, salgo ma c’è puzza fortissima di curry o altre spezie, l’ascensore è rotto? – no, ma io preferisco salire a piedi – (tu, coglione) – entriamo ed è un buco, un’isola per tavolo un piccolo piano cucina e due stanze, un tavolino colle carte francesi ancora sparse, sembra una scena del crimine, lui, una scientifica un po’ economica, neanche indossa i guanti ed io passo l’indice sui mobili, polvere ce n’è, ma tutto sommato poca e ci si affaccia su altri appartamenti, i mobili sono di quel legno rivestito tipico dei Sessanta, a buon mercato pure per le tarme.

Se non ti va bene te ne vai. Come la muffa esposta in via L., dentro al frigo, ma sì, certo, spugna e Vetril (ancora) e va via, il bagno è un po’ piccolo ma stando attenti non si sbatte, avete visto quanta luce? Quante sbarre alle finestre? Quanti gatti? Sissignora. E tu, la tua muffa nel bagno, la vuoi? Andrebbe riverniciato, vero – che mi dice dei binari? – non si sente nulla, solo qualche scossa ma ci si abitua, la cantina è comune, andrebbe pulita. – Ma cosa affitta allora? Me ne vado: me ne vado, non si preoccupi. Non mi accompagni col suo puzzo di vecchio, col suo cotone, via! Vado via!

C’era anche quel localino appena accanto al Naviglio, la via commerciale degli zingari che a ridosso della sessione avviano le giostre, per qualche mese, l’autoscontro e quelle girandole in aria che non avrei il coraggio. Un centinaio di metri prendendo una traversa, tanto per dire, arrivo in orario con F., c’è puzza di pappa plasmon, intensissima e guardando delle finestre col lato lungo ad altezza del marciapiede s’intravede una donna, che dà da mangiare al figlio sul seggiolone, che piange, apre la porta una graziosa padrona anziana, ma non è la padrona, solo la vicina che ci fa un favore alla padrona, a far vedere la casa agli acquirenti, e appena apre saltano fuori due gatti come rinchiusi da secoli, c’è la cantina anche qui ed è buio pesto come nelle piramidi.

Sul pianerottolo. L’ho portato dentro pesava, ho messo lì fuori il materasso a molla, al suo posto, però sopra dei cartoni per non fargli prendere umidità. Se non mi sta bene me ne vado e poi mi comprano il materasso nuovo. Gliene sono grato, grazie sta scrivendo davvero, da oggi in poi se ho qualcosa da dirvi, farò da solo. Mi spiace e ti ringrazio ancora – guarda non mi era mai successo. È vero le madri si preoccupano ma quando mio figlio è andato a Dakar io non sapevo su che letto dormisse – suo figlio è coraggioso, vorrei avere un decimo del suo coraggio sta scrivendo. Disconnessa. Ho sistemato il materasso, è grande almeno quanto me, finalmente mi son trovato una signorilissima topaia, tutta riverniciata. L’antistaminico del Black Spot sulla coscia, attraverso il vestito, come diavolo cammina, a gambe larghe come una puttana, ora striscia come un verme, sul catrame, guardalo come striscia, guardatelo, non dà assuefazione? Signorilissima topaia, lo schermo dell’Acer rateizzato è in Full HD, vedo tutto della puntura e di come striscia e sanguina l’albero. Tutto nuovo, se non l’acetilene delle otto che affonda nella carne della camera, fresca, e tocca alzarsi. Per il riscaldamento che può andare, se gli va, andrebbe cambiato tutto l’intestino, sventrarla la topaia, ma il taglio è secco e le tendine graziose in tono con l’apriscatole non oscurano, giustamente direi, su Amazon con quindici euro te le rifai nuove. Il vecchio ischemico in fondo non ha colpe, detesto il determinismo geografico, di qualsiasi parte, Pavia è naturalmente una fogna, quale città non lo è? Lo dice Seneca, di cacare pure direttamente sulle strade, tanto poi ci si rovescia lo sterco, fermentato di minzioni varie, cloruro di sodio e azoto, in minima parte ma con pregio del colore, persino delle rocce di montagna. Sul parquet in finto parquet è camminare su spilli di trombe, allarmi. Ma è davvero signorile, e la giornata si misura in vergogna. Vorrei una vera topaia e un modo per morirci dentro, magari tra cent’anni ma una topaia vera, non questa latta di realtà, non questo surrogato del Palazzo, mi metto a fare lo chef, la cucina ha grande respiro e nel camino c’è un televisore. Tutto color panna, persino il divano, io ho messo solo il tappeto nel salone, il persiano che i miei mi hanno regalato per la laurea.

Le bollette, per ora niente scherzi ma ci intesteranno le luminarie, con buon favore, e i lampioni, quello ad esempio che m’illumina a giorno attraverso le persiane luride, di polvere e merda di topi plurisecolare. È una casa del Seicento, non si possono toccare le persiane la facciata, il restauro è bloccato dal Comune, insomma se non ti sta bene vai via, se non è idonea questa camera rescindiamo il contratto, ti restituisco la caparra, ce l’ho qui. Io non ce l’ho con te: e poi mi compri il materasso.

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