Nove anni fa, Canicola ha pubblicato un fumetto di Yuichi Yokoyama, Il viaggio. Tre uomini salgono su di un treno che percorre una distanza non definita; il disegno mostra alternati l’interno dello scompartimento (soprattutto) e il paesaggio che si vede dal finestrino (ogni tanto). Tutta la composizione si sottrae all’idea di una buona storia ricca di tensione e di snodi, hollywoodiana o sociale che sia, e si mostra nel semplice piacere del suo farsi (come ne scrive Erwin Dejasse). Il tema artistico del treno è tradizionalmente metafora della vita sociale, come in Giorgio Caproni o in Snowpiercer (fumetto diventato film e or ora serie televisiva), e così, spesso, nel suo declinarsi in racconto perde quell’elemento di purezza estetica senza fini e senza vera fine del racconto di Yokoyama.
In Nello spazio di uno sguardo di Tom Haugomat, non si vede neanche l’ombra di un treno; eppure, grazie alla sua struttura così singolare e a una grande delicatezza grafica, compie lo stesso prodigio estetico del racconto di Yokoyama.
Nello spazio di uno sguardo c’è, anzi, una vera e propria storia, e delle più ottocentesche, almeno in teoria: il fumetto racconta la vita intera di un uomo senza nome, dal ventre materno alla morte, anno per anno. Questo tempo, però, è scandito non per intero, e neanche per azioni salienti, ma per descrizioni di attimi. Ogni tavola di quest’album, infatti, corrisponde a una sola vignetta, e ogni vignetta risponde e dialoga con quella della pagina vicina. La sequenza minima è costruita sulla giustapposizione delle due pagine: sulla sinistra, si vede il protagonista intento a osservare, sempre; sulla destra, il lettore vede ciò che lui guarda. Questa struttura rigorosa non esclude la ricerca della trama, ma la attenua. Le uniche parole dell’album sono date e luoghi, nulla più; nient’altro è proferito da questi personaggi fatti solo di contorni e di colori, privi di occhi, naso e bocca, osservati da lontano. La storia procede con attenzione e regolarità, seguendo precisa lo schema grafico pensato per lei. Il libro è del 2019, ma l’idea era nata nel 2013 quando, per un progetto collettivo, Haugomat aveva disegnato quattro dittici costruiti in questo preciso modo, mettendo di fronte un personaggio che guarda e ciò che vede. Dopo essere poi entrato in contatto con la casa editrice Thierry Magnier (per cui ha illustrato Hors pistes, su scrittura di Maylis de Kerangal), in Francia, ha ripreso questa struttura e ne ha fatto la regola da rispettare per comporre la sua storia successiva. La sfida era di rendere a tutti gli effetti narrativo uno schema spontaneamente descrittivo. (C’è in questo qualche cosa che risale a Here di Richard McGuire.)
Una griglia estetica, soprattutto quando è così rigida, influisce su ogni aspetto del racconto, dal disegno alla trama, e condiziona, per esempio, il carattere del protagonista: se la storia dipende dal suo sguardo, non sarà un caso se sin da bambino, nato in Alaska nel 1955, fa subito prova di un’estrema curiosità. Non guarda mai ciò che ha di fianco, il suo sguardo è sempre e solo curioso di al di là. Il protagonista si spinge inesorabilmente o verso il cielo (l’infinitamente grande) o verso piante ed insetti (l’infinitamente piccolo); se sta dentro casa o una classe, si affaccia alla finestra; se passeggia all’esterno, si intrufola con gli occhi nei giardini degli altri, guardando attraverso i buchi di una staccionata.
La vita presente non è insomma mai per lui sufficientemente interessante: mai che guardi una persona vicina; è sistematicamente attirato dagli oggetti lontani, forse anche a causa di una timidezza che col tempo si trasforma in inettitudine ed egoismo. In un primo tempo il fumetto parla di fuga, in un certo senso, della fuga dalle cose del mondo come una via concreta e auspicabile per vivere ed essere felice. Il ragazzo fugge nei libri, nei film, negli ingrandimenti, negli scorci improvvisi: questa tensione costante al di fuori di sé sembra essere pura energia, sembra suggerire che a saper cogliere l’attimo e riconoscere il giusto pertugio, si può cascare su qualcosa di meraviglioso. Questo sembra dirci Haugomat, almeno all’inizio.
Tra tutti i lontani oggetti del desiderio, è il cielo che alla fine sbaraglierà la concorrenza, forse perché è simbolicamente qualcosa d’inesauribile e di cui è impossibile impossessarsi. Il bambino, crescendo, diventerà un astronauta. In realtà, va detto che è anagraficamente il più naturale appassionato di avventure spaziali: vive l’epoca d’oro della fantascienza e, ancora bambino, nel luglio del 1969 assiste davanti alla televisione all’allunaggio. Ma non è tutto: è da subito circondato da pianeti, razzi, stelle. Un po’ di merito va di certo al cielo incontaminato dell’Alaska, ma il ruolo cruciale è stato senza alcun dubbio giocato dal padre. La passione per lo spazio è infatti prima di tutto una passione paterna: sin da piccolo il bambino lo vede con la testa per aria, in veranda, guardare il cielo stellato, rimanendone stregato.
Il ragazzo studia, e poi da diplomato raggiunge Houston. Arrivati a questo punto, sembra che il fumetto sia il racconto di un’educazione umana e sentimentale positiva, vivace, riuscita. Parte in missione, si sposa, ha una figlia, rimane alla Nasa come formatore. A un certo punto, però, lo sguardo dell’uomo sembra perdere di vitalità, per diventare sempre più simbolo di un’assenza, anche se Haugomat mantiene sempre invariato lo stile tenue del suo disegno. Tuttavia proprio questa monotonia, a volte, lo comincia ad arricchire di un leggero senso di angoscia. Da ragazzo aveva guardato fuori dalla finestra anche al funerale della madre, ma la sua distrazione era sembrata una forma di speranza, il risultato di un animo sognatore; così era stato anche quando, intervistato dopo la sua missione spaziale, aveva preferito voltarsi verso la propria innamorata invece che verso il giornalista.
Ma a una certa età la sua sembra proprio diventare una deformazione, un disturbo: guarda solo ciò che non ha, guarda solo ciò che è lontano. È assente a se stesso e alla vita che lo circonda.
Tutto il racconto è costruito sul rapporto dialettico e paradossale tra narrazione (la vita) e descrizione (lo sguardo). La finezza con cui Haugomat compie questo sforzo è mirabile: è impressionante infatti come una storia così costruita, così disegnata, così temperata, possa trasformarsi e pizzicare l’animo del lettore con le ombre che riesce a sollevare. Quest’effetto è poi mirabile anche perché non è solo il cosa è raccontato a sollecitare chi legge, ma anche il come. In primo luogo perché il disegno di questo fumetto, anche se ‘fermo’ a causa della sua natura illustrativa, spinge il lettore a ricostruire le linee degli sguardi, cercando di indovinare le sensazioni di chi guarda, creando così un movimento continuo della pupilla sulla pagina, se se ne ha voglia e si è curiosi.
E poi, perché anche la griglia grafico-narrativa obbliga il lettore a una messa a fuoco continua. Il suo occhio si sovrappone sempre a quello dell’autore, nel guardare il personaggio raccontato alla terza persona, sulla pagina di sinistra. Poi, nel girarsi verso destra, lettore e autore insieme incrociano lo sguardo del personaggio. La struttura invita così chi legge a un movimento continuo tra esterno e interno, tra piano lungo e soggettiva, che riguarda allo stesso tempo sguardo e pensiero.
L’idea è elegante e nuova, e propone un’interessante messa in discussione del punto di vista di una storia, perché costante e perché mobile, e perché richiede a ogni pagina di giocare con le inquadrature e con le sensazioni, presentandosi come una sorta di ginnastica della percezione.
Haugomat è un illustratore prestato al racconto, passato per l’esperienza dell’animazione con l’amico e compagno di studi Bruno Mangyoku (un corto di dodici minuti, Nuisible, un altro di cinque, Jean-François). Il suo stile, caratteristico e riconoscibile, si fonda su di un gusto metafisico del vuoto, che però corrisponde raramente a uno spazio bianco, che il più delle volte serve al massimo da cornice. La solitudine contemplativa dei suoi personaggi (o del lettore, quando nella vignetta ci sia solo un paesaggio) è una versione moderna e dai toni luccicanti della metafisica hopperiana. A voler trovare un equivalente nostrano, si potrebbe pensare a Emiliano Ponzi.
Abbiamo già visto che l’autore vive la creazione come sfida e resistenza a dei limiti autoimposti. Haugomat, infatti, aggiunge alla rigida struttura anche una scelta molto ristretta di colori. Questo dà, ovviamente, una forma di coerenza estrema e funzionale al racconto, anche se a certi occhi potrà sembrare ai limiti della monotonia, anche a causa dell’assenza di nervi nel tratto e di variazioni di sceneggiatura.
L’espediente per cercare una forma di varietà pur costringendosi all’uso di una palette molto ristretta (qui tonalità di blu, di rosso e di giallo) è l’uso sovrapposto del colore. L’uso del colore ogni tanto complica la leggibilità e sembra lasciare una piccola forma di indefinito che la linea chiara, di solito, tende a eliminare, ma soprattutto ha una resa molto piena e calda sulla pagina che, nonostante la profondità data dalle ombre, mette tutti gli oggetti sullo stesso piano. Nessuna prospettiva o forma è alterata, la realtà è rappresentata – sublimata? messa sotto vetro? – fedelmente. Haugomat lavora su Photoshop, per avere una perfetta sovrapposizione dei calchi monocromi, e così continua a suo modo la tradizione dell’incisione a colori fatta tramite tavole di legno sovrapposte.
Il bianco che contorna e isola le immagini, invece ricorda una forma enciclopedica della rappresentazione (Roland Barthes), e permette all’occhio di concentrarsi su quanto mostrato, senza distrazioni. Tutto è ridotto al minimo: è un gusto molto contemporaneo, molto pulito, ma è anche una volontà estetica che avvicina l’autore a tradizioni più classiche (la pittura olandese del Seicento e quella tradizionale cinese, l’icona).
Quanti “attraverso” ci sono in questo racconto? (il titolo originale francese è infatti un semplicissimo à travers) Almeno quello del desiderio, per cui il giovane compie il sogno del padre; quello dello sguardo (messo in risalto dalla traduzione italiana), esaltato dalla struttura narrativa; quello degli strumenti utilizzati per osservare la realtà; quello degli oggetti abitati dai ricordi; quello della vita del protagonista, che il lettore attraversa diventando di volta in volta lui, scivolando nella sua testa (in inglese l’album è tradotto Through a life); quello del libro, tramite insostituibile, senza cui questa storia non potrebbe essere letta. Sono tutti “attraverso” che il lettore vive sulla propria pelle. Questo fumetto evidenzia chiarissimamente come ogni sguardo sia un’inquadratura tagliata dalle forme di finestre e vetrate, finestrini, scorci, buchi, e mette al centro della riflessione il problema della realtà come interpretazione e socievolezza.
Verso la fine del racconto, l’uomo è tornato in Alaska per assistere suo padre costretto sulla sedia a rotelle, ma che pure è ancora lì a guardare le stelle. Maggio ’72, giugno 2012: la camera è la stessa, i poster pure, ma adesso lui è invecchiato, stanco e barbuto, e guarda – come da piccolo – il suo papà, sempre sulla veranda, sempre a guardare le stelle. Il lettore inizia in questo momento a ritrovare scene e oggetti che rimano con quanto ha letto del tempo della sua infanzia: la foto che il protagonista ha scattato ai genitori il giorno del diploma, lo stesso binocolo, la stessa vetrata della chiesa del funerale, la stessa lente d’ingrandimento. I tempi della vita rimano tra loro, gli oggetti, i luoghi, come li guardiamo e da dove li osserviamo scandiscono i ricordi.
Haugomat cerca un finale che sia positivo e che racconti la riscoperta di passioni pure. Ma non bisogna dimenticare che una parte importante della grandezza di questo racconto sta nel suo essere impietoso e severo: l’uomo muore solo (con lui muore il lettore che si è perduto nelle sue fantasticherie, con lui muore l’autore che guarda il foglio più della realtà). Forse è stato felice, ogni tanto, ma più che un modello questa storia propone un metodo: dubitare, aggiustare lo sguardo, vestire i panni dell’altro, ponderare.
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