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Mi passo i capelli col gel fortificante e indosso camicia, jeans, scarpe da ginnastica nuove, giubbotto nero scamosciato. Mi infilo due caramelle alla liquirizia in bocca e prendo la mia pasticca serale.
Il cellulare squilla. È Paride, sta sotto casa col motore acceso ad aspettarmi. Mi affaccio e gli dico che arrivo. Lui suona il clacson, tira fuori la testa dal finestrino e dice che sono un lavativo e devo muovermi.
Rimango impalato con le mani sulla ringhiera a guardarlo; vorrei rispondergli, ma sto zitto. Paride è un amico, allena i bambini a giocare a calcio e dalla bocca gli escono sempre le parole giuste: raccomandazioni impacchettate e giudizi su ogni cosa.
Scendo le scale e salgo in macchina.
In giornata il padre di un bambino lo voleva picchiare. Gli ha detto che se teneva ancora suo figlio in panchina lo avrebbe ammazzato. Paride gli ha dato le spalle e si è allontanato senza dirgli niente.
Io avrei fatto un casino davanti a tutti. Lui no, ha le emozioni di carta e parla solo quando conviene.

Usciamo dal cortile, prendiamo il viale che porta fuori dal paese e arriviamo al ristorante dove abbiamo appuntamento con due suoi amici. Il posto è enorme, fuori ci sono scritte luminosissime in lingua orientale e dentro ci sono quadri raffiguranti samurai in posa da combattimento, monasteri, fiori e pesci dalle forme indescrivibili.
Il tavolo è in un angolo, sotto una finestra che dà sul parcheggio. Paride si siede, io rimango in piedi e mi presento. Lui si chiama Fabio e mi stringe la mano senza neanche guardarmi; lei, Giustina, si alza. Ha un bel sorriso e la voce roca.
«Ci siamo già visti, mi ricordo».
«Io no».
«Sì, eravamo in un altro locale un anno fa, c’erano un sacco di persone e pure tu c’eri».
È vero, c’era un sacco di gente, mi ero ubriacato a merda, avevo litigato con un tizio ed ero scivolato nel parcheggio sbattendo la testa contro un paraurti.
Giustina mi guarda a bocca aperta, ha i denti in linea e bianchissimi, peccato per il viso, forse ha avuto una giornata difficile e non ha trovato il tempo di truccarsi. Ha le occhiaie profonde, sembra che non dorma da mesi, il colorito della pelle smorto e le guance sfigurate dai brufoli, come mangiasse ogni giorno calamari e gamberi fritti. Mi sorride, io ricambio facendo lo stesso ma a bocca chiusa, mi vergogno. I miei, di denti, sono scuri. Colpa delle sigarette.
«Cosa prendi?» mi chiede lei.
«Non lo so».
Sui menù ci sono fotografie di piatti numerati. Chiedo a lei di scegliere. Ride. Appena apro bocca ride, come avessi stampato in fronte Pagliaccio. A un certo punto inizio anch’io: la guardo un attimo, abbasso gli occhi e rido.
«Di cosa ti occupi?» le chiedo.
«Sono massaggiatrice. Ho uno studio tutto mio e sta aumentando il lavoro. Tu?»
«Corriere espresso notturno. Faccio consegne nei centri di smistamento postali in tutta la regione».
Diamo al cameriere i fogli coi numeri dei piatti che abbiamo scelto; ordiniamo acqua, due bottiglie di vino bianco secco e ci abbandoniamo ai discorsi a caso del fine settimana: lavoro, macchina rotta, guarda quella quanto è bella ci provo, calcio e Giustina ho la cervicale fammi un massaggio.

Arrivano i piatti, Giustina mi sfiora il dorso della mano con la bacchetta — pure quello sa fare, usare le bacchette — e assaggia il filetto di tonno; dalle labbra le scendono gocce di roba scura. Io m’infilo in bocca un raviolo al vapore e un po’ di vino. Nel frattempo arriva altra roba: pollo al curry e involtini di pesce e riso che ci dividiamo tutti e quattro. Paride e Fabio parlano tra loro, Giustina mi tiene d’occhio e io fingo di non accorgermene; anche dalla mia bocca scendono gocce di roba scura. Mi passa il tovagliolo, versa del vino nel mio bicchiere fino a svuotare la bottiglia e ne ordina un’altra, l’ultima prima di amaro e caffè.

Dopo il conto usciamo e stiamo nel parcheggio a fumare. Paride ha freddo, Fabio il mal di testa, io il rigurgito, e Giustina sta in grinta, se ne vuole andare a ballare da sola, non prima di avermi chiesto il numero.
«Ti voglio a un’altra cena, mi spacchi e sei strano» dice prima di sparire in un banco di nebbia.

Sul lavoro mi chiama. La ascolto mentre guido. La sua voce si sovrappone alla musica che passa in radio e allo scricchiolio degli interni in plastica del furgone. Mi fa stare bene e inizio a pensare a lei. Le dita massicce. I denti allineati. La voce roca e le guance impestate.

Paride mi aspetta sotto casa col motore acceso.
Mi passo i capelli col gel fortificante e, per la prima volta, lascio perdere la mia pasticca serale.
In macchina ci sono anche Fabio e Giustina. Lui mi fa un cenno con la testa; lei mi dà una pacca sulla gamba e due baci sulle guance; sento l’odore della pelle e il profumo sui vestiti. Usciamo dal cortile e prendiamo il viale che porta fuori dal paese. Facciamo la statale verso le montagne. Il ristorante sta in mezzo a una valle. Parcheggiamo nel fango ed entriamo. Ci sediamo a un tavolo vicino ai bagni, Paride e Fabio da un lato, io e Giustina dall’altro.

Arriva da bere: quattro prosecchi che svuotiamo in una volta, l’acqua che nemmeno apriamo e la bottiglia di rosso che assaggia Giustina.
«L’importante è che va giù» dice lei stringendomi il braccio. Un paio di gocce di vino le scendono dagli angoli della bocca, mi passa il tovagliolo, vuole che sia io a pulirla; Paride e Fabio applaudono, io arrossisco, scapperei volentieri ma le sfrego bene il mento e anche le labbra.

I primi sono spaghetti aglio e olio per Paride e Fabio, tagliolini al ragù di cervo per me e tonnarelli funghi e salsiccia per Giustina. Paride si lamenta per la pasta che è dura, io e Giustina gli diamo torto. Lui dice a me di stare buono e a Giustina di stare zitta, che è pallida, beve troppo e ha la pancia; lei scuote la testa, fa un sorso di vino dal mio bicchiere, prende un po’ della mia pasta e mette nel mio piatto la sua. Mastica lenta; mi sembra di poterle guardare dentro: i tagliolini che le scivolano in gola e il ragù di cervo che le si infila tra i denti. Mi sfiora la gamba col ginocchio mentre inzuppa il pane nel mio sugo; io non ho il coraggio di fare lo stesso con lei, la guardo giocare nel mio piatto tra un sorso d’Aglianico e l’altro.
All’arrivo dei secondi Paride frigna per la cottura del suo filetto e per una foglia sporca nella ciotola dell’insalata.
Io e Giustina il secondo ce lo dividiamo per bene. La carne della sua Fiorentina da mezzo chilo è tenerissima, mi slitta da sotto i denti fino allo stomaco come il culo di un bambino su uno scivolo acquatico. Lei prende qualche fetta della mia tagliata — che ancora cuoce e perde sangue dappertutto — una patata al forno e un paio di zucchine alla griglia. A fine pasto propone di andare a ballare tutti insieme. Io e gli altri accettiamo. Mangiamo torta cioccolato e mandorle, beviamo caffè, amaro, e ce ne andiamo a prezzo scontato.

In discoteca Giustina si butta subito in mezzo. Io sto in un angolo a bere, la guardo, balla col bicchiere in mano e la cannuccia tra i denti. Si scioglie i capelli, lancia l’elastico in aria e mi viene incontro. Le sue dita si uniscono alle mie, io cerco di stare fermo in quell’angolo di sala buia che ho scelto con cura, mi sussurra cose all’orecchio, riesce a portarmi al centro della sala. Mi vuole aiutare. Non fa altro che ripetere ad alta voce di lasciarmi andare e staccare il cervello dal mondo, dal lavoro, dalle persone intorno e dai problemi. Mi appoggia la mano su un fianco: passo avanti, indietro, destra e ancora indietro. Passo avanti, indietro, destra e ancora indietro. Avanti, indietro, destra e ancora indietro. Le accarezzo il collo, non dice nulla, ride, ride e basta, avvicino le mie labbra alla sua bocca, si sposta, rifiuta il contatto; scolla i suoi occhi dai miei e la sua mano dal mio corpo. Mi fermo e rimango a guardarla mentre s’appiccica a un altro; torno al mio angolo buio di sala e ricomincio a bere fino a chiusura con Paride vicino che mi prega di non passar fuori di testa per lei. È fatta così. Li vuole tutti lì i maschi, a mezz’aria.

In macchina si riavvicina. Vorrei ancora provare a metterle la lingua in bocca ma ho la vista appannata e vedo il mondo capovolto. Appoggio la testa al finestrino e mi addormento.

La domenica sto inginocchiato tutto il pomeriggio davanti al cesso col telefono in mano. Giustina è preoccupata. Mi invia messaggi per sapere come sto, se va tutto bene e ho bisogno di qualcosa.
«Delle tue dita massicce sul mio corpo avrei bisogno. Di te che mi passi un asciugamano bagnato sulla fronte. Delle tue corde vocali sfigurate. Delle tue gambe storte. Dei tuoi fianchi adiposi. Delle tue spalle larghe. E di una cena» le direi.
«Io e te. Soli».

Di andare a mangiare glielo chiedo sul lavoro, mentre guido tra una consegna e l’altra. Stiamo al telefono fino a tardi. Vuole farmi compagnia, tenermi sveglio. Ha paura che possa succedermi qualcosa per strada: un colpo di sonno, un camion che sbanda e mi butta in mezzo a un prato, una gomma che esplode facendomi sbattere contro il guardrail o, peggio ancora, il furgone di un collega che mi si ribalta davanti.
Se non ci fosse lei a occuparmi la testa sai che palle; tornerei a parlare coi lampioni e con gli specchi dei cessi in autogrill.
Accetta l’invito. Scelgo un ristorante in città. Sabato sera. Io e lei. Soli.
Ho i tremolii inguinali e voglia di addormentarmi in una piazzola di sosta con la sua voce in sottofondo. Vorrei condividesse con me timori, sogni, voglie e passioni ma è stanca; mi augura buon viaggio, buon lavoro e mette giù.

È quasi ora. Mi passo le ascelle col deodorante al gusto arancia che ho preso in offerta e, per la prima volta, uso il filo interdentale e lascio perdere il gel sui capelli.

Mi sono preso tutto il pomeriggio libero per sistemare casa. Ho spolverato i mobili, sgrassato i fornelli, lavato i pavimenti con acqua e candeggina, strappato le ragnatele dagli angoli dei muri, e telefonato a mamma dicendole di aver conosciuto una ragazza, non bellissima, ma speciale. Una che sembra nata per stare su un piedistallo.

Il cellulare squilla. È Paride e sta sotto casa col motore acceso ad aspettarmi. Mi affaccio al balcone e gli dico di andarsene, che ho da fare. Dal finestrino laterale della macchina sbuca una testa, è lei e c’è anche Fabio. Mi dicono in coro di sbrigarmi, che andiamo a mangiare tutti insieme e poi a ballare. Io rimango impalato, stringo la ringhiera. Avessi la forza la strapperei dal marmo lasciandola cadere sul parabrezza della macchina. Mi trema un ginocchio e pure un labbro. Rientro in casa. Cerco di stare buono, rallentare i pensieri. Devo lasciarmi scivolare tutto di dosso, fingere.
Mi sciacquo nuca e polsi, prendo una bottiglia di amaro, riempio un bicchiere, lo svuoto ed esco. In macchina Giustina mi saluta coi due soliti baci sulle guance. Io ricambio senza guardarla, ho il rigurgito e mi trattengo dal bestemmiare. Paride mi guarda dallo specchietto retrovisore e chiede se è tutto a posto. Fabio mi fa la stessa domanda e aggiunge che mi vede strano, come ci conoscessimo da una vita.
«Chi ti s’incula, tu e quei brutti denti storti e cariati che ti ritrovi» gli direi.
Usciamo dal cortile, prendiamo il viale che porta fuori dal paese fino ad arrivare al ristorante in città. Lo stesso che avevo scelto per me e Giustina.

Sui muri ci sono quadri di statue monche, fotografie di vecchi attori e cantanti e, appeso al soffitto, proprio sopra il nostro tavolo, un enorme lampadario in metallo a forma di corona d’alloro.

Ci accoglie una donna robusta, credo sui cinquant’anni, con un gran sorriso stampato in faccia, un grembiule unto, gli zoccoli ai piedi e una cuffia in testa. È la moglie del padrone. Se ne va in giro a spostare cose da uno scaffale all’altro: bottiglie di vino, ciotole piene d’acqua e carciofi, bicchieri, olio e aceto balsamico. Al contrario dei vestiti le sue mani sono pulite. Ci descrive i piatti e le specialità del giorno. Io so già cosa mangiare ma la lascio parlare. Il suo accento romano e la bella voce mi fanno, per un momento, passare la voglia di andarmene, chiamare un taxi o prendere un pullman fino a casa, tornare nel mio angolo buio, ricominciare con le medicine che ho mollato e, con gli occhi al soffitto, aspettare di addormentarmi il prima possibile. Il guanciale e i carciofi arrivano dal Lazio un giorno sì e l’altro pure. Suo fratello ha una macelleria a Grottaferrata, la sorella un orto a Frascati e la cugina una vigna a Ponzano Romano. Anche lei, come Giustina, ha i denti allineati e bianchissimi, le guance segnate e ride, mi guarda e ride, faccio su e giù con la testa come per dire «sì ho capito chissà che buono sto piatto» e ride. Anche Paride e Fabio ridono guardandomi, io faccio finta di niente, picchio le dita sul tavolo — mangerei volentieri un panino col tonno da solo a casa — bevo un bicchiere di Prosecco e ordino un antipasto di carciofi alla romana e broccoli saltati in padella, Giustina spinaci olio e limone, e gli altri due si fanno convincere dalla signora a prendere supplì di riso e mozzarella. Bevo un altro bicchiere di Prosecco mentre un cameriere con una biro sull’orecchio ci porta il vino rosso. Fabio voleva un bianco secco fruttato. Paride gli dice di chiudere la bocca e di assaggiarlo. Anche io lo vorrei zittire, lui e quel suo modo di fare da grand’uomo, si curasse i denti malandati al posto di parlare per niente, farebbe un favore, oltre che a noi, agli specchi dei cessi.
«Pesante sto rosso» dice.
«Meglio» penso io. Me ne verso un po’ e lo bevo alla goccia. Paride mi chiede com’è; non dico una parola e gli passo la bottiglia, poi la riprendo e bevo ancora. Ho le spalle dure e il collo scricchiolante.
Broccoli, carciofi e spinaci hanno l’aria di essere stati appena strappati dall’orto e i supplì sembra siano stati riempiti d’aria compressa. Giustina mi chiede se può assaggiare un po’ del mio antipasto, scuoto la testa, lei avvicina lo stesso la mano e io gliela pungo con la mia forchetta. Vorrei essere da solo a casa, al buio e in mutande. Non riesco nemmeno a guardare negli occhi la gente.
Ordiniamo bucatini all’amatriciana per quattro. Arriva un’altra bottiglia di vino. Svuoto l’ennesimo bicchiere e me ne faccio subito un altro. Giustina mi chiede di andarci piano e non esagerare, io picchio la mano sul tavolo e «Zitta. Stai zitta» le dico mentre il cameriere con la penna sull’orecchio ci mette la pasta davanti. Mi sento leggero, come non avessi i vestiti addosso, lei no, sembra le sia crollato uno scoglio in testa. Mi alzo in piedi, le prendo il tovagliolo e, ciondolante, glielo sistemo intorno al collo.
«I bucatini schizzano sugo dappertutto, signorina» le biascico all’orecchio. Poi mi siedo e svergino il piatto. Fabio e Paride pensano solo a mangiare. Masticano rumorosamente e li vedo storti, ciondolano anche loro, sembra. Io prendo in mano il bicchiere, faccio un sorso e lo lascio cadere per sbaglio. Gocce di pomodoro e vino mi s’appiccicano in faccia e sui capelli; pezzi di vetro dappertutto. Gli occhi di mezzo ristorante addosso, il cameriere che mi scopa tra i piedi, Fabio e Paride che mi ridono in faccia e io che non riesco a star dritto sulle gambe.
Non sono nemmeno riuscito a guardare Giustina arrotolare i bucatini sulla forchetta e raccogliere il guanciale croccante col pane. La vedo solo portarmi a fatica verso la macchina, aiutarmi a riposare appoggiato al suo petto fino alla porta di casa mia, aprirla, liquidare Fabio e Paride, bagnarmi faccia e polsi, spogliarmi e sdraiarsi nel letto accanto me senza farsi toccare le labbra e nessun’altra parte del corpo.

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↔ In alto: foto Matheus Ferrero / Pexels.

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