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Sono andata in carcere per poter essere libera.”
Nawal al-Sa’dawi, 2011

Voci di piazza

C’è l’islām nelle rivoluzioni? C’era Dio in piazza Taḥrīr, al Cairo durante una delle più grandi manifestazioni delle primavere arabe, a cantare per il pane e la libertà? Come diceva lo «sceicco della rivoluzione», Emad Effat, religioso sunnita della moschea al-Azhar, l’aria nella piazza era più sacra di quella della Mecca, perché c’è più urgenza divina in una piazza che nel più sacro luogo di nascita dell’islām. Il 24 novembre 2011, durante gli scontri al Cairo iniziati a Mohamed Mahmoud Street, a due passi da piazza Taḥrīr, la polizia carica i manifestanti: tra loro c’è Mona Eltahawy, scrittrice pluripremiata, editorialista del New York Times e attivista per i diritti LGBTQIA+ nel mondo arabo. La polizia le spezza un braccio e la mano destra, e la molesterà sessualmente. Eltahawy resta in detenzione per dodici ore, interrogata prima dal ministero degli interni e poi dall’intelligence militare. Quando più avanti riesce a parlare con la famiglia, la madre le chiederà: «Hai sentito di Emad Effat?». Il religioso, tra i simboli della rivoluzione, era morto per i colpi sparati dai militari in piazza. A darne la notizia fra i primi, Yasmine El Rashidi, un’altra scrittrice, un’altra voce pubblica in piazza con le altre. In piazza Taḥrīr «per la prima volta ho provato la sensazione che le donne sono uguali agli uomini» confessa Nawāl al-Sa’dāwī. Al-Sa’dāwī è un’autrice che si è divisa su più fronti fra l’attivismo, la pratica medica e la letteratura. Negli anni Ottanta è stata incarcerata per tre mesi per «crimini contro lo stato», esperienza durante la quale ha scritto un libro sulla vita carceraria nella sezione femminile, utilizzando eye-liner e carta igienica, che verrà pubblicato nel 1984 con il titolo Memoirs from the Womens Prison.[1]

Le donne sono le voci della rivoluzione, e si riappropriano dei principi coranici che predicano giustizia: da lungo tempo, scrive Eltahawy nella prefazione a Occupy Spirituality di Adam Bucko e Matthew Fox,[2] in Egitto gli ulamā’ e i muftī sono diventati gli uomini dello stato più che gli uomini di Dio; allora dove è la fatwā contro le baraccopoli con le fogne a cielo aperto? Dov’è quella contro la fame e l’abbandono dei poveri? Una fatwā è un pronunciamento legale emanato dal muftī che indica se un’azione sia permessa o proibita dalla legge islamica, la sharī’a. Eltahawy suggerisce che a piazza Taḥrīr la folla abbia emanato, nei fatti, la sua di fatwā: si può sparare sui manifestanti? Mai, è la risposta. Perché se gli uomini religiosi che rappresentano lo stato si frappongono tra la gente e l’idea di giustizia, rendendosi colpevoli di torture e brutalità, allora è giunto il tempo di reclamare un’altra spiritualità: «il mio Dio non spalleggia i dittatori e chi li sostiene. Io prego il Dio del Pane, della Libertà e della Giustizia sociale» dice Eltahawy. I libri, le scrittrici che rivendicano il posto in piazza e la voce per gridare sono parte della storia e della rivoluzione, non solo nella dimensione del mondo arabo ma in quella globale, nell’internazionalismo delle lotte: «Ci siamo dentro insieme. Cadremo e ci rialzeremo insieme. Condividiamo il coraggio e la solidarietà, insieme. Abbiamo bisogno che i nostri anziani e i nostri giovani si sollevino insieme».

Nel 1982 Eltahawy è una quindicenne al suo primo ḥajj, il pellegrinaggio al più santo sito dell’islām, la Ka’ba della Mecca, in Arabia Saudita, quando viene molestata due volte: «Mi vergognavo ed ero traumatizzata e, cosa più importante, sono rimasta in silenzio» ricorda in The Seven Necessary Sins for Women and Girls.[3] Anni dopo, forte dell’insegnamento di un’altra scrittrice e femminista, la poeta Audre Lorde, «your silence will not protect you», Eltahawy dà voce a questa storia durante un incontro internazionale di donne al Cairo. Man mano che il racconto prende forma, sempre più compagne arabe confermano un’esperienza identica, nello spazio sacro del mondo musulmano, una violazione non soltanto del corpo della donna ma della purezza stessa del pellegrinaggio. Questa storia compare anche in Perché ci odiano,[4] e per alzare il livello di consapevolezza nel mondo arabo Eltahawy ha creato e lanciato l’hashtag #MosqueMeToo; a seguito del clamore internazionale, l’Arabia Saudita nel 2017 prenderà misure precauzionali per la sicurezza delle donne durante l’ḥajj.

Se dai tempi di Ibn al-Ǧawzī, teologo arabo del XIII secolo, le donne non devono occupare gli stessi spazi degli uomini in moschea, per non distrarli dalla preghiera, ancora oggi una ragazzina è rimandata a casa, in Egitto, se non indossa correttamente il velo dell’uniforme scolastica: col capo scoperto incoraggia i compagni di classe e finanche i professori al peccato. Che sia un masǧid[5] del XIII secolo o una scuola del terzo millennio, il marchio della colpa e della vergogna è sempre assegnato alle donne: «sicuramente dovremmo insegnare ai ragazzi fino dalla giovane età a non molestare le ragazze, così che diventeranno uomini che non assalgono le donne, indipendentemente da come queste sono vestite».

Nel 2011 in Egitto molte donne hanno portato la sfida fin dentro la famiglia e smesso di portare l’hiǧab, il velo o il niqāb (che occulta tutto il corpo tranne gli occhi) adottando un chiaro imperativo: per liberare l’Egitto si deve per prima cosa liberare se stesse. La rivoluzione non era più solo in piazza Taḥrīr, ma in ogni casa egiziana, e la rivoluzione era anche la lotta al patriarcato.

Indossare o meno il velo fa parte delle scelte individuali legate all’autodeterminazione della singole persone nell’islām; tuttavia, è stato ed è ancora usato come uno strumento di oppressione. Un sondaggio del 2014 condotto dall’Institute for Social Research dell’università del Michigan in paesi a maggioranza musulmana come Egitto, Iraq, Libano, Pakistan, Arabia Saudita, Tunisia e Turchia ci informa che il 44 percento degli intervistati preferisce che le donne si coprano i capelli in pubblico; il 10 percento che si coprano dalla testa ai piedi, volto compreso, con burqa o niqāb. Quest’ultima percentuale in Arabia Saudita sale al 63 percento. L’attuale prevalenza del velo nei paesi arabi è uno dei punti dell’oscillazione di un pendolo, un andirivieni tra abbigliamento conservatore o liberale, spesso descritto come un eterno peregrinare tra «Islām» e «Occidente»: una dicotomia che rende difficile muovere critiche alla questione senza che l’hiǧab diventi una cesura tra due culture. Secondo la scrittrice e sociologa marocchina Fatima Mernissi «tutte le religioni monoteiste sono attraversate dal conflitto tra il divino e il femminile, ma nessuna si è spinta tanto lontano quanto l’islām, che ha optato per l’occultazione del secondo, almeno simbolicamente, cercando di velarlo, nasconderlo, mascherarlo».[6] Questo atteggiamento verso la donna è tanto più sorprendente in quanto si è visto il Profeta Muḥammad incoraggiare i suoi adepti a rinunciarvi, poiché rappresenta l’«età dell’ignoranza» pre-islamica, la ǧāhiliyyah e le sue superstizioni.

La misoginia nella prospettiva storica dell’islām

Gli stereotipi occidentali sulle donne musulmane poggiano su consolidate basi coloniali che hanno di fatto regolato ogni nostra interazione con l’Oriente. Prendiamo come punto di partenza di questo articolo un momento gravido di conseguenze, così come ci viene raccontato in Orientalismo da Edward Said: Gustave Flaubert incontra una cortigiana egiziana, Kuchuk Hanem (dal turco kuçuk hanım, «piccola signora»), che è stata una famosa e bellissima danzatrice di Esna, vicino Luxor, in Egitto. Viene citata in diversi racconti, oltre a quelli di Flaubert, e tra i più famosi il resoconto del viaggio in oriente di George William Curtis, un avventuriero americano. Flaubert la incontra durante il suo soggiorno egiziano tra il 1849 e il 1851, e ne fa la sua modella letteraria per le danzatrici protagoniste dei racconti La tentazione di Sant’Antonio e Erodiade. È in quel momento che per Said nasce un paradigma letterario della donna araba destinato a durare nel tempo: «ella non parla mai di sé, non esprime le proprie emozioni, la propria sensibilità o la propria storia. È Flaubert a farlo per lei. Egli è uno straniero di sesso maschile e condizione relativamente agiata, e tale posizione di forza gli consente non solo di possedere fisicamente Kuchuk Hanem, ma anche di descriverne e interpretarne l’essenza».[7] Docile, sottomessa, Kuchuk entra nell’immaginario dell’esotico occidentale.

Quando nel dibattito occidentale pensiamo alle questioni di genere nelle società islamiche, di solito, ragioniamo in termini di diritti umani e libertà sessuale delle donne. La «liberazione delle donne musulmane» era un pattern tipico dei governi coloniali europei del XIX secolo; ma la nuova spinta femminista sostenuta sia da donne sia da uomini che investe l’islām in questo primo scorcio di millennio afferma, una volta per tutte, l’autodeterminazione e la parità di genere in una prospettiva decoloniale. Quando in Occidente si parla di donne e islām si tende all’assolutizzazione, si opera una sineddoche culturale scambiando il tutto per la sua parte più estrema, come se identificassimo la cristianità con le minoranze più radicali: qualunque cosa ne pensino le comunità Amish in Pennsylvania, il cristiano medio continua a usare i bottoni sui vestiti. A proposito di generalizzazioni, nel 2006 Daniela Santanché, all’epoca deputata nelle fila di Alleanza Nazionale, dichiara che «il velo non è mai simbolo di libertà», definendo le donne velate «mascherate» e contrarie alla legge sul terrorismo e l’ordine pubblico, in spregio al rispetto del singolo all’autodeterminazione e alla scelta personale. Una spia di un retropensiero piuttosto diffuso in tutto il mondo occidentale che continua a pensare in termini coloniali e anti-islamici.

Occorre tenere sempre presente, comunque, che «nessun paese è libero dalla misoginia, e che i loro sforzi di fare marcia indietro sui diritti riproduttivi delle donne li rendono fratelli d’odio dei nostri islamisti» come ricorda Mona Eltahawy in Perché ci odiano. Proprio il 10 giugno scorso la delibera regionale dell’Umbria a guida leghista cancella la possibilità di somministrare la pillola RU486 senza ricovero o a domicilio, obbligando la persona che vuole abortire al ricovero di almeno tre giorni: di nuovo una politica contro il corpo delle donne, nel cuore del cattolico occidente.

Se da un lato parlare pubblicamente delle disuguaglianze di genere in Medio Oriente e Nord Africa concede alle destre altri argomenti per accedere le polveri razziste; dall’altro per alcuni liberali occidentali, che giustamente condannano l’imperialismo coloniale, vige una cecità selettiva di fronte all’imperialismo culturale che esercitano quando zittiscono le critiche interne dei paesi arabi. I paraocchi che fuorviano la vista dei liberal sono soprattutto quelli del paternalismo coloniale; quante volte abbiamo ascoltato o letto intellettuali senescenti e non arrogarsi il diritto di determinare cosa sia «autentico» per una cultura o una fede religiosa? Si applicano, in questa visione, le tipiche dicotomie di genere di matrice orientalista: se gli uomini migranti sono descritti come bruti, le donne vengono dipinte sempre come passive e sottomesse. Nasima Moujud, antropologa dell’ateneo francese Université Grenoble Alpes, osserva[8] che fin dagli anni Settanta in Francia gli studi sociologici di genere si sono concentrati sugli effetti «benefici» della migrazione delle donne maghrebine: il presupposto è che l’allontanamento dalle zone natìe consenta alla donna di transitare da un contesto definito «tradizionale» a uno più «moderno» – intendendo l’occidente europeo – nella prospettiva dell’emancipazione. Si riscontra una continuità tra passato e presente: le filles voilée, le giovani musulmane velate, restano l’incarnazione per eccellenza della donna non occidentale arretrata e tradizionalista. Allo stesso modo, all’occhio occidentale l’Oriente è un amalgama di stereotipi ereditati dal passato e ormai interiorizzati, mitizzati e identificati con la nebulosa definizione di «tradizione»: «questo stile, questa definizione compatta sono qualcosa con cui sempre l’Oriente dovrà fare i conti».[9]

La cultura «è destinata a ristagnare se degli estranei mettono fermamente a tacere le discordie interne nel maldestro tentativo di salvarci da noi stessi» dice Eltahawy[10], e più che grazie a salvifici interventi esterni di esportazione della democrazia sono il dissenso e le robuste critiche interne a modificare le società.

Mona Eltahawy è solo una tra le tante femministe islamiche che prova a coniugare la tradizione culturale in cui è cresciuta con le istanze di genere; ma la storia araba ha moltissimi esempi di contrasti tra lo spazio maschile e le incursioni femminili nel potere rivendicate dalle donne. In una prospettiva storico-linguistica, non esiste il femminile né per il termine imām né per califfo, le due parole che definiscono i ruoli di potere più alti nella lingua araba, quella in cui fu rivelato il Corano. Un dizionario come il Lisan al-‘Arab compilato da Ibn Manzur nel 1290 sostiene chiaramente che il califfo è voce soltanto maschile. In un siffatto contesto, ove il principio è quello dell’esclusione, ogni manifesta volontà delle donne di sconfinare nel territorio politico è stata percepita come una sfida al potere divino.

Pochi decenni di scolarizzazione di massa hanno visto un afflusso cospicuo di donne nelle università, ma esiste una lunga tradizione di istruzione femminile all’interno dell’islām. Perfino in tempi antichi allo studio e alla giurisprudenza sunnita classica, il fiqh che potremmo tradurre con «comprensione», venivano istruite le ǧariyah, le schiave del califfo; sviluppare le loro capacità intellettuali apprendendo il fiqh o la poesia, o migliorando i propri talenti musicali, era la sola possibilità per queste donne di sopravvivere in un ambiente dominato dagli uomini. A impressionare spesso gli storici arabi è la figura di Yazīd II, nono califfo omayyade (r. 720-724), tanto innamorato della sua schiava poeta da cadere in trance mentre lei canta. Secondo il Kitāb al-Aghānī composto da Abū al-Faraǧ al-Iṣfahānī nel X secolo Ḥabābah la schiava è poeta e musicista di talento, e Yazīd è un uomo dotato di sufficiente gusto da saperla apprezzare. Al-Aghānī raccoglie in circa venti volumi i progressi del canto e della musica nella civiltà araba, e dal momento che i migliori maestri gravitano attorno ai palazzi e agli harem, le ǧariyah vi occupano un posto centrale.

I livelli più alti di istruzione delle donne nell’harem non possono offuscare la posizione che queste artiste occupano: sono schiave condannate a vivere in uno spazio conchiuso, accessibile solo all’uomo che le possiede e agli eunuchi che le controllano. L’attenzione alla cultura e all’educazione accademica, anche oggi, non può distogliere dai dati ufficiali quanto a diritti delle donne: i paesi di lingua araba in Medio Oriente e Nord Africa vantano un terribile primato. Nel Global Gender Gap Report del 2020, il primo stato arabo piazzato in classifica sono gli Emirati Arabi Uniti, al centoventesimo posto su centocinquantatre (non c’è troppo da gioire per chi è al di qua del Mediterraneo visto che l’Italia è al settantaseiesimo posto, tra gli ultimi in Europa occidentale assieme a Grecia, Malta e Cipro). Ogni anno questo report viene compilato dal World Economic Forum tenendo conto di quattro settori fondamentali: salute, accesso all’istruzione, partecipazione economica e impegno nella vita politica. Paesi geograficamente confinanti come Arabia Saudita e Yemen sono a galassie di distanza quando parliamo di Pil, ma a soli sette punti se analizziamo i diritti per le donne, saldamente ancorati al fondo della classifica.

L’accesso delle donne al sapere non disturba, a patto che simile fenomeno non si ripercuota in politica: lo spazio dell’agire collettivo è un ḥudūd, un limite. L’elemento di disturbo è rappresentato dalla decisione della donna di esistere in quanto volontà indipendente; e vi è grande differenza tra intelligenza e volontà. L’intelligenza di una donna può sempre essere messa al servizio di colui che la possiede, per esempio all’interno dell’harem; una volontà, mai. La volontà è, o non è: può essere solo in competizione con un’altra, soprattutto con quella dell’uomo che si aspetta obbedienza. Ecco perché l’arabo ha una parola, al-nāšiz, per designare una donna che si ribella alla volontà del marito. Il concetto di nušuz si applica solo alle donne, e consiste nella dichiarazione da parte di una moglie di non seguire più la volontà del marito. Una nāšiz è una donna che si afferma in quanto individuo e non più in quanto essere allineato sulla volontà altrui. E il nušuz è evidentemente sinonimo di disordine. Ogni discorso sulle donne è, nel mondo islamico ma non solo, un discorso circa il divenire dell’individuo e il suo posto nella società. «Si tace. Non si dice niente. E vedrai, non riceverai più botte» dice la nonna, con una vita sulle spalle passata tra le mura dell’harem, a Fatima Mernissi, nata nel 1940 in un harem domestico di Fez, in Marocco. «Sono cresciuta e diventata il doppio in altezza, ho sviluppato delle spalle larghe, ho lasciato la scuola coranica e attraversato la vita a passo sicuro in cerca di dignità. Ma il mio percorso è sempre stato interrotto dai consigli costernati di coloro i quali mi amavano e volevano la mia felicità. Ripetevano tutti la stessa cosa: bisogna tacere per non prendere le botte.»[11]

L’impareggiabile lavoro di Mernissi è stato quello di ricostruire la storia delle donne di potere nell’islām che la storiografia ufficiale tende a dimenticare con colpevole negligenza; e lo fa a partire dalla prima donna che sceglie lo spazio pubblico per la politica: ‘Ā’išah, moglie del Profeta e prima musulmana a rivendicare una carriera politica, era «la donna più sapiente fra le genti in materia di scienze religiose, e quella che aveva maggiori conoscenze», così la descrive Ibn Haǧar Al-‘Asqalānī Al-Isābah fī Tamyīz al-Ṣaḥābah, storico e giurista arabo sciafeita del XV secolo. È lei a guidare la prima sanguinosa resistenza armata contro un califfo, nell’anno 658, il trentaseiesimo dell’ègira, mettendosi alla testa di un’insurrezione contro il quarto califfo ortodosso, ‘Alī Ibn Abī Ṭālib. Questo scontro è ricordato come waqa’at al-ǧamal, la «battaglia del cammello», con riferimento a quello cavalcato da ‘Ā’išah, la sola donna sul campo. ‘Ā’išah è la prima a violare gli ḥudūd, a oltrepassare la frontiera tra il territorio delle donne e quello degli uomini, a incitare all’omicidio, uscendo dall’harem e mettendo in discussione la prerogativa maschile di muover guerra.

‘Ā’išah è anche la prima donna dell’islām a prendere una decisione politica, comandando uomini con le armi, e nella memoria il suo nome rimarrà legato alla fitnah, il disordine e la distruzione. Se la donna in quanto individuo politico esiste quando rivendica la sua esistenza oltre la soglia di casa, nel mondo islamico non potrà che misurarsi dal minbar, la cattedra della moschea, laddove il potere divino e il potere terrestre si manifestano l’uno attraverso l’altro. Proprio dal minbar viene pronunciata la khubah del venerdì, il sermone più importante, che contiene invocazioni a Allah e ai suoi profeti, ma soprattutto, storicamente, la citazione del sovrano regnante: il suggello quindi sia divino sia politico sul potere temporale del califfo. Al tempo di Muḥammad il sermone era il momento in cui la comunità tutta, uomini e donne senza distinzioni o separazioni spaziali, era riunita in preghiera e accoglieva le notizie che riguardavano l’intera comunità.

Nata in Maryland nel 1953, Amina Wadud è una accademica afroamericana convertitasi all’islām nel 1972. I suoi studi si concentrano soprattutto sull’interpretazione dell’islām da una prospettiva di genere. Il 18 marzo 2005, in un momento che avrebbe fatto epoca, ha guidato la preghiera del venerdì dal minbar della moschea di New York davanti a un’assemblea mista di donne e uomini, non più rigidamente separati dagli spazi tradizionalmente assegnati. Anche il richiamo alla preghiera di quel venerdì è stato eseguito da una donna, Suhayla El-Attar. Come ogni religione anche l’islām ha sviluppato nei secoli la capacità di adeguarsi ai cambiamenti della società, e quella giornata ne è certamente un riflesso. La khubah è stata di nuovo pronunciata da una donna qualche mese dopo, grazie a Asra Quratulain Nomani, giornalista e saggista indiana naturalizzata statunitense, musulmana, femminista, attiva sul fronte dei movimenti liberali nell’islām.

Nel 1992 Wadud scrive Il Corano e la donna,[12] un lavoro che propone una rilettura del testo sacro e della sua interpretazione tradizionale, il cosiddetto metodo tafsīr al-Qur’ān bi-l-Qur’ān, cioè la pratica ermeneutica che cerca le risposte all’interno del Corano stesso, prescindendo dalle esegesi successive. Grazie a questo libro molte donne hanno avuto la possibilità di prendere la parola pubblicamente. Gli studi di Wadud si concentrano sui passaggi considerati problematici perché hanno a che fare con la costruzione del concetto di genere nelle società musulmane, e lo stesso tafsīr, ossia l’interpretazione del testo sacro eseguita dai dotti ʿulamāʾ, è una pratica che si ripete nel tempo e che rende la scrittura sacra mai ferma: «Non sono entrata nell’Islām con i miei occhi chiusi alle strutture e alle esperienze personali di ingiustizia che continuano a esistere» dirà in una dichiarazione d’intenti.[13]

In tutti i dibattiti del mondo musulmano (e non soltanto), l’essere umano normativo è la persona di sesso maschile; la convinzione profonda che gli uomini rappresentino la normalità e, di conseguenza, le donne l’anormalità, è rimasta praticamente intatta. Questo ha impedito il pieno riconoscimento della donna nella costruzione del suo ruolo etico-spirituale e politico: le donne sono quindi relegate «nel ruolo di soggetto senza rappresentanza, essendo state quasi del tutto escluse dal dibattito fondamentale, quello che stabiliva le basi paradigmatiche del significato dell’essere musulmano» dichiara Wadud. L’esegesi coranica classica, la tafsīr, è scritta quasi tutta da uomini; nel processo interpretativo giocoforza sono stati considerate quasi unicamente le esperienze maschili. Il femminile è stata escluso, oppure interpretato secondo la percezione o il desiderio della donna nell’uomo. In nessuna delle suwar[14] sulla creazione dell’umanità, Wadud trova indicazione di differenze sostanziali nei valori attribuiti alla due identità sessuali: donna e uomo sono uguali e dotati delle stesse potenzialità agli occhi di Allah; lo stesso testo sacro si rivolge in uguale misura ai credenti e alle credenti.

L’islām è una delle religioni che ha innalzato la differenza dei sessi a architettura sociale. La donna appartiene allo spazio interno, ḥarīm, lo «spazio proibito», e gli uomini appartengono allo spazio esterno, quello pubblico. «L’harem aveva a che fare con lo spazio privato e le norme che lo regolano. Senza contare […] che per fare un harem le mura non sono indispensabili. Una volta che si sa cosa è proibito, l’harem è qualcosa che ci si porta dentro. “Ce l’hai nella testa, scolpito sotto la fronte e sotto la pelle”» ricorda Fatima Mernissi.[15]

La moschea del Profeta, quella delle origini, era aperta a tutti, pronta a ricevere chiunque avesse interesse per l’islām, comprese le donne. Sarà un tradimento dell’ideale comunitario di Muḥammad il confinamento delle donne nel luogo di culto. La donna che ha avuto il privilegio di accedere alla moschea in quanto ṣaābiyyah, «seguace del Profeta», tornerà nuovamente a rappresentare l’essere malefico e inquinante che era nella ǧāhiliyyah, l’epoca pre-islamica: una delle cause è un uomo di nome Ibn al-Ǧawzī, imām ḥanbalita, che nel XIII secolo redasse un volume tuttora valido sulle leggi a cui dovevano essere sottoposte le donne nell’islām, il Kitāb Akām al-Nisā’iyyah, che al capitolo 24 annulla la preghiera degli uomini che si mettono in fila nella moschea dietro alle donne. Ecco che viene quindi ratificato il limite spaziale che le donne possono occupare in pubblico, sempre subordinato e marginale rispetto a quello maschile. È così che si fa rinascere dalle ceneri una misoginia che precedeva l’islām e che sarebbe seguita a Muḥammad, il quale aveva invece tentato di eliminarla, insistendo sulla necessità di condivisione con le mogli e figlie e sorelle. La sua Sītah, la biografia del Profeta, ce lo mostra sempre in compagnia delle donne durante le azioni fondative della nascita dell’islām: pregare e fare la guerra. Nel Kitāb al-Ǧum’ah, il «libro del venerdì» dell’imām Buḫārī che scriveva due secoli dopo la morte del Profeta, si incontra questo celebre ḥadīth[16]: «Non proibite i masǧid di Allah alle donne di Allah». Cinquant’anni dopo l’imām Nisā’ī chiude la questione nei suoi Sunan rispondendo alla domanda: «a chi è veramente interdetto l’accesso alla moschea?». A chi mangia aglio e cipolla, secondo il Profeta.

Fatima Mernissi è considerata in tutto il mondo una fra le più autorevoli e originali intellettuali del mondo arabo. Mernissi ha dedicato un’attenzione particolare alla questione femminile nel Marocco musulmano e più in generale nel mondo islamico. Questa attenzione si traduce in un filtro peculiare attraverso cui si osserva il mondo: è il punto di vista femminile che indaga le problematiche sociali e il dispiegarsi delle vicende storiche, a partire dal ricordo della sua infanzia nell’harem di Fez, o quello in campagna della nonna Jasmina in un Marocco dilaniato dagli scontri tra spagnoli e francesi, fino al privilegio delle sultane imperiali. Mernissi si trova dunque in una posizione unica tra le scrittrici, coerente tra il soggetto che ricerca e l’oggetto descritto, in una medesima identità culturale e religiosa, arricchita da una scrittura polemica e dissacrante. La visione letteraria, e per alcuni versi storica, che l’autrice marocchina offre è il rifiuto dell’immagine dell’islām imposta dall’occidente e la possibilità di un altro orizzonte a malapena avvistato dalla storiografia ufficiale, uno che vada «oltre l’islām dei padroni» e si addentri «nelle zone paludose e oscure del marginale e dell’eccezionale nella storia delle dinamiche-tensioni, ovvero la storia dell’ordine contrastato, del rifiuto, della resistenza». In questo contesto, avventurarsi dalla parte delle donne equivale a inciampare nelle resistenze, e «se le si trascura, avremo trascurato le tensioni che costituiscono la dinamica della vita».

Gli ḥudūd sono i confini entro i quali una donna deve sapersi muovere e parlare, e «cercare i confini è diventata l’occupazione della mia vita» dice proprio Fatima Mernissi nella Terrazza proibita. Individuare con esattezza la linea geometrica che determina l’impossibilità di agire è essenziale. Sua madre, benché reclusa nei bellissimi spazi del suo palazzo, le cui finestre danno tutte sul cortile interno e mai sulla strada, rifiuta con ostinazione la presunta superiorità maschile come illogica e del tutto anti-musulmana: «Allah ci ha creati tutti uguali» era solita dire, predicando alla figlia e alle nipoti di non lasciare agli uomini il compito di protestare a nome di tutti. Insegnerà alla figlia Fatima a rivendicare lo spazio pubblico: «Devi imparare a gridare e a protestare, proprio come hai imparato a camminare e parlare. Piangere davanti agli insulti è come chiederne ancora».

Le donne presenti nella storia ufficiale, quella compilata dagli uomini, sono le sante e le figure legate alla famiglia del Profeta, e tra i primi sufi compare una donna di Basra, Rābi’a al-‘Adawiyya. Si dice che fosse una schiava, liberata dal padrone che aveva riconosciuto in lei le caratteristiche dell’ascesi e della santità. Rābi’a diventa in effetti un’asceta dedita al misticismo e alla castità, e riunisce attorno a sé un gruppo di discepoli. L’essere donna non rappresenta mai per lei un ostacolo al suo prestigio e al suo cammino verso dio attraverso l’amore: «O Dio […] non lesinarmi la tua eterna bellezza» canta una delle sue invocazioni ripetuta nei secoli.

Dalla santa sufi prende il nome Rabia, la protagonista di La figlia di Istanbul (traduzione di Fabio De Propris, Elliot) della scrittrice turca Halide Edip Adıvar. La Rabia letteraria è la nipote del severo imām del quartiere Sinekli Bakkal; svelta d’ingegno fin da piccina, il nonno fa di lei una perfetta hafız, una pia cantrice del Corano. È proprio nella moschea che conquista il pubblico, recitando il mukabele tipico del Ramadan.

Nata a Istanbul nel 1882, Edip è stata la prima donna musulmana a diplomarsi al liceo americano della capitale ottomana agli inizi del Novecento. Suo padre Mehmet Edip Bey era tesoriere privato del sultano Abdülhamid II, negli ultimi disastrosi anni dell’impero ottomano. Halide, orfana di madre in giovanissima età, viene educata dalla nonna secondo i principi tradizionali dell’islām. Nel 1908 inizia a scrivere per alcuni giornali, tra cui il Tanin diretto da Tevfik Fikret, pseudonimo del poeta Mehmed Tevfik; i suoi articoli mettono in luce la rivendicazione dei diritti delle donne, facendole guadagnare l’ostracismo dei reazionari. Insieme a altri intellettuali, si sposta su posizioni nazionaliste che, vedendo l’impero in disfacimento, cercavano nell’Anatolia il nucleo dell’identità e lo spazio per un futuro stato turco. Nella piazza di Sultanahmet, il 23 maggio 1919, Halide Edip pronuncia un memorabile discorso contro l’occupazione greca di Smirne; seguendo Mustafa Kemal, ne diventa la segretaria addetta stampa e interprete e discute nel 1928 con lui del passaggio dall’alfabeto arabo a quello latino per la lingua turca, dando l’avvio a un grandioso programma di alfabetizzazione. I dissidi con Atatürk però la spingono a un esilio volontario: Edip mal sopporta le tendenze autocratiche e l’ostilità verso l’islām del leader turco.

La sua fama letteraria è legata soprattutto a due romanzi, il primo dei quali è Handan, del 1912, in cui sull’impianto storico piuttosto fosco degli anni di regno di Abdülhamid II risalta la figura della giovane Handan. La figlia di Istanbul è il suo capolavoro e rappresenta in Turchia un’opera di grande importanza, trasposta al cinema e a teatro, ha l’ambizione di racchiudere in una forma romanzesca l’anima di un popolo attraverso le sfumature di personaggi còlti in un particolare momento storico che di quell’anima costituisce il momento battesimale. È il mondo in cui si muovono Tevfik «la bella», attore specializzato in ruoli femminili tipici della cultura popolare turca, e sua figlia Rabia, musulmana devota dalla voce dolcissima, entrambi immersi in un conflitto tra la religione collusa col potere, rappresentata dal vecchio riottoso imām di quartiere, nonno materno di Rabia, e il suo aspetto più sincero e mistico, interpretato dalla figura del derviscio Vehbi Dede. L’aderenza all’islām si coniuga in Rabia con una volontà forte: per marito prende un musicista veneziano e lo guida verso la via del Profeta, ma non si inginocchia mai a lui, non gli toglie le scarpe, non tace quando lui parla. Rabia rivendica le proprie emozioni: la gioia, la rabbia, l’ostinazione. Questo aspetto riflette le simpatie di Halide verso la mistica islamica eterodossa come il sufismo mehvlevî, più aperto verso le altre culture e le altre religioni dell’ortodossia sunnita: «ma sarebbe diventata una donna attaccata più agli esseri umani e a tutto ciò che vive, che non alle idee».[17]

«Siamo in tantissime»

Secondo molte voci del mondo musulmano che sono emerse nell’ultimo decennio, la tradizione coranica e il femminismo non sono in disaccordo, ma mentre la prima attiene a una scelta personale e privata, la spinta femminista abbraccia l’orizzonte più ampio delle lotte internazionaliste in una dimensione laica e solidale. Come la scelta del velo, la fede in Allah e nel suo Profeta è un aspetto dell’autodeterminazione. Le interpretazioni religiose come strumento oppressivo dell’autorità temporale sono aberrazioni dalle conseguenze sociali disastrose. Nel 2002 lo Human Right Watch denuncia un incendio in una scuola alla Mecca: quindici ragazze fra i tredici e i diciassette anni muoiono calpestate, cinquantadue restano ferite e un’intera scuola viene divorata dal fuoco. La denuncia di genitori, giornalisti e osservatori internazionali è unanime: ottocento studentesse in una scuola che in teoria ne avrebbe dovute ospitare non più di duecentocinquanta. Ma c’è di più: il cancello principale era chiuso dall’esterno. I pompieri diranno alla stampa che la polizia morale, o più precisamente il «Comitato per l’imposizione della virtù e l’interdizione del vizio», la muawwi’a o hay’a, ha costretto le ragazze dentro l’edificio in fiamme perché non indossavano velo e ‘abāya come d’obbligo per le donne nei luoghi pubblici. Un quotidiano locale scriverà che la muawwi’a ha impedito a alcuni pompieri di aiutare le studentesse perché «avvicinarle è peccato».

Eppure, con buona pace del Comitato e a conferma di quanto di quanto sostiene Fatima Mernissi, anche Leila Ahmed, erudita egiziano-americana e docente alla Harvard Divinità School, ritiene che coprirsi il capo col velo fosse già usanza delle civiltà pre-islamiche e perfino precristiane, non solo in Arabia, ma in tutto il bacino mediterraneo. Ahmed inoltre dissente con forza dalle opinioni secondo cui il Corano obbligherebbe le donne all’hiǧab: «il velo non è esplicitamente prescritto nel Corano; i soli versi che riguardano l’abbigliamento delle donne […] impongono loro di tenere coperte le parti intime e di avvolgere il petto in uno scialle».[18]

Mona Eltahawy, Fatima Mernissi e Halide Edip Adıvar sono donne e scrittrici di tre paesi e generazioni diverse, che hanno saputo combinare la lotta per i diritti delle donne con la propria pratica spirituale. Tre voci tra le tantissime, per citare una lettera aperta contenuta in Mes hommes dell’algerina Malika Mokeddem che scrive pubblicamente agli uomini che ha amato – e il padre fra questi – per opporsi al conservatorismo religioso degli altri maschi, «le forze oscure», che insistono a controllare la vita delle donne: «E ovunque appaiano in Occidente, il loro scopo è negare alle donne la dignità di un’esistenza legittima. […] Le loro brigate sono riuscite a caricare questi bagaglio sulla schiena delle giovani immigrate, a cui hanno messo i paraocchi. Ma non è detto che saranno loro ad avere l’ultima parola, padre. Siamo in tantissime ad avere come unica religione il diritto all’uguaglianza, alla libertà, all’amore, alla scelta sessuale».


Bibliografia

Leila Ahmed, Oltre il velo: la donna nell’Islām da Maometto agli ayatollah, traduzione di G. Graziosi e M. Baccianini, La Nuova Italia, Firenze 1995.

Leila Ahmed, Women and Gender in Islam. Historical Roots of a Modern Debate, Yale University Press, New Havem 1999.

Nawāl al-Sa’dāwī, Memoirs from the Womens Prison, traduzione di Marilyn Booth, University of California Press, Berkeley 1994.

Adam Bucko e Matthew Fox, Occupy Spirituality, North Atlantic Books, Berkeley 2013.

Halide Edip Adıvar, La figlia di Istanbul, traduzione di Fabio De Propris, Elliot, Roma 2010.

Yasmine El Rashidi, The battle for Egypt: dispatches from the revolution, New York Review Books, New York 2011.

Mona Eltahawy, The Seven Necessary Sins for Women and Girls, Beacon Press, Boston 2019.

Mona Eltahawy, Perché ci odiano, traduzione di Alessandra Montrucchio, Einaudi, Torino 2015.

Fatima Mernissi, Donne del Profeta: la condizione femminile nell’Islām, traduzione di G.M. Del Re, Ecig, Genova 1992.

Fatima Mernissi, Le sultane dimenticate. Donne capi di stato nell’islam, traduzione di Mirella Gordini, Marietti 1820, Genova 1992.

Fatima Mernissi, La terrazza proibita. Vita nell’harem, traduzione di Rosa Rita D’Acquarica, Giunti, Firenze 1996.

Malika Mokeddem, Mes hommes, Grasset, Parigi 2005.

Nasima Moujud, Effets de la migration sur les femmes et sur les rapports sociaux de sexe: au-delà des visions binaires, in Cahiers du CEDREF, Femmes, genre, migrations et mondialisation: un état des problématiques, Publications Universitaires Paris Diderot, Paris 2008.

Edward W. Said, Orientalismo, traduzione di Stefano Galli, Feltrinelli, Milano 1999.

Amina Wadud, Il Corano e la donna, traduzione di Patrizia Messinese, Effatà, Cantalupa 2011.

Amina Wadud, Inside the Gender Jihad: Women’s Reform in Islām, Oneworld Publications, Oxford 2006


Note

[1] Nawāl al-Sa’dāwī, Memoirs from the Womens Prison, tradotto da Marilyn Booth, University of California Press, Berkeley 1994.

[2] Adam Bucko e Matthew Fox, Occupy Spirituality, North Atlantic Books, Berkeley 2013.

[3] Mona Eltahawy, The Seven Necessary Sins for Women and Girls, Beacon Press, Boston 2019.

[4] Mona Eltahawy, Perché ci odiano, traduzione di Alessandra Montrucchio, Einaudi, Torino 2015.

[5] Lett. «luogo in cui ci si prosterna», la moschea ordinaria. La moschea del venerdì, quella della preghiera più solenne, è detta ǧami’ e si differenza dall’altra per la presenza del minbar.

[6]Fatima Mernissi, Donne del Profeta: la condizione femminile nell’Islām, traduzione di G.M. Del Re, Ecig, Genova 1992.

[7] Edward W. Said, Orientalismo, traduzione di Stefano Galli, Feltrinelli, Milano 1999.

[8] Nasima Moujud, Effets de la migration sur les femmes et sur les rapports sociaux de sexe: au-delà des visions binaires, in Cahiers du CEDREFFemmes, genre, migrations et mondialisation: un état des problématiques, Publications Universitaires Paris Diderot, Paris 2008

[9]Said, Op. Cit.

[10] Eltahawy, Op. Cit. 

[11] Fatima Mernissi Le sultane dimenticate. Donne capi di stato nell’Islām, tradotto da Mirella Gordini, Marietti, Genova 1992.

[12] Amina Wadud, Il Corano e la donna, traduzione di Patrizia Messinese, Effatà, Cantalupa 2011.

[13] Amina Wadud, Inside the Gender Jihad: Women’s Reform in Islām, Oneworld Publications, Oxford 2006

[14] Plurale di sūra, la ripartizione in cui è diviso il Corano.

[15] Fatima Mernissi, La Terrazza proibita. Vita nell’harem (traduzione di Rosa Rita D’Acquarica, Giunti, Firenze 1996).

[16] Resoconto su qualcosa che il Profeta disse o fece.

[17] Halide Edip Adıvar, La figlia di Istanbul, traduzione di Fabio De Propris, Elliot, Roma 2010.

[18] Leila Ahmed, Oltre il velo: la donna nell’Islām da Maometto agli ayatollah, traduzione di G. Graziosi e M. Baccianini, La Nuova Italia, 1995.

 

 

 

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