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3 marzo 2020, Burlington, Vermont

I fari del Subaru Forester illuminano l’asfalto omogeneo del vialetto e la porta basculante del garage. All’interno del veicolo ci sono i proprietari di casa, Bernie Sanders e sua moglie Jane. Sono appena tornati da Essex Junction, dove ha avuto luogo il raduno casalingo in occasione del Supertuesday e dove hanno atteso i risultati del voto. Il motore entra in modalità silenziosa. Il cappotto di Jane fruscia appena mentre lei si allunga ad afferrare la maniglia dello sportello. «Sicuro che non vuoi che ti accompagni?».
«Sì, sicuro. Non preoccuparti, devo fare due passi, pensare un po’. Ci vediamo dopo, o domattina».
«Bernie».
«Sì».
«La gente ti ama».
«Lo so, lo so».
«In quest’anno sei stato sommerso d’amore. Anche se non diventerai presidente, tutto questo sarà stato qualcosa di bello».
Bernie tira su un angolo della bocca, guarda il volante. «Hai ragione».
Lei annuisce, gli accarezza il volto, gli sorride. Qualcosa di fuggevole nello sguardo di lui la preoccupa. Si sporge per cercare di leggergli gli occhi.
Bernie gira la testa verso il finestrino. «Dai, su, falla finita».
«Ok», dice Jane, poi scende dalla macchina, lo saluta un’ultima volta e si incammina rassegnata verso casa. Sulla porta si arresta e si volta a vegliare sulla vettura che fa retromarcia e accelera via, poi ne ascolta il rumore venire soffocato dalla notte. Da nord, da oltre il lago, le arriva in faccia un vento che la raggela e la costringe a entrare di corsa.

Bernie guida per le vie deserte della città, ma più che altro pensa. Vede i numeri proiettati a schermo, indubitabili e definitivi, che lo sanciscono come il perdente, ancora e per un’ultima volta, colui che trova il proprio destino nella sconfitta, nel sacrificio esangue offerto per saziare la fame mostruosa di una democrazia fasulla, un golem manovrato dai maiali che infestano i grattacieli della mai troppo lontana Washington, una città succube dei lobbisti e corrotta come un’empietà biblica, come il Partito Democratico che ancora una volta si è schierato compatto in difesa del potere. Obama ha guidato gli afroamericani su Biden, e nello stesso momento i candidati moderati sono riusciti a massimizzare il loro guadagno facendosi corrompere, lasciando la campagna elettorale e appoggiandolo anche loro, e così Biden si è preso tutto il sud. Se solo in Texas fosse andata diversamente…

C’è un po’ di vita in Church Street, Bernie sa che i suoi concittadini hanno seguito lo spoglio nei bar e li immagina abbattuti, qualcuno perfino più di lui, e silenziosi, in lutto. Svolta a destra, percorre la via fino all’incrocio e parcheggia accanto al cantiere ingrigito del City Park, circondato dai lampioni spenti come enormi steli bruciati. Cammina ascoltando il colpi dei polpastrelli che sfiorano la recinzione d’alluminio a maglie larghe e il rumore dei propri passi, e il vento, che gli mulinella dentro le orecchie sussurrandogli qualcosa che non comprende. Raggiunge il quartier generale della campagna elettorale. Entra usando la chiave che per una scaramanzia non più necessaria tiene insieme a quella di casa, dell’appartamento a Washington e della macchina. Le luci automatiche sono state disattivate per la notte. L’atmosfera è spettrale a quell’ora e lo sarà per sempre nei suoi ricordi. Palpa il muro in cerca dell’interruttore, lo trova. Va in bagno. Si schizza l’acqua sulla faccia e vorrebbe ficcare la testa sotto lo scroscio per spegnerla come fosse un fiammifero, come fanno nei cartoni animati. Si asciuga, si guarda allo specchio: il quasi candidato per i democratici, il quasi quasi presidente degli Stati Uniti, due ciuffi di capelli bianchi, secchi come gli anni che gli sono rimasti e arruffati ai lati della testa, nidi di uccelli estinti e mai stati rapaci, e poi quegli occhiali. Forse avrebbe dovuto dare retta a Carli, che gli aveva suggerito di usare le lenti a contatto perché a suo dire gli occhiali raramente danno in autorevolezza intellettuale ciò che tolgono in virilità, e sono perfetti solo su un volto lungo, su un corpo alto, solo così si può cavalcare quel bonus. A Bernie era sembrata una vanità evitabile alla sua età e con la sua storia, eppure erano stati pochi i presidenti con gli occhiali, l’ultimo era stato Truman, e al primo giro non per elezione, e quando andò al voto per il secondo mandato nessuno si sarebbe aspettato di vederlo presidente, era considerato impossibile. Give ‘em hell, Harry! Avrebbe potuto anche lui, Bernie, provocare lo stesso imbarazzo nei media. E poi, invece, è andata in un altro modo. È andata. Immagini di resa e disfatta sfociano dall’universo onirico affollandogli le retine. I panorami gloriosi che l’hanno nutrito non esistono più neanche in potenza, e a pensarli fanno male. Cerca di eludere le macerie che gli si presentano davanti ma un nucleo al centro di esse, come una pulsazione, prende vigore fino a delinearsi nella certezza del significato: è finita. La speranza è finita oggi. C’è sempre stata, l’ha sempre guidato, e ora non c’è più. È strano, è come se si fosse prodotta una separazione tra lui e il mondo. Sente tutto come estraneo, soprattutto se stesso. Non ricorda di aver mai provato una solitudine così estrema, come se tra lui e il suo tempo si stendesse un gelo cosmico. Forse è così che si sentono tutti, o forse solo chi si è illuso di poter contare qualcosa può provare questo senso d’impotenza e nullità. Vorrebbe piangere ma si china sul lavandino e si sciacqua il volto con maggior vigore, poi sputa con un suono pastoso e segue il catarro mescolarsi al flusso secondo le leggi del gorgo, poi si tira su. Ha bisogno di qualche secondo per riconoscersi.

Di nuovo fuori, sosta davanti all’entrata su cui è appeso un manifesto della campagna elettorale. Not me. Us. Si incammina su College Street in direzione del lago. Le parole diventano ologrammi crittografici sulle superfici degli edifici. Not me, us. Not me, not us. No one, never. Si affaccia sull’incrocio e un vento nero lo colpisce da destra costringendolo a strizzare gli occhi, poi si placa di colpo. Bernie prende dalla tasca il cappello di lana e se lo infila sul cucuzzolo spelacchiato. Guarda in direzione di Montreal e immagina il soffio imbizzarrito di giganteschi cavalli fantasma che scalpitano per caricare sull’intera valle. Riprende il cammino, pensa a Joe, uno delle migliaia di uomini selezionati dal capitale, un altro senza le palle per lottare in favore degli ultimi. I Clinton, Obama, e ora quest’altro pupazzo, tutti inginocchiati al potere, tutti deboli come il Partito Democratico stesso, un formicaio pieno di gente che pone l’interesse personale sopra all’ideale, allo scopo comune, che in realtà nessuno ha neanche la forza di conoscere, figuriamoci perseguire. Così non possono esistere le possibilità per la lotta, conclude mentre continua a camminare, poi butta un’occhiata fugace all’enorme casa alla sua sinistra, bianca, col porticato, il frontone e il colonnato ionico che arrivano fino al secondo piano, e l’edera che se la mangia per metà. Quand’era sindaco la pianta avviluppava solo due colonne, e quello stile neoclassico gli faceva sognare Washington. Molti gli hanno preferito Biden per il fattore eleggibilità, ovvero hanno pensato che Biden avrà maggiori possibilità di vincere contro Trump. Non sono contate le idee, il programma, ma solo un calcolo meschino e superficiale, e la cosa fa rammaricare Bernie soprattutto perché lui è certo che avrebbe potuto cambiare l’intero sistema, che vincendo sarebbe potuto diventare un eroe, quello che gli Stati Uniti e il mondo intero aspettano, se solo la gente non si fosse abituata al crepuscolo. L’americano medio non ha visione, non ha fantasia, non può credere nel cambiamento perché non può vederlo, sommerso com’è dalle marionette che nascondono coi loro volteggi le scandalose montagne d’oro che i grandi capitalisti continuano ad accumulare. Rispunta dalla memoria l’idea che Hegel aveva dell’eroe, il vincitore naturale, colui che con le proprie azioni dà corpo allo spirito del tempo, forzando l’umanità a fare il passo necessario verso un progresso teleologicamente inteso, l’alfiere di un mondo che autocorreggendosi si avvicina alla perfezione. Ma il mondo reale ride e inverte tutto, e sconfigge puntualmente ogni eroe.

Ha raggiunto l’ultima strada da attraversare prima della zona del porto. Annusa il gelo che arriva dal lago e pensa che la sconfitta è il reale spirito del tempo, la sconfitta dell’uomo contro il meccanismo che egli stesso ha creato. Da un locale al di là della strada, alla sua destra, arriva un vocìo ovattato. Hegel ha sbagliato a non teorizzare possibili volontà non umane. Terminator e tutte quelle baggianate fantascientifiche sono manifestazioni artistiche in cui viene veicolata una realtà effettiva, l’unica grande entità che guida il lavoro senza sosta di miliardi d’occhi e mani, e questa entità colossale e carsica ha un unico pensiero fisso: profitto. Quest’entità non ha un nome, poiché l’uomo per nominarla dovrebbe ammettere di essere stato assoggettato a una semplice, spietata volontà altra, contro la quale dovrebbe a quel punto lottare. Quest’essere innominabile e millenario è la fame di tutto. La politica esiste appunto per creargli dei limiti, questo dovrebbe essere il suo unico scopo. Ma invece di crearne di nuovi, i limiti sono stati indeboliti, raggirati, abbattuti. A Bernie sembra che questo momento storico sia più vicino alla fine di tutto che all’inizio di qualcosa. Forse Hegel aveva effettivamente ragione, lo spirito della storia è l’animo umano, e non c’è cosa più profonda e oscura in cui avventurarsi. È laggiù che gli eroi devono condurci. Il destino è l’inferno che sta straripando fuori di noi.
Alle sue spalle, dal locale che ha superato, arrivano degli schiamazzi, poi l’urlo alcolico e prolungato di una ragazza, un ululato: «Joe Biden è un pedofilo del cazzo!»
Bernie sente le risate del gruppo di amici e senza voltarsi prosegue verso il porticciolo. Giunto in vista delle imbarcazioni attraccate, prende verso destra. Percorre parte della banchina composta da solide assi di legno, poi si appoggia al parapetto sporgendosi verso il lago Champlain. Fissa a lungo il cuore buio del lago, suo amico da sempre, un microcosmo equoreo un tempo perfetto, stabilito in milioni di anni d’evoluzione e adesso sfiancato e avvelenato dall’uomo e dai cianobatteri, invecchiato precocemente, un relitto avvinto dalle alghe sul suo fondale. Prova un senso di vicinanza con l’anima che si trova a immaginare reclusa in quella massa d’acqua e ne percepisce la bellezza, la sente vicina a ciò che lui, Bernie, è o ha dentro. Alza la testa provando un senso di vuoto e beatitudine. Lontani, a nord, fulmini muti aprono crepe nel cielo di catrame, ma sono solo piccoli intervalli nel buio che ogni volta si riprende tutto.

8 aprile 2020, Washington D.C.

Sopra l’orizzonte luccicante della città notturna, scesi furiosamente dagli Appalachi, nembi maestosi si compenetrano creando uno spessore cupo che ribolle in un’orgia di minuscole esplosioni elettriche nel corpo nuvoloso, bagliori fugaci che delineano istantanee di contorcimenti. Il cielo prova senza successo a far da specchio alla terra, un piano dell’esistenza che scimmiotta la vita attraverso forze incapaci di contemplarla. Il vento spinge il vetro della finestra, bussa come se volesse invitarlo a uscire per intrappolarlo nella tempesta. Abbassa lo sguardo da quelle visioni d’apocalisse. Esattamente di fronte a lui, in basso, in un vicolo strettissimo tra due palazzi, un paio di sagome nere si stagliano sul lucore affaticato di un fuoco acceso in un fusto di metallo. Gli sembrano più vicini di quello che sono. Faiz dorme sul divano, sotto alle stampe di Roosevelt e Keynes. Apre la porta cercando di non svegliarlo, poi va all’ascensore. Le ante cigolano sinistre, poi si aprono ed è nella hall del palazzo. C’è un bancone col piano d’alluminio che riflette una sfumatura blu, e dietro c’è un guardiano.
«Buonasera».
«Buonasera, signore. Ha parcheggiato fuori?».
«No. Esco solo a fare una cosa, poi torno per la macchina».
Il guardiano ha un occhio storto, il sinistro, che è anche di un azzurro incredibile, quasi fluorescente. «Va benissimo, signore. A più tardi».
«A dopo».
Il guardiano preme un pulsante che sblocca la porta interna. «Faccia attenzione, fuori».
Apre manualmente la seconda porta ed è in strada. Cinque scalini lo portano al livello del marciapiede. Il vento sferza la via. Il vento di notte è sempre cattivo. Una macchina sportiva coi vetri oscurati e la musica a volume alto si avvicina e lo supera a tutta velocità facendolo indietreggiare. Ascolta l’accelerazione salire di giri finché il veicolo non raggiunge una distanza troppo grande per essere percorsa dal suono, allora attraversa la strada facendo attenzione, a passo svelto, puntando il vicolo stretto che ha davanti e che ha visto dall’ufficio. Vi si infila come in una crepa e appena dentro constata piacevolmente che il vento è svanito, e che c’è una luce calda e diffusa, come di candele. I due barboni sono a una decina di metri e sembrano un quadro a olio. Solo uno dei due parla, con tono entusiasta e concitato. Non ne comprende le parole. Si avvicina, si schiarisce la voce per attirare la loro attenzione e non spaventarli.

I due si voltano e facendolo si allontanano uno dall’altro e in mezzo a loro, come da oltre una tenda aperta, appaiono le lingue di fuoco che si disintegrano nella fuliggine incandescente e leggerissima che vola in alto fino a raffreddarsi e ricadere giù. I due, in controluce, sono di età indefinibile, giovani, uomini, o forse addirittura vecchi. Uno è basso e l’altro alto.
«Buonasera».
Nessuna risposta.
«Scusate, vi ho visti dalla strada e volevo parlare con voi, se possibile».
«Che vuoi?» domanda l’ombra più bassa.
«Io… sono un politico». Attende per un attimo una reazione che non arriva. «Sono candidato alle primarie democratiche, o almeno lo sarò fino a domani. Ho perso».
«Come ti chiami?»
«Io? È strano, ma ora come ora non lo ricordo. Scusatemi».
«E quindi, che vuoi signor Nonvidicoilmionome?»
«Volevo solo chiedervi scusa, perché ho provato a fare qualcosa anche per voi e non ci sono riuscito. Sono sincero. Spero che vogliate accettare questo mio regalo». Prende il portafogli e ne tira fuori tutto il contenuto. «Prendete, è tutto quello che ho con me».
«Grazie», si affretta a dire il piccoletto afferrando il denaro, poi gli allunga da bere.
«No, grazie, devo andare».
«Aspetta. Hai detto di volerci aiutare. Non vuoi prima conoscerci?».
Non sente in alcun modo di essere in pericolo. «Va bene, resto per un po’».
«Io sono Gene Harrogate, e questo», dice indicando il compagno più alto, «è il mio grande amico Cornelius Suttree».
«Piacere di conoscervi, io sono… Io sono un senatore del Vermont».
«Un senatore, questa ci sta a pennello».
«Perché?».
«Perché noi siamo alla fine di un grande viaggio iniziato più di dieci anni fa, dodici. Ma io e Suttree ci conosciamo dai tempi del Tennessee. Ci conoscemmo ai campi di lavoro, pensa te!».
«Per cosa vi avevano arrestati?».
«Lasciamo stare», si affretta a rispondere Harrogate, che poi gli allunga nuovamente la bottiglia.
Questa volta la prende, ne beve un bel sorso. Una bevanda dolce e aggraziata, lontana da quanto si aspettava usassero i barboni per sbronzarsi. «Buona, grazie. E che genere di viaggio avete fatto?».
«Oh, un viaggio fatto d’esperienze. Adesso tu ci vedi così e pensi che siamo due falliti qualunque, ma è solo per nostra scelta se siamo qui, e uno che sceglie di essere chi è non si può considerare un fallito».
«Concordo».
«Suttree, qui, che mi onoro di considerare mio amico, è un dritto e un grand’uomo».
Suttree scuote appena la testa.
«Oh, non cavalchi un purosangue con una sella da pony, quel che è vero è vero», prosegue Harrogate rivolto a Bernie. «Una volta mi ha salvato, avevo fatto esplodere un candelotto di dinamite nelle fogne di Knoxville mentre cercavo un tesoro, e Suttree è venuto a ripescarmi. È uno che ci sa fare in tutto. È uno scrittore, sa? È anche per questo che facciamo il viaggio, io l’accompagno, lo aiuto nelle cose pratiche insomma».
«Avete visto cose interessanti?»
«Una volta abbiamo visto un pipistrello fottersi un topo, diglielo Sut! L’ha preso per terra, ci s’è avvinghiato sopra e poi l’ha portato su e ha continuato a sbatterselo. I pipistrelli vivono più in alto possibile, perfino in cima ai grattacieli». Harrogate aspetta un commento che non arriva, poi sembra cambiare espressione, ma il suo volto è poco visibile. «Ma sai qual è la cosa peggiore che io abbia mai visto? È stata quella che mi ha permesso di nascere una seconda volta, a Knoxville. Vuoi sentire questa storia? È la più importante di tutte, almeno tra le mie».
«Sì. Certo».
«Allora, avevo trovato lavoro in un mattatoio come addetto agli abbattimenti. Ci sono stato due mesi. Io non saprei dire quante migliaia di bestie ho ammazzato. Prima sono arrivati gli incubi, sognavo gli animali che mi parlavano, mi dicevano cose mostruose, cioè mi parlavano come se fossero intelligenti, più intelligenti di me! Era una roba infernale, non capivo da dove provenissero quelle cose che mi dicevano, perché io in me non ce le avevo di certo», sottolinea puntandosi un dito alla tempia.
«Di che ti parlavano?».
«Oh, di un sacco di cose, cose che non ricordo bene. Ma ho un quadro generale».
«E qual è questo quadro?».
«Lasciami finire la storia, sei troppo impaziente per essere un vecchio, mi fai perdere il filo».
«Scusa».
«Quindi, dov’ero… Ah sì, a quel punto ho iniziato a sentirli parlare quando ce li avevo proprio lì davanti, al macello. Soprattutto urlavano di terrore. Allora un giorno ho provato a liberare quelli che erano ammassati nel cortile, e sai che è successo? Beh, i miei compagni di lavoro mi hanno preso a bastonate! Mi hanno detto che ero pazzo. Comunque ho mandato tutto affanculo ed è lì che sono rinato. Da allora non mangio carne di nessun tipo, mai, vero Suttree?».
La testa di Suttree annuisce, lunga e disegnata nella semioscurità. Sembra la punta scolpita di una stalagmite.
«E neanche Suttree ne mangia, perché sa che ho ragione, sa che non è giusto ammazzare animali in quel modo, è una cosa spregevole, la cosa peggiore che l’umanità abbia mai fatto, e nessuno la vede, capisci? Tu sei un politico, e questa è la questione più importante del mondo, l’umanità dovrebbe rinascere come ho fatto io. Se uno accetta un’ingiustizia così enorme, come può considerarsi giusto? Al contrario, lottando per la causa degli ultimi, i macellati e gli squartati, dimostri che non l’accetti l’ingiustizia nel mondo. Solo così puoi dimostrare di essere davvero giusto, di essere un eroe, e noi lo siamo. Ho sentito parlare di un profeta», aggiunge più piano, «a est, che dice che questa è una cosa necessaria all’evoluzione umana. Me l’ha raccontato un amico, a Boston».
«Dovrei diventare vegano, per essere giusto?».
«Mi sembra il minimo».
«E tu, Suttree, cosa ne pensi?».
Suttree prende un bel sorso di nettare e si volta a guardare il fuoco. Metà della sua faccia sembra emergere dal buio, come d’ottone. «Io ti conosco, Bernie Sanders. Io so che tu sai che Harrogate ha ragione. Un uomo politico deve cercare di lenire la sofferenza, e nessuno soffre più degli animali allevati per ingrassarci le trippe. Io ti conosco, Bernie Sanders, e ti dico che il nucleo del consumismo, il suo centro adamantino, quello che andrebbe distrutto per rifondare il sistema, è proprio quello del consumo alimentare. Affrontare questo significa affrontare tutto. Non affrontarlo è quasi come non affrontare niente».
«Va bene, diventerò vegano. Ho capito».
«No, tu non devi fare niente. Non sei tu che cambierai le cose, hai avuto la possibilità di portare le torce per appiccare il fuoco e non l’hai fatto, e la baracca andrà ancora avanti come ha sempre fatto, con tutti che si inculano tra di loro sull’attico, non è così?».
«È così».
«Bernie Sanders», lo invoca Suttree per la terza volta proseguendo a guardare le fiamme. «Tu non hai imparato ad amare il fuoco. Solo nel fuoco è possibile la lotta, e solo la lotta contempla la vittoria».
«Tu… Tu non sai come funzionano le cose».
Suttree prende un profondo sospiro e spalanca gli occhi nella penombra incendiata. «Quand’ero bambino passavo le estati da mio nonno, in una fattoria ai piedi di una collinetta, in Alabama, nella zona di Tuscaloosa. Conosci?».
«Sì».
«C’era una pianura sconfinata davanti e il cielo, grande come allora, l’ho rivisto solo nel deserto. Una mattina mi sveglio, sento un ronzio. Dormono tutti. Allora esco in cerca dell’origine di quel rumore, e nell’istante che precede l’alba vedo a un paio di miglia da me un tornado immenso che vibra nell’aria come il braccio oscuro del diavolo piantato nel cielo. Allora sento il cervello evaporare e non mi muovo, impietrito come un guscio vuoto, mentre quella condanna si abbatte su di noi».
«Non me l’avevi mai raccontato, Sut!» commenta Harrogate.
«Appena riesco a muovermi scatto verso casa per svegliare la mia famiglia. Ci salvammo nascondendoci in una vecchia miniera. Riuscimmo a salvare anche una piccola parte del bestiame. Dopo qualche ora, quando uscimmo da quella caverna, non c’era più niente, solo un sole spietato. Niente, come se non avessimo mai vissuto lì. Alcune carcasse delle bestie le trovarono giorni dopo, a miglia di distanza. Tu dici che io non so niente, e invece so tutto. Io potrei…».
Il fragore di un tuono censura le ultime parole.
«Cos’hai detto?» domanda Bernie.
«Ho detto che potrei mostrarti la…».
Un altro tuono esplode violento e Bernie si sveglia nella sua casa, a Washington, nel suo letto, agitato e sudato. Guarda l’ora. Sono le sei e mezzo del mattino dell’8 aprile. Si sposta in bagno per non svegliare Jane. Apre la tenda. Il mondo è una sfumatura bluastra sotto le nuvole basse che coprono ogni cosa. Un lampo illumina la stanza e subito dopo un tuono la sconquassa e richiama l’attenzione di Bernie verso ovest. Apre le imposte e si affaccia per vedere meglio. Quasi nello stesso istante cadono tre fulmini a qualche chilometro da lui, in direzione del Potomac, poi arrivano tre esplosioni una dietro l’altra, come una scarica di cannonate. Bernie ricorda il sogno assurdo che ha appena fatto, i personaggi di McCarthy riesumati da un libro letto una vita fa. Ripensa al racconto dell’uragano fatto da Suttree e guarda la tempesta sfogarsi sulla terra usando vento ed elettricità come fruste. Pensa che ogni cosa vivente porta nel mondo un fardello di terrore inaccettabile, che non sempre può essere dimenticato. Rabbrividisce prima che un fulmine deflagri con uno scoppio secco su qualcosa. Guarda la città schiacciata in lontananza e immagina uno degli alberi su Canal Road diviso a metà, il midollo esposto e il fumo da cui fluttua via la vita. Chiude la finestra, torna verso il letto. Spera che arrivi qualcuno più forte di lui in futuro, qualcuno che possa fare qualcosa per limitare perlomeno il dolore non necessario. Si infila sotto le coperte, chiude gli occhi. Una voce, prima che si addormenti, gli dice che deve farla finita con queste fantasticherie infantili e imparare ad amare il fuoco.

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↔ In alto: foto Nathan Bingle / Unsplash.