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«C’erano degli ammalati attaccati agli alberi, non volevano andar via. Sai come sono morti? Investiti dalle macchine». Avrà settant’anni l’uomo che parla a Nina. Le si è fermato davanti, vedendola seduta da sola con lo sguardo perso verso la laguna. Vuole raccontare. La sua pelle ha il colore di un biscotto bruciato e sembra così sottile da poterci guardare attraverso. I suoi occhi hanno sentito cose e le sue orecchie affilate combattuto mostri. Dice di aver lavorato all’ospedale dell’isola dal 1972 al 1978, anno in cui gli ospedali psichiatrici chiusero in Italia in seguito alla legge Basaglia.
«Alcuni pazienti sono morti, altri li hanno mandati a casa, alcuni girano ancora tra le strade di Venezia».
Nina tace. Inspira, espira.
L’aria che le entra nelle narici è calda, umida. Fa fatica ad uscire, si incolla alle pareti dei polmoni, raggiunge la gola ma di più non sale. Nina si chiede per quanti secondi, per quanti minuti possa rimanere così, senza respirare. Poi il rumore improvviso di un vaporetto che sbatte contro l’imbarcadero a pochi metri la fa sussultare e senza neanche accorgersene respira di nuovo. Ultimamente è sempre così: se non fosse che viene salvata dalla vita che avanza, Nina rischierebbe di rimanere bloccata. Anche il vecchio si gira, osserva con sguardo attento e inquisitivo chi sale e chi scende, borbotta qualche parola, inarca le sopracciglia, si curva in avanti. Il cielo è azzurro, non ci sono nuvole, i raggi di sole colpiscono senza pietà in un’afosa giornata di luglio non molto diversa da un’altra.
«Cosa ci fai, tu, seduta da sola a San Servolo?» le chiede adesso il vecchio. Nina si stupisce di quel tu irriverente. Si guarda le mani ormai secche, la pelle ringrinzita e macchiata, la fede nunziale bloccata in quell’anulare che negli anni si è deformato. Potrebbe avere la stessa età di quell’uomo scarno vestito di lino che le sta davanti, eppure lui decide di parlarle come se fossero ancora dei ragazzini. Cosa ci fai, tu, seduta da sola.
Fa caldo ma Nina non suda più, è troppo vecchia per sudare, è troppo vecchia anche per parlare, si dice osservando quell’uomo. Lui sembra capire, o forse non gli interessa abbastanza. Senza aggiungere niente la lascia così, sulla panchina affacciata alla laguna.

Antonina è la cuoca della residenza San Servolo. É di Catania, una donna tozza dall’età indefinita, vestita di giallo e quadretti, porta i capelli corvini raccolti in un basso chignon. Dal suo mento spunta qualche lungo pelo nero a ricordare che lei, Tonina, è una donna del Sud. Ha uno sguardo duro e una grande voglia di confidarsi.
Nina le passa accanto accennando un buongiorno, la cuoca sposta una pentola da un secondo sgabello e dopo averla invitata a sedersi inizia a parlarle. Le racconta di suo figlio che vive a Milano, di sua nuora che non sopporta.
«É così bello lui… e lei, la moglie… dovreste vederla… bassa, brutta, un metro di veleno. La mia nipotina è bellissima ma tanto non la vedo mai. Da quando si sono sposati non lo vedo più mio figlio… Prima ci soffrivo, piangevo… Ora non più. Se mi cercano bene, se no è uguale. E poi… lo sa che c’è? non mi interessa vedere la bambina se lei vuole la nonna solo per i soldi e i giocattoli… col cazzo» esclama pelando patate, seduta all’ombra di un platano nel grande giardino.

Nina nipoti non ne ha. Non ha nemmeno figli. Non ne ha mai voluti e non se n’è mai fatta una colpa. La solitudine non la spaventa, ci è cresciuta dentro. Riconoscersi come centro del proprio universo le dà un senso di pace. Nel mondo di Nina le presenze troppo ingombranti vanno a occupare i margini. Nina ama il silenzio e i volti taciturni. Nina, adesso, ha una missione: ritrovare tra le mura spoglie di questo ex-convento l’essenza di un uomo che si sente in dovere di perdonare.
Ha così deciso di trasferirsi per qualche settimana a San Servolo, in quello che ora è diventato un centro soggiorno ma che è stato nel corso dei secoli un monastero benedettino, un deposito di granaglie, un ricovero di appestati, un ospedale militare e, dal 1715, un ospedale psichiatrico. Questa minuscola isola, semi deserta durante quasi tutto l’anno, ospita ora uno spazio culturale contemporaneo di prestigio. Soprattutto d’estate viene visitata da studenti e addetti ai lavori e, di tanto in tanto, ci fanno pure matrimoni. A Nina però il presente interessa poco, a intrigarla è un luogo abitato da fantasmi, sospeso nel tempo, galleggiante e introverso.
Il primo malato di mente che trasferirono a San Servolo a inizio Settecento lo chiamarono Il Maniaco. Nina non riesce a distaccare questa parola dalla figura di quell’uomo, sorridente e fiero, che sbiadisce poco a poco dentro alla cornice d’argento che tiene sul comodino. Sua madre, sulla destra nella fotografia, sembra ignara di ciò che l’aspetta. O forse lo sa ma è troppo giovane per capire. Hanno diciannove anni, si sono sposati senza farsi troppe domande un 12 febbraio e lei, Nina, è nata per disgrazia due mesi più tardi. Per disgrazia, bisbigliavano le vecchie del paese, perché l’amore era stato consumato prima del sacro vincolo. Di molto altro fece parlare suo padre, il Maniaco, negli anni seguenti.

È sera. Il rumore delle onde copre quello dei passi di Nina. Sta esplorando l’isola da cima a fondo. Meticolosa osserva dettagli insignificanti chiedendosi se anche lui cinquant’anni prima ci avesse posato lo sguardo.
Nota un giovane ragazzo intento a sistemare dei cataloghi su un tavolino traballante all’entrata dell’edificio che ospita la Venice International University. Sta ascoltando della musica in cuffia ad un volume molto alto, si muove a un ritmo rapido che sembra essere determinato da quell’indistinto brusio. I suoi lunghi arti sottili, quasi diafani, contrastano con la soffocante giornata e, assieme agli avvolgenti occhiali da sole, lo fanno sembrare uno strano insetto agitato. Nina si concentra sulla sua maglietta rossa, cerca di decifrare una scritta all’altezza del petto ma riesce solo a leggere l’ultima parola più in grande: Einstein. Forse, sentendosi osservato da un po’, il ragazzo si gira verso Nina, si toglie gli auricolari, si guarda la maglietta dall’alto e se la tira all’altezza della citazione accennando un sorriso: «La verità è ciò che sopporta la verifica dell’esperienza. Einstein». Si gratta il mento con la mano e fissando Nina negli occhi continua: «Secondo me suona molto meglio in inglese: Truth is what stands the test of experience. Ma me l’hanno regalata mica potevo fare il prezioso no?». Nina d’istinto si porta al naso gli occhiali da sole che le pendono da una catenina dorata attorno al collo. Una montatura maculata, a farfalla, relitto di un tempo vistoso che adesso le sembra un’epoca lontana. Annuisce distogliendo lo sguardo. Il ragazzo le porge un catalogo. «Questo sabato ospitiamo un workshop con un alcuni artisti contemporanei sul tema del territorio. Se le fa piacere potrebbe partecipare. Lavora nel mondo dell’arte?» le chiede sperando segretamente che lei risponda di sì. Nina si volta, gli dà il profilo e con una voce consumata da decenni di sigarette risponde: «Non me ne frega niente».
Il ragazzo-insetto sgrana un po’ gli occhi e gli viene da sorridere, colpito dall’irriverenza di questa signora elegante, catturato dalla sua raffinata disinvoltura. Non ha la battuta per replicare, scuote lievemente la testa e riprende a spostare cataloghi.
«Però forse mi puoi aiutare» continua lei cogliendolo di sorpresa. «Ho bisogno di recuperare dei documenti, delle cartelle cliniche, dei registri. C’è un archivio aperto dal martedì al giovedì dalle 9.30 alle 12.00 ma io non ne ho accesso. Forse tu…lavorando qui…mi potresti aiutare». Non gli lascia spazio di pensare, di rispondere e si congeda dicendo: «Sai dove trovarmi».

Filippo ha poco da fare, Filippo deve sistemare cataloghi, attaccare qualche poster sui muri dell’ex convento, rispondere alle e-mail, risistemare cataloghi, completare quelle 100 ore sull’isola che equivalgono a 60 miseri crediti universitari.
L’arrivo di questa donna acerba e misteriosa gli regala una trama, una storia tangibile durante giorni segnati da lontananze.
Il giorno dopo, con la scusa di dover recuperare dei documenti importanti si dirige, a passo spedito, verso l’archivio. Scorge Nina all’ingresso, in attesa. Ha un abito lungo nero e leggero, i capelli grigio cenere raccolti come il giorno prima, un paio di occhiali da vista sottili appoggiati sulla punta del naso, la cui durezza contrasta con i suoi lineamenti aggraziati. La immagina giovane, divinità greca, Afrodite o forse Athena.
«Buongiorno signora, eccomi» annuncia fiero, «cosa stiamo cercando?»
Senza distogliere lo sguardo dalla distesa d’acqua che le sta di fronte e senza accennare un saluto Nina risponde: «Voglio trovare tutte le informazioni possibili su un uomo dal nome Edoardo Campo e se possibile ritrovare le stanze che abitò, rintracciare le sue abitudini».
«Si tratta di qualcuno che conosceva?» Filippo chiede. Nina non risponde.
Nina era una bambina quando suo padre se ne andò di casa. Ricorda poco degli anni precedenti, poche e vaghe sono le memorie dei momenti passati assieme. Quello che conosce, quello che l’ha segnata, è stata piuttosto l’assenza. Sua madre non ha mai voluto spiegarle le ragioni di quella sparizione, l’ha sempre solo descritta come un abbandono. Nina era troppo piccola per capire e sua madre forse troppo in pena per raccontare. Il suo dolore muto si infrangeva contro quello strabordante della figlia, che per mesi pianse senza sosta finché un giorno il dolore si trasformò in rancore. Iniziò a odiare quella mancata presenza, smise di farsene una colpa e si costruì una corazza impenetrabile che negli anni definì i contorni della sua persona. Una volta adolescente, iniziò a interrogarsi su quel vociferare, su quella parola maniaco che aveva spesso sentito da piccola, quando entrava in panificio o la domenica in chiesa. Chiese spiegazioni a sua madre ma lei, carica di pudore e incapace di sopportare, diede generiche risposte e mise un punto definitivo alla questione. Morì di un cancro al dolore qualche anno dopo e Nina rimase sola con le sue domande e il suo profondo risentimento. Scoprì la verità molti anni più tardi, dopo aver passato una vita a odiare un uomo che forse non aveva nessuna colpa.
«Ecco guardi, ho trovato questo. Pare che il signor Campo si trovasse nell’edificio 2, in una stanza nell’ala di sinistra. Che casualità, è proprio lo spazio dove ospitiamo i nostri workshop» dice entusiasta il ragazzo-insetto.
«Portamici per favore» sussurra Nina incamminandosi verso l’uscita.
A Filippo questa signora stramba piace, per quanto lei lo tratti con aria di sufficienza o forse proprio per questo. I suoi pensieri si agitano infervorati, mentre a passo lento si incamminano verso l’edificio 2. Questa donna, un tempo, dev’essere stata molto affascinante, pensa. Gli piace credere che sia in cerca di un vecchio amante impazzito, di un don Giovanni che la travolse di un amore tanto fugace quanto profondo. Di un uomo al quale lei non smise mai di pensare, neanche una volta sposata, neanche dopo aver fatto dei figli.

Nina cammina a occhi quasi chiusi, così è più facile trattenere le lacrime. Filippo la osserva con la coda dell’occhio, nota che il sole in faccia le sta dando fastidio.
Raggiungono la porta nell’ala che un tempo fu di Edoardo. Alcuni muri sono stati abbattuti, quella che doveva essere la sua stanza adesso è solo un angolo. Con l’immagine della piantina in testa, Nina si mette a fissare quello spazio.
Inspira. Espira.
Filippo decide di lasciarla sola e ritorna dopo qualche minuto, pronto per farle tutte le domande che si è preparato, trepidante di riempire la sua mattinata.
Ma Nina se n’è già andata.

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↔ In alto: foto © Marco Lo Curzio / San Sèrvolo, 2018.

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