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Infuocato dalla voce Zarathustra (la voce Z. da qui in poi), Nessuno esegue due volte il ritornello sul finale per chiudere in crescendo e di colpo, con un’ellissi violenta che fa sobbalzare lo stomaco semi-vuoto di Agathe. La voce Z. è un particolare stato di coscienza, frutto di lunghe pratiche di violenza autoinflitte sulla propria tara-umana, uno stato il cui accesso è riservato e performativo; la voce Z. è ciò che, di Nessuno, ha innamorato Agathe.

Siamo i figli della notte» dice Nessuno senza accorgersi di parlare. Avvenuta la scissione, la voce Z. diventa una sorta di fantasma ossessivo, controcanto costante: per ogni azione, per ogni gesto, forgia in calco il suo doppio e lo mostra nella sua infima natura di equivoco, di secrezione fisiologica simbolizzata.

[…]

«I figli della morte…», Agathe sussurra mentre si accovaccia accanto a Nessuno, sullo scalone. «Non te ne andare» e gli stringe la mano.

Monika Macdonald, «Untitled», In Absence

Monika Macdonald, «Untitled», In Absence

[…]

Nella scena contrita del dialogo tra Nessuno e Agathe (il contrario della scena godiamoci-il-pianto), la voce Z. si manifesta di nuovo con un messaggio stranamente cristallino, risoluto: «Liberare il corpo, il sesso, la stupidità. E dimenticare, dimenticare tutto in fretta».

[…]

Mano nella mano, i due imboccano una stradina laterale, un vicolo cieco conosciuto dagli abitanti notturni della piazza come Muro del Pianto per l’urina che lo benedice ogni volta. Agathe ha gli occhi sbarrati e in verità non vede niente, sente ora di essere come una Pizia che riceve infine il messaggio, l’impossessamento. Così, non solo obbedisce ai gesti di Nessuno, ma li anticipa rappresentandoseli, desiderandoli preventivamente nel recinto della sua testa. Accompagna il movimento della mano di Nessuno quando questi la spinge verso il basso, quando la obbliga a succhiarlo furiosamente, vomitando quel poco di alcol bevuto (la velocità con cui le azioni si sviluppano, velocità proporzionale al timore di Nessuno di sfumare il coito troppo presto, per l’alcol, per la stanchezza, per l’infamia, impedisce ad Agathe di fissare con gli occhi il quadro che le si presenta davanti, cosa che le permette, più avanti e consumato il rito, di alimentare il suo proprio ricordo, la sua immaginazione, la sua vita interiore, ricostruendo e modificando a piacimento ogni dettaglio dello stupro, della vena arcuata lungo la parete sinistra – o destra? – del pene di Nessuno, dell’asimmetria tra le due sacche dei testicoli, delle macchie di piscio nella sua biancheria, dettagli intravisti e non del tutto messi a fuoco). Quando Nessuno la rimette dritta e Agathe si rimette dritta accompagnandone i pensieri e i desideri, quando si gira verso il muro, Agathe ha davanti agli occhi la parete nera e pisciata: in quel momento, chiudendo gli occhi, le pare di percepire il quadro nella sua interezza, mentre Nessuno la trafigge da dietro con la furia della prima e ultima volta – il secondo ferimento del ballo del piede e delle scarpe –, Agathe prende a piangere meccanicamente, per un dolore localizzato e in fondo insignificante, mentre Nessuno le stringe la guancia sul collo per consegnarle il messaggio nel timpano di un orecchio, dice: «Non scriverò più niente».

[NdC.] Datazione incerta.

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