Pubblichiamo una breve intervista di Marino Magliani a Daniel Guebel, autore de L’uomo che inventava le città (Edizioni Amos, 2020). Ringraziamo autore ed editore per la gentile concessione. Buona lettura!
MM: Daniel, la prima volta che ti ho letto in italiano è stato attraverso Carrera e Fracassi (La Linea, traduzione di Mariana Califano), e a parte la scrittura, ottima, è stata fin da subito una sorpresa la tua vena ironica. Molti anni dopo ebbi l’opportunità e l’onore, con Riccardo Ferrazzi, di misurarmi con quella scrittura, e traducemmo La infección vanguardista, che noi (Amos Editore e i traduttori) abbiamo intitolato L’uomo che inventava le città. In fondo, se sei d’accordo, di questo si tratta. Vorresti raccontare ai tuoi lettori italiani come nasci come autore, chi sei (sempre che in qualche modo sia possibile dire questa cosa) e se concordi con la nostra interpretazione: Zarlanga, il protagonista, in fin dei conti, può essere considerato uno che ha trascorso gran parte della vita a sognare un modello di città utopica e peronista?
DG: Nessuno sa dire di se stesso che autore è – o che tipo di autore è. Uno dovrebbe riflettere molto intensamente su ciò che ha scritto e, nel rileggere il proprio passato, azzeccarci! In realtà, uno non può sapere che autore è, semplicemente perché ignora che autore sarà. Abbiamo un’intuizione, un desiderio, ma mai il disegno completo (che si chiuderà con la nostra morte) e non abbiamo nemmeno un’idea di come saremo letti (sempre che qualcuno ci legga da morti), ed è poi questo ciò che definirà la nostra letteratura. Fin da piccolo mi sono sentito coinvolto da una frase di William Blake, «Obras de la pasiòn y de la imaginaciòn» (Opere della passione e dell’immaginazione) che lessi, credo, ne Il matrimonio del cielo e dell’inferno, e che Joyce Cary cita in La bocca del cavallo. Considero la mia vocazione: il sogno di essere sempre un autore inatteso e diverso; di saltare in tutti gli scaffali della mia biblioteca, e reincarnarmi.
Quanto a Zarlanga, credo che sia un caso estremo di «esecuzione di un incarico». Il costruttore che dà la vita per l’incarico altrui, e perde se stesso nel concepimento della sua opera, che è un labirinto fatto in modo che egli stesso sia il primo a perdercisi. Una città utopica (peronista o no), alla fin fine è un labirinto di labirinti, fatto perché uno ci si perda dentro sempre più, un labirinto che non si concretizza mai, e per il quale, giorno dopo giorno, uno può sognare con ossessione e disperazione nuove direzioni e nuove geometrie e uscite e vicoli ciechi e muri impossibili da costruire; grandezze, forme e colori che nella realtà vera non esistono, eppure sono più intensi che nella realtà.
MM: Puoi dirci qualcosa della tua Buenos Aires? Di com’è, da un punto di vista antropologico e da quello letterario, della tua letteratura porteña, dei tuoi miti.
DG: Non so quasi nulla della mia città, e nei miei miti mi perdo. Vado per le strade cercando le guglie che si alzano al cielo dai minareti di Oriente.
MM: Uno dei romanzi più apprezzati della tua lunga traiettoria è El hijo judio (Il figlio ebreo) che credo uscirà a breve in Italia. Nei tuoi libri si affronta molto l’argomento o, per meglio dire, la sfera ebraica, e un’altra costante è il peronismo.
DG: Sì, l’ebraismo è qualcosa di ben definito, geometricamente, proprio una sfera: era ciò che mi divideva dal resto degli amici e conoscenti della mia età. Una separazione che mi dispiaceva perché mi segregava fuori dal comune sentire della comunità, ma in contropartita mi collocava all’interno di una diversità (una fede diversa; una lingua o dialetto, lo yiddish, che si parlava solo nell’ambito familiare). E poi, certo, nel mio libro, la lettura di Kafka come grande autore ebreo, come teologo e avvocato e maestro di interpretazione, che è la grande invenzione ebraica che apre la strada alla psicoanalisi…
Sì, il peronismo torna insistentemente nella mia opera. È come un mostro preistorico che emerge dagli abissi e finisce per occupare tutto. È una pratica politica che, siccome è anacronistica, viene fatta passare per una teologia e la sua pulsione totalizzante finisce per trasformarla in una narrazione orientale.
MM: So che hai lavorato alla sceneggiatura del film tratto da Sudeste, l’eccellente romanzo di Haroldo Conti tradotto per Exorma da Riccardo Ferrazzi e da chi ti pone queste domande. Puoi dirci qualcosa al riguardo?
DG: Ho letto Sudeste, e non per intero, molti anni fa, quando un regista mi chiese di ricavarne una sceneggiatura. Mi piacque immediatamente il suo tono malinconico, il suo passo faulkneriano, il suo rapporto con i racconti delle rive del fiume, i suoi malviventi, i suoi disadattati. Il modo di narrare che lambisce i margini del poliziesco. Dopo aver letto una cinquantina di pagine, dissi al regista che non avrei scritto una sceneggiatura, ma una mia storia liberamente tratta da Sudeste, e gli chiesi di dirmi che cosa voleva raccontare lui. Il risultato, del quale non posso dare un giudizio, è la mia versione di un desiderio basato su una lettura che non ho portato a termine. C’è chi sostiene che «il sapere non occupa spazio», io invece credo che lo occupi, inibitoriamente. E che per lavorare sull’opera altrui, sul sapere di qualcun altro, bisogna mantenere una relazione ambigua, un conoscere-ignorare. Conoscere dà la spinta iniziale, ignorare aiuta a scoprire e inventare.
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↔ In alto: foto © infobae
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