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Certe giornate cominciano male per la semplice ragione che cominciano, pensa Gregorio. Si è svegliato storto e raffreddato, sgusciando fuori dalle coperte ha sbattuto un alluce contro il comodino, la tapparella che ha tirato su per guardare il cielo si è incastrata, l’acqua in bagno ha impiegato più del solito a scaldarsi ma poi gli ha ustionato la schiena e ha appena scoperto che manca lo zucchero per bere il suo pessimo caffè. Tutto gli sembra ostile.
«Buongiorno caro», gli dice sua moglie Agata, allacciandosi la vestaglia.
«No, non lo è».
«Ma è appena iniziato, dagli tempo. Il lavoro ti peserà di più se sei negativo».
Gregorio non la ascolta. Sente già il gelo del mattino che gli sega le guance, vede l’autobus che ingurgita lui e tutto quello che si trova davanti al muso, e il magazzino con la luce al neon dove tutti spostano di continuo scatoloni da un punto a un altro.
Poi non vede più niente per un pezzo, non pensa a quello che fa e agisce, inoltrandosi sotto il cielo bianco di quella giornata indisponente.

Nella pausa pranzo siede su una panchina sgangherata, in un piccolo parco desolato che si anima soltanto la notte. Addenta il panino che Agata gli ha preparato poco prima che uscisse di casa, sorseggia la spremuta d’arance e sparge del pane avvelenato per i piccioni. Ma neppure quel rituale (il suo preferito) gli migliora l’umore. Gli fanno male i piedi, da impazzire.
Si saranno ingrossati, considera, perché le scarpe sono le stesse da cinque anni; fatto che gli dà soddisfazione, lo fa sentire immune al consumismo. Vuole bene a quelle scarpe coriacee, nonostante l’aspetto vissuto che hanno. Dell’estetica non gli importa più ormai, da quando ha smesso di essere un ragazzo certi aspetti della vita hanno perso significato.
Il freddo dell’hinterland gli filtra nelle ossa, attraversando giaccone, vestiti, pelle e carne. Guarda i piccioni beccare le molliche di pane al gusto di stricnina e li immagina morire in volo, una pioggia di pennuti agonizzanti su Milano. La dose di veleno permette loro di rifocillarsi per bene, prima di ucciderli, così Gregorio non può essere scoperto dagli abitanti della zona, che potrebbero persino credere che il suo sia un atto di generosità per gli animali, ma lui odia quei volatili, li reputa portatori di malattie alati, fuori dalle fognature solo per l’incapacità di entrarci. Gli danno l’idea di essere stati generati dall’immondizia.
Prima di tornare a lavoro raccoglie da terra quello che resta del suo strumento omicida, per non rischiare di ammazzare qualche cane o gatto. Quelli non li odia. Poi si avvia, con il crescente dolore ai piedi. Deve fare pochi passi ma è come camminare con delle tagliole al posto delle scarpe. È una stretta poco sopra i talloni che non gli permette di arcuare e distendere i piedi con la scioltezza necessaria, le dita sembrano schiacciate contro un muro e sente segnarsi entrambi i dorsi all’altezza delle stringhe. Non vuole apparire zoppo, perciò evita di allungare troppo le gambe per fare passi più brevi e alleviare la pena, ma così facendo la prolunga. Cerca quindi di distribuire il peso in maniera differente, ma è inutile, risulta ridicolo senza trarne alcun vantaggio. Non c’è rimedio, vorrebbe tentare di ignorare la tortura, con calma, avere una migliore tolleranza al dolore fisico o prenderla con filosofia, ma non ne è in grado.

Di nuovo al suo posto di lavoro, seduto, in una pausa analgesica. Quel lavoro umiliante, che un cugino di Agata gli ha offerto per solidarietà cristiana, come l’ha definita lui stesso. Prepara le buste di coriandoli per il carnevale, in un ingrosso di giocattoli, guadagnando quattro centesimi al pezzo. Prende un pugno di quei dischetti colorati da un gigantesco sacco di diversi chili, li inserisce in un sacchetto trasparente, lo pesa con accuratezza (tra i novanta e i centodieci grammi), lo sigilla sprigionando una puzza di plastica bruciata che gli invade le narici e avanti così per sette ore al giorno, cinque giorni a settimana; per soli due mesi di stipendio. Quando chiude gli occhi vede ammassi vorticosi di coriandoli.
Li odia, i coriandoli. L’operazione che gli impegna tanto tempo viene distrutta in pochi secondi da mocciosi vestiti da clown, pirati o supereroi. Di tanto in tanto, quando nessuno può accorgersene, mette delle puntine da disegno colorate nelle buste. Un altro rituale che oggi non riesce a dargli sollievo. Vuole soltanto togliersi le scarpe.
Non parla a nessuno, lavora e basta, fino alla fine del turno. Poi si alza, va in bagno, si sbottona la patta dei pantaloni e coriandoli piovono nella tazza, si abbassa le mutande per pisciare e coriandoli precedono il getto giallo, si lava le mani e coriandoli precipitano nel lavandino come minuscoli paracadutisti. Sfrega le mani come se volesse romperle, fino a farsi male.

Fuori dal suo lavoro carnevalesco invece incombe il Natale. Luci e addobbi festosi ravvivano la città, con alberi natalizi sintetici che spuntano su tutti i marciapiedi e tipici prodotti alimentari che agghindano le vetrine. Negozi di tutti i generi incitano agli acquisti, compresi ferramenta e tabaccherie. E le chiese si rifanno il trucco per l’occasione. Gregorio cammina a stento, lasciando una scia di coriandoli dietro di sé, pensando che non esiste periodo dell’anno più umiliante per chi fatica ad arrivare a fine mese.
L’azienda in cui ha lavorato per più di venti anni ha chiuso e si è trasferita in Romania, per ragioni che sanno di stantio, e lui e Agata non hanno trovato un altro impiego stabile, come tanti altri colleghi della loro età. Pensa alle scarpe strette, solo questo conta adesso. Gli piacerebbe entrare in un negozio e comprarne un paio comode, non belle, soltanto calde e comode, ma non può. Il mutuo a tasso variabile consigliato dalla banca li sta strozzando, e l’inflazione, le tasse, le bollette, i medicinali, gli inconvenienti. Ha venduto la macchina perché era diventata una spesa insostenibile, ha rinunciato alla passione per il calcio perché andare allo stadio era diventato un lusso, ha smesso di fumare con conseguente ammirazione di Agata. Ora sospira amaramente. Sa che i problemi di soldi la fanno piangere. Si rintana in bagno, nello stanzino, in veranda, ma la sente lo stesso. Piange spesso e forte.
«Ahi… che male, piedi maledetti, siete dei traditori», mormora, trascinandosi verso casa. Qualcuno lo sente e probabilmente pensa che è matto.
Ma poi ricorda la richiesta di Agata di un po’ di spesa: qualche verdura, la pasta, dei legumi, il detersivo per i piatti e lo zucchero. Quel cazzo di zucchero. Si costringe a fare una lieve deviazione, come se fosse la cosa peggiore che gli potesse capitare. In un’altra circostanza non sarebbe stata una seccatura, ma ora bestemmia, in un tragitto di carboni ardenti e vetri rotti.
Di fronte all’Ard discount c’è un murales, scritto più nitidamente di altri: AVREI VOLUTO FARE CIÒ CHE NON HO POTUTO FARE PERCHÉ FACEVO ALTRO.
«Ma vaffanculo, tu e questo muro di merda», gli grugnisce contro, battendo i calcagni per assestare meglio le scarpe.
Prosegue e si lamenta, borbotta, inveisce con i pensieri appannati e distorti. Non sopporta più quel male, ogni passo che fa è pura angoscia. Il dolore lo abita, è lancinante, è ossessivo, è tutto ciò che percepisce, che vede e che sente. La carne sembra cedere e le dita ormai sono una fitta che sale fino al cervello, invadendo ogni sensazione.

Quel supermercato per miserabili lo fa pensare al purgatorio; così lo immagina. È stato catalogato come un non-puro, con delle pene accertate da scontare, ignaro del periodo di permanenza. I volti dei clienti gli sembrano avere tutti qualcosa che li accomuna. Il grigiore. Deambulano come malati, con gli occhi bassi e la tristezza che non molla la presa. E i prodotti, di marchi sconosciuti, hanno l’aria di essere gli scarti di una società superiore; sono esposti su quegli scaffali da magazzino pieni di cianfrusaglie assemblate e sigillate alla meno peggio, senza la necessità di invogliare all’acquisto; tutto ha un aspetto raffazzonato. Quella è l’ultima frontiera dei sopravviventi, non devi convincere nessuno, l’alternativa è la fame. E non sono pochi gli articoli danneggiati, squarciati, marciti o prossimi alla scadenza, come se persino ai trasportatori venisse concessa poca attenzione nelle loro mansioni. Gregorio si sente maltrattato, un consumatore privo di valore.
Odia fare la spesa. Afferra quello che gli è indispensabile, imprecando a ogni passo, claudicante, vorrebbe soltanto essere più rapido nei movimenti. Quella pulsione è costante, non gli dà tregua, in certi momenti si acuisce, come un fuoco che divampa.
La fila alla cassa è imbarazzante, crede che neanche in un sexy-shop proverebbe tanta vergogna. E quando arriva il suo turno si ritrova davanti una pettinatura arruffata con ricrescita da tinta sbiadita, cicatrici da acne, dentatura guasta, naso schiacciato, occhi strabici e lunghissime unghie squadrate. Paga e fugge da quella cassiera lasciando una manciata di coriandoli insieme alle monete.

Inserisce la chiave nella serratura del portone come se volesse violentarla, afferra la posta più sporgente da tutte le buche delle lettere e sale le scale, con le ultime forze, maledicendosi a ogni gradino. Soltanto davanti la porta di casa concede un’occhiata a quello che ha rubato ai vicini: bollette, pubblicità, inviti a visitare il presepe della parrocchia. Niente di interessante. Deluso anche da quella pesca scadente, entra in casa con l’espressione di un assassino, si libera dalla morsa letale delle scarpe e le scaglia lontano, dimenticando quanto gli piacevano. E sprigiona una nuvola di coriandoli in salotto.
Ignora il sorriso dolce di Agata, che ogni sera tenta di fargli vivere il ritorno tra le mura domestiche come l’abbraccio di un rifugio, e si proietta in cucina. Lei rimane per un attimo immobile, a fissare lo spazio dove è appena passato il marito, come le è già capitato due volte oggi, guardando la propria ombra sul marciapiede, dopo gli ennesimi colloqui di lavoro andati male; poi si scuote e lo raggiunge per domandargli come è andata la giornata.
«Un altro giorno di schifosa elemosina», le risponde, rovistando nei cassetti e sulle mensole, facendo a pezzi l’ordine di cui si è occupata in sua assenza.
«Cosa stai cercando? Chiedilo a me invece di comportarti così».
«Ah, la tua saggezza, il tuo equilibrio. Lasciami solo».
«Non puoi prendertela con me, non è giusto. E cosa fai con quelle lettere, rubi ancora la posta dei vicini?».
«Questa robaccia non vale niente», e getta le carte nella pattumiera.
«Che senso ha tutto questo? Smettila con questa sceneggiata, sai che certe cose non mi piacciono».
«Ogni volta te ne esci con questa storia della sceneggiata, ma non capisco di cosa parli. Lasciami solo, Agata».
«Ti arrabbi perché pensavi che non lo sapessi. Sei stato scoperto e adesso fai così solo per non ammetterlo».
«Cazzo, ancora la tua saggezza. Non mi sento colto sul fatto, adesso non me ne frega niente. E non starmi più attorno, perdio, vattene!», e Agata esce dalla cucina, scuotendo la testa. Si siede sul divano e incrocia le mani sulla gonna, scura come il suo volto. L’orologio a parete segna l’ora di cena.
Poi Gregorio balza fuori stringendo la mannaia, si sfila i calzini, li getta via e si piega sulle ginocchia sollevando l’attrezzo oltre la testa.
«Cosa fai? Sei impazzito?», urla Agata tendendo le braccia verso di lui.
Gregorio si ferma per guardarla, senza cambiare posizione: «Perché, che altro posso fare? Non ho nessuna alternativa», e cala la mannaia con uno scatto, contro le dita dei piedi.
«No», ha il tempo di gridare lei chiudendo istintivamente gli occhi.
E il suono s’infrange fin dentro le piastrelle. Un atto autolesionista per accorciare il piede, un’illusione per ritrovarsi delle calzature nuovamente confortevoli. Niente più compromessi, non sono una bestia, pensa Gregorio. Eppure non è sconvolto dal trauma, non sente alcun dolore. Solleva la mannaia ancora pulita, senza traccia di sangue, la decorazione del pavimento è infranta in un segno che ha creato crepe e schegge scomposte, ma neppure lì c’è sangue. Avvicina il capo al piede sinistro e nota che le dita si sono ritratte all’interno, come teste di lumache in un unico guscio, per schivare il colpo che le avrebbe tranciate di netto. La mutilazione non c’è stata e non sa cosa pensare.
Agata riapre gli occhi con il terrore di vederlo amputato, invece lo scopre intento a scrutarsi il punto in cui ha provato a infierire, perplesso. Si avvicina a lui lentamente, fino a piegarsi, e si accorge della condizione anormale del piede di suo marito, con quelle dita retrattili come artigli felini. Si guardano inebetiti di fronte a ciò che non sanno spiegarsi.
Gregorio posa la mannaia per terra e la allontana. Con uno sguardo le domanda se sta vedendo quello che vede lui, non riesce a crederci, e lei gli stringe la spalla e fa di sì con la testa. Solo allora le dita iniziano a riaffacciarsi fuori dalla loro tana di carne, timidamente, con movenze prudenti, come se cercassero di capire se il pericolo è cessato, tornando infine al loro posto naturale.
«Meglio così, non era una buona idea», sussurra Gregorio per non spaventarle.
«Riesci a muoverle?».
E le muove, una per una, e poi tutte insieme. Ne ha di nuovo il pieno controllo, sentendo persino il fastidio dei frammenti sottostanti. Le sfiora, leggero, le accarezza. E si appoggia a lei, stremato.
Salta la luce, come spesso accade, a causa della vecchia centralina elettrica, ma non si spostano da lì, rimangono fermi, accartocciati sul pavimento, al buio, vicini, in un silenzio che sembra buono e infinito.

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↔ In alto: foto Daniel van den Berg / Unsplash.

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