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Tra le caratteristiche più visibili che rendono il romanzo russo una categoria riconoscibile attraverso i secoli ci sono certamente i dialoghi. Che tocchi al principe Andrej e a Pierre Bezuchov in Guerra e pace, a Ivan ne I fratelli Karamazov, o a due passeggeri qualunque del treno alcolico di Mosca-Petuški, i personaggi finiscono per interrogarsi su temi complessi, non di rado filosofici, trovandolo del tutto normale.

È questa un’osservazione apparentemente banale, ma forse necessaria per presentare due romanzi che sono recentemente arrivati in Italia grazie a Carbonio Editore. Si tratta de La chiocciola sul pendio (uscito in Italia nel 2019) e La città condannata (2020), entrambi firmati dai fratelli Boris e Arkadij Strugackij e tradotti dalla russista Daniela Liberti. Gli Strugackij sono di quei russi, per dirla alla Manganelli, di cui ricordiamo facilmente il nome persino di più rispetto al numero della nostra amata. Parliamo di spirito russo insomma. Sono però anche scrittori di fantascienza, nel senso che questa definizione ha assunto in Unione Sovietica e nei Paesi del patto di Varsavia. E qui si annida un primo equivoco: perché la fantascienza d’oltrecortina condivide poco, a volte nulla, con i modelli promossi dal mondo anglosassone. Nella prosa degli Strugackij, l’azione può venir meno se serve a lasciare spazio ai dialoghi tipici di cui sopra e che arriva a sintesi nella riflessione filosofica. Leggendo i romanzi degli Strugackij, si può avere l’impressione di una lettura lenta, inaspettata dentro un genere di grande dinamismo, e ci si arriva a chiedere se certe storie non avrebbero potuto svolgersi altrettanto efficaci in città reali o in normali contesti familiari.

C’è una risposta precisa a questa obiezione, legata alla particolarità dello scenario culturale sovietico e delle sue limitazioni. Ci arriveremo. Per liberare il tavolo dal primo fraintendimento, diciamo intanto una cosa semplice: in questi due romanzi le ambientazioni e le tecniche tipiche del genere fantascientifico non sono il fine, ma lo strumento della narrazione. I due fratelli, leningradesi di nascita, iniziano a scrivere a quattro mani dopo la guerra e la conseguente separazione. Il più grande dei due, Boris, diventa un apprezzato yamatologo e consulente editoriale a Mosca; Arkadij, di qualche anno più giovane, torna nella natia Leningrado e diventa ingegnere e matematico, con una grande passione per l’astronomia. Divisi da settecento chilometri di pianura russa, i due cominciano a scrivere insieme elaborando meticolose sessioni di scrittura di invidiabile capacità organizzativa. La scelta cade sulla fantascienza, probabilmente per le fascinazioni e le competenze spaziali di Arkadij, unite all’innegabile attrazione che tutta una generazione (il cosmonauta Jurij Gagarin era coetaneo di Arkadij stesso) nutre verso il cosmo. Del resto, per quel tipo di letteratura sembra esserci finalmente legittimità dopo la morte di Stalin e il tramonto del realismo socialista come unica autentica forma d’arte consentita.

Inizialmente con numerosi racconti, poi con i primi romanzi, gli Strugackij iniziano a farsi un nome e un pubblico consolidato. Nove romanzi in sette anni nei quali si dispiegano avventure di scoperta del cosmo, rocambolesche fughe da sciami di meteoriti, conquiste di pianeti vicini. Un repertorio da fantascienza classica, insomma, con riferimenti astronomici e tecnologici piuttosto all’avanguardia viste le conoscenze di Arkadij. Il successo naturalmente porta con sé l’affettuoso interesse degli uffici della censura. Anche perché, nel frattempo, la parabola del disgelo di Kruščëv si è esaurita a favore di quella dell’assestamento di Brežnev, decisamente meno conciliante. Inizia così una fase nella quale il rapporto tra gli autori e il potere sovietico si fa in qualche modo dialettico. Con sempre meno riviste e editori disposti a pubblicarli, gli Strugackij affilano la loro prosa, portando la fantascienza a un sistema di metafore nel quale scenari cosmici e futuri lontani servono da proiezione per togliersi dalla scarpa i sassolini che gli uffici di partito elargiscono in abbondanza. Non sono i soli ad avere questa intuizione. È un fenomeno che conosce varie declinazioni al di là della cortina di ferro. Lo farà negli anni ‘80, e in modo persino più sfacciato, uno scrittore polacco di qualche anno più giovane di loro, Janusz Zajdel. Le sue saranno allegorie in scala uno a uno di sistemi totalitari a lui molto noti e proiettati in mondi lontani. Veri e propri manifesti politici di ribellione camuffati da romanzi di fantascienza. Per questo motivo, i risultati letterari di quell’esperienza, letti oggi, appaiono modesti nonostante la popolarità ottenuta fra i suoi contemporanei.

Per fortuna loro (e nostra) il lavoro degli Strugackij, che inizia su questa linea, è da subito più sottile e si sviluppa ulteriormente arrivando a un’universalità che li rende leggibili e apprezzabili ancora oggi. Tanto La chiocciola sul pendio quanto il successivo La città condannata hanno già abbandonato l’idea della fantascienza come avventura tra le stelle, coltivando invece il progetto dell’allegoria politica e sociale. Non sono tuttavia solo un gioco a scoprire vizi e dolori dell’URSS di Brežnev camuffati da altro, ma un viaggio dentro una storia senza risposte, perennemente avvolta da un senso di inquietudine a bassa intensità. In questo senso hanno molto in comune con il capolavoro della fantascienza polacca Solaris di Stanisław Lem, uscito nel 1961 poco prima de La chiocciola. Nell’opera di Lem, così come nei romanzi degli Strugackij di questa fase, l’incontro con una dimensione lontana non è infine un’opportunità da destino manifesto, ma una metafisica della rassegnazione. Se l’avventura spaziale non è che la riproposizione del mito della caverna di Platone, le ombre proiettate sulla superficie di un pianeta lontano mettono l’uomo di fronte al fatto che nuovi mondi e nuove prospettive non portano risposte nuove, ma amplificano le domande vecchie. Restituiscono insomma la sensazione che certi interrogativi sono destinati a rimanere tali, a prescindere dal progresso scientifico.

Questa eco insistente di domande irrisolte non poteva certo andare bene all’URSS negli anni del suo lento logoramento. Porsi domande esistenziali equivaleva, più o meno direttamente, a dubitare della costruzione del socialismo e quindi di ogni dottrina su cui si reggeva l’eredità di Lenin, tra Mosca e Vladivostok. Quindi eretici, i romanzi degli Strugackij dalla metà degli anni ’60 in poi circolano solo a frammenti, stampati artigianalmente e fatti girare di mano in mano tra contatti fidati. È il destino che tocca in particolare a La chiocciola sul pendio, completato nel 1965, pubblicato a frammenti nel 1966 e per intero soltanto nel 1972 negli ambienti dell’emigrazione russa a Francoforte, da dove poi ha iniziato a circolare in Unione Sovietica clandestinamente. È il primo romanzo degli Strugackij realmente osteggiato dal potere. Anche perché contiene della sferzante satira antisovietica, troppo lampante per sfuggire alle forbici dei censori.

Al centro della storia, una foresta dai contorni indefiniti, mossa da energie misteriose e autonome, ammaliante e soffocante al contempo, abitata a fatica da una comunità che vive in condizioni quasi primordiali, di cui non si riesce a scoprire mai la vera essenza. Sopra la foresta, in cima a quello che è verosimilmente un costone di roccia, si erge il Direttorato, un mostruoso apparato burocratico fatto di persone civilizzate e tecnologicamente avanzate che ha la missione di controllare la vita giù nella foresta. Un tentacolare corpo forestale, dunque, che però si rivela del tutto incapace di svolgere il suo compito. La foresta resta impenetrabile, come inconoscibili sono i suoi misteri e inutile il senso ultimo del Direttorato. Non è casuale la carrellata di aggettivi privativi, perché La chiocciola sul pendio è un libro costruito sulla negazione. I personaggi che vivono e lavorano nel Direttorato, a partire dal narratore principale Perec, affondano in una burocrazia degna del Processo di Kafka, dove tutto è vuoto e inconcludente. A rendere la dimensione del Direttorato ancora più frustrante è il continuo, sfacciato, e a volte persino pigro, uso della menzogna. C’è in questo un po’ di umorismo tipicamente ebraico, ma anche la grande lezione di Gogol’ che duecento anni prima aveva già raccontato il volto della burocrazia russa, nel suo caso imperiale, come esemplificazione terrena di un terrore metafisico. E come si fa con Gogol’, anche leggendo gli Strugackij, il ghigno istintivo per l’aspetto grottesco degli eventi narrati si trasforma presto in perplessità, malinconia e infine rassegnazione. Perché, in fin dei conti, la satira sull’ipertrofico apparato statale sovietico non è altro che il pirandelliano strappo nel cielo di carta. Una volta aperto lo squarcio, non si può non chiedere cosa ci sia dietro. E dietro il diorama di inettitudine, cieca obbedienza e burocrazia del Direttorato c’è il niente, declinato nella foresta inconoscibile e incontrollabile, e nel tentativo di trovarle un senso. Cosa, quest’ultima, che sarebbe persino nobile se non finisse nel più materiale tentativo di ottenere un briciolo di potere sul prossimo.

La città condannata arriva dieci anni dopo. O, per meglio dire, viene scritto dieci anni dopo e riposto in un cassetto. Il clima degli anni ’70 è ancora più ostile, gli Strugackij lo sanno e questa volta nemmeno provano a farselo rifiutare dagli editori. L’edizione italiana riporta la post-fazione scritta da Boris Strugackij a seguito della pubblicazione, avvenuta solo nel fatidico 1989. Vale la pena citarne un pezzetto:

«La bozza del romanzo venne portata a termine in sei sessioni (in tutto, circa settanta giorni lavorativi pieni), durante un periodo com­plessivo di due anni e tre mesi. Il 27 maggio 1972, mettemmo il pun­to finale, tirammo un sospiro di sollievo e riponemmo la cartellina insolitamente spessa nella libreria. Nell’archivio. Per molto tempo. Per sempre. Capivamo perfettamente che il romanzo non avrebbe avuto alcuna prospettiva. Non si può dire che nutrissimo chissà quali speranze neanche quando avevamo appena cominciato a lavorarci. Già sul finire degli anni Sessanta, e ancor di più nei primi anni Set­tanta, fu chiaro che, con tutta probabilità, non saremmo mai riusciti a pubblicare un romanzo del genere. In ogni caso, non finché erava­mo in vita.

Tuttavia, all’inizio, avevamo ancora un’idea piuttosto ottimistica di come gli eventi futuri si sarebbero sviluppati. Noi ci immaginava­mo che, dopo aver terminato il manoscritto, ne avremmo fatto una bella copia e l’avremmo portata (con l’aria più innocente possibile) in varie redazioni. In molte e diverse redazioni. E in tutte quelle redazio­ni, ovviamente, sarebbe stata rifiutata, non senza che però qualcuno l’avesse letta. E in ogni redazione non l’avrebbe letta soltanto una persona, come accade di solito, ma in tanti. E ne avrebbero fatte delle copie, come avviene normalmente. E le avrebbero date da leggere ai loro conoscenti. E allora il romanzo avrebbe iniziato a vivere, come era già successo più di una volta, sia con La chiocciola sul pendio che con Brutti cigni… Sarebbe stata un’esistenza illegale, segreta, quasi invisibile, ma pur sempre una forma d’esistenza: l’interazione dell’o­pera letteraria con il lettore, quella stessa interazione senza la quale non esisterebbe l’opera stessa, né la letteratura in generale…

Verso la metà del 1972, tuttavia, persino questo modesto piano appariva completamente irrealizzabile, addirittura pericoloso»

Cosa rendeva i fratelli Strugackij così certi di aver scritto un libro talmente irricevibile agli occhi dell’apparato culturale sovietico? La Città condannata si svolge in un luogo separato dalla terra che conosciamo, anche se è difficile dire se ci si arrivi dallo spazio o in altro modo. È abitato da una comunità internazionale fatta di gente dalle più disparate origini. Tutti loro sono arrivati lì in momenti diversi e per ragioni diverse, accomunati solo dal misterioso scopo della loro presenza in città: L’Esperimento. Onnipresente quanto etereo, il senso di questo Esperimento assume connotazioni diverse a seconda di chi ne parla, ma non arriva mai a svelarsi. Gli unici che potrebbero saperlo, i cosiddetti Mentori che hanno il compito di accompagnare e guidare i nuovi arrivati, a domande precise restituiscono risposte vaghe, se non addirittura infastiditi silenzi. L’Esperimento si compie, non si discute. La città ha dimensioni notevoli ma finite, e su ciò che si trova ai suoi margini vige l’ennesimo elemento di incertezza. Persino della sua collocazione si sa poco, e le teorie degli abitanti si sprecano per fantasia restando tutte inconcludenti.

Andrej, il protagonista a cui viene consegnato l’arduo compito di tessere questa narrazione, nella vita precedente era un astronomo idealista di Leningrado, entusiasta del progetto socialista, che accetta impassibile il primo ruolo che gli è toccato nella Città: quello di netturbino. Non mancano le domande su quale sia la necessità di netturbini in una città ideale oggetto di un esperimento, per quanto quello dei rifiuti sia solo uno dei problemi quotidiani con cui gli abitanti devono confrontarsi. Ai cittadini tutto è oscuro e le domande cadono nel vuoto, anche quelle benevolenti di Andrej che all’inizio le compie con il sincero obiettivo di rendersi utile alla comunità e all’Esperimento, qualunque sia il suo senso finale.

Il romanzo ha una struttura molto precisa, un climax di capitoli che sono i gradini nella carriera dei nostri protagonisti, che cambiano mestiere senza un ordine apparente, ottenendo incarichi di volta in volta più prestigiosi. Incarichi che li cambiano radicalmente, come nel caso di Andrej che da spazzino diventa uno sfacciato inquirente, affamato di potere, rabbioso e rozzo. Le domande sull’Esperimento si fanno sempre più rade, mentre più forte è il sentimento di cinismo con cui Andrej accetta di arraffare quello che può mentre il resto scorre indifferente alle sue sorti. È chiaro che l’impalcatura narrativa è un’allegoria dell’URSS e dei suoi gangli di potere, dove i vari Andrej entrano nell’Esperimento, la costruzione ideale e perfetta del socialismo: pia illusione. Pur di sopravvivere, si accontenteranno di amministrare un po’ di potere per vivere anche solo leggermente meglio del loro vicino; arroganti apparatčik che ambiscono solo a una casa più grande e a un cesto di arance a Natale.

Sarebbe ingiusto però limitare La città condannata a un universo metaforico di comunisti interplanetari, perché siamo di fronte a un romanzo che mette il lettore spalle al muro, ponendo interrogativi universali sul potere e sullo spazio che occupiamo al suo interno. Siamo forse un po’ tutti Andrej, pronti a rinunciare agli ideali per vivere di rendita? O siamo forse migliori? Domande legittime, ma che nella dimensione del discorso comune sovietico semplicemente non potevano essere poste, più pericolose per la tenuta del potere della satira burocratica della Chiocciola sul pendio di pochi anni prima. Gli Strugackij lo sapevano, consapevoli di essere stati educati a non porsi domande, come tutta la loro generazione; per questo lasciano a lungo riposare il manoscritto in una cartellina, fino a quando il tramonto definitivo dell’esperimento sovietico non ha permesso a queste pagine di trovare un editore che volesse dar loro dignità di libro.

Come affrontare testi come La chiocciola sul pendio o La città condannata? Chiaro che in passato la letteratura di genere portasse con sé lo stigma atavico che allontanava troppo spesso certe categorie di lettori; avvicinarsi a un romanzo di fantascienza si legava più allo sfizio adolescenziale di leggere un volume comprato in edicola che all’incontro con la letteratura propriamente detta. Oggi i romanzi dei fratelli Strugackij appartengono a un altro modo di intendere la fantascienza. La chiave per apprezzarli sta forse nel riconoscerli nel solco di Gogol’ e Dostoevskij più che in quello di Asimov, Dick o Bradbury. L’elemento fantascientifico degli Strugackij poi non fu solo un’esotica ambientazione utile a dribblare la censura.  Porre certi temi in mondi lontani offriva possibilità nuove, per le quali il romanzo realista e borghese aveva esaurito la forza propulsiva. Fu una nuova metafisica, che portò nel cosmo le ataviche domande dell’uomo riportandole indietro più urgenti e ineludibili di prima, anche se altrettanto prive di una risposta definitiva. Per questo motivo, tanto La chiocciola sul pendio quanto La città condannata sono libri straordinariamente attuali, nonostante siano prodotti diretti di un passato dai contorni definiti e di un sistema che non esiste più.

Possiamo infine essere grati a Carbonio Editore per averli inseriti in un catalogo ambizioso e togliendoli dalla nicchia in cui il mercato (fatto salvo Picnic sul ciglio della strada, da due decenni ininterrottamente a scaffale grazie a Marcos y Marcos) li aveva incasellati a prendere polvere. Un plauso va fatto anche al lavoro di cesello di Daniela Liberti che, nelle sue traduzioni, ha scansato tutti gli ostacoli che la lingua russa e la scrittura a quattro mani le hanno probabilmente posto, regalandoci una prosa fluida e viva che restituisce l’inquieto stupore di questi romanzi.

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↔ In alto: Arkadij e Boris Strugackij / Carbonio Editore.

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