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Spazi vuoti

Dove sei? scrivo a Marco mentre Marika ci mostra il libro di – parole sue – un tizio che non aveva mai sentito ma che il suo amico dell’uni le ha detto essere famoso. Vedo Sabrina aprirlo e sfogliarne le pagine, e intanto invio il messaggio.
Ora si è data agli americani. Dice che hanno una marcia in più. Non fa che parlare di Salinger, Hemingway, e poi Roth, DeLillo. E ovviamente Fitzgerald. Questa mi fa troppo ridere. Quando l’anno scorso se n’è uscita che il film con DiCaprio era pazzesco, che quella storia era pazzesca, che tutta l’ambientazione era pazzesca, quando poi le ho chiesto se avesse letto il libro mi ha guardata con quella sua faccia ebete per dirmi no, non ancora.
Dalla settimana scorsa Marika è il tipo di persona che dice di leggere David Foster Wallace, ascolta i Baustelle, ti invita a un aperitivo da Necci, si mette gli occhiali con la montatura spessa, porta la frangetta corta e ti racconta che ha smesso di truccarsi.
Marika deve ricostruire la sua immagine dopo che il ragazzo l’ha cornificata con una malata di fitness col profilo Instagram da aspirante influencer. Sostiene che questi cambiamenti non li sta facendo per lui ma solo per se stessa. La voce però le trema quando cerca di non pronunciare il suo nome. Giulio-quel-bastardo è lì, pronto a scapparle di bocca, e ogni volta mi accorgo dello sforzo che fa per ricacciarlo giù.
Marco mi risponde mentre Sabrina legge ad alta voce qualcosa dalla quarta di copertina. Marco mi risponde mentre Marika si eccita perché cazzo, quanto dev’essere difficile descrivere qualcosa a chi è cieco? Ci avete mai pensato a che idea geniale possa essere scrivere un racconto su un tizio cieco?
Devo parlarti, gli scrivo. È una cosa piccola, una stupidaggine. Marika dice geniale; pazzesco; vibrante. Tesori miei, dico, io mi do. Ci vediamo più tardi?
Mi guardano come fossi un alieno. Te ne vai già? chiede Sabrina.
Mi ha risposto Marco. Risolvo e torno, non ci metto tanto. Voi restate in zona?
Boh, forse ci spostiamo al Fanfulla. Ti ricordi del concerto, sì?
Certo che me lo ricordo. Però resto poco, voglio stare con i miei stasera. Faccio giusto un saluto rapido a Robi e Sam, ché tanto lo so che non verranno mai a trovarmi.
Noi ci veniamo a trovarti, fa Marika. Sarà una figata!
Voi due non avete scelta. Dovete venire per forza.
Allora a dopo, dice Sabrina. Aggiornaci. Su tutto. Ok, tesoro?
Ma sì, vedrete che andrà tutto bene. Faccio subito.
Finisco la birra e prendo il telefono, l’accendino, la borsa, l’ombrello e mi alzo. Prima di andare dico a Marika che ha scelto bene con Carver. Lei annuisce, tenendo il libro fra le mani come un rosario.
Piove ancora. Piove sugli hipster barbuti e con i baffi all’insù, piove sulle ragazze dai pantaloni larghi e le acconciature assurde. Piove sui loro viaggi ad Amsterdam, sui filtri Lo-Fi e sui brevissimi video di Snapchat con le corone di fiori e le facce da cane. E piove anche su di me.
Domani me ne vado, lontano da tutti. Dall’oppressione di mamma, dal servilismo di papà. Lontano dal mio Michele. Non mi lascio dietro tracce ma solo spazi vuoti.
Quindi devo parlare con Marco: per essere libera di andare.

Metto le cuffiette appena salgo sul 19. Trovo posto accanto a una vecchia, una di quelle che attaccano bottone pure con i pali della luce con discorsi su figli, vecchi amori, guerre, povertà. O malattie. Invece no, signora mia. Sarà solo il solipsismo di Battiato a tenermi compagnia.
Piove sull’ingorgo al semaforo e sui venditori ambulanti. Sarebbe bello poter dire che Roma piange perché me ne vado ma credo non gliene freghi niente e il sentimento è reciproco. Non è che non provo sentimenti. Manco per il cazzo. Penso solo che non ha senso struggersi per le cose che finiscono.
Quando scendo dal tram ci pensa questo quartiere di pugni alzati e muri sventrati – di eterni  studenti con velleità artistiche fallite, fino a che i genitori a trent’anni non li prendono a calci nel sedere – a farmi tornare alla realtà.
Il Lancelot è il re dei pub da sfigati di San Lorenzo: luci tenui, rock alternativo, giochi da tavolo. Normale trovarlo lì, buttato in un angolo, lo sguardo basso rivolto ai due boccali. Uno è già vuoto. Che pena mi fa. L’unica cosa che si salva sono quei capelli lunghi e morbidi. E l’impegno che ci metteva quando scopavamo, ecco, quello sì, ma non basta. Non è Michele. E lo so che è una cosa sbagliata da pensare, ma Michele mi rende felice e la felicità è una cosa semplice.
Ehi, Marco, dico avvicinandomi. Questa maledetta musica alta. Marco! urlo.
Alza lo sguardo, pare metterci qualche secondo a riconoscermi. Fa una smorfia. Oh, Laura.
Gli chiedo se posso sedermi, risponde qualcosa che non capisco. Avvicino l’orecchio.
Sì, siediti! urla.
Prendo posto dall’altra parte del tavolo e subito mi pento della mossa sbagliata. Rimedierò. Fa un caldo che non si respira. Tolgo la sciarpa e il giaccone, lo sguardo gli cade sulla scollatura un istante appena, poi torna su. Guardalo: è deluso, amareggiato, rabbioso, eppure non riesce a nascondere l’eccitazione.
Come stai? chiedo con gentilezza.
Eh?
Sbuffo, e mentre mi tolgo un riccio bagnato dalla fronte gli indico il posto accanto a lui. Alza le spalle. Prevedibile. Allora sorrido, faccio il giro del tavolo e mi siedo al suo fianco. La prossemica è fondamentale: deve capire che non sono qui per litigare. Siamo alleati in questa guerra, noi due. Mi guardo intorno, finendo a fissare una finta rastrelliera con finte armi e il cameriere con l’orecchio attaccato a una tipa dai capelli blu.
Ma non c’è un posto più tranquillo in cui parlare? chiedo.
Fuori piove ancora?
Diluvia.
Allora dovrai farti andar bene questo.
Metto su uno dei miei bronci collaudati. Certo che sei proprio antipatico oggi.
Lo so, La’. Lo so. Mi dispiace, ok?, ma è una giornata di merda. La più merdosa giornata di merda della mia vita da coglione.
Mi dispiace. Che è successo?
Agita il boccale, poi decide di buttare giù un paio di sorsi.
Apro la bocca per provare a scuotere il suo mutismo ma il cameriere si intromette. Cosa voglio, mi chiede. Che ti levi di mezzo, vorrei dirgli, invece rispondo Sono a posto così, grazie.
Mi dispiace, ma la consumazione è obbligatoria.
Ma io non voglio niente!
Le regole non le faccio io.
Allora prendo uno spritz, dico approfittando del momento per afferrare il braccio di Marco.
Non lo facciamo lo spritz qui, risponde. Ma ti sei guardata intorno?
Stiamo cercando di avere una conversazione.
Devi comunque ordinare, continua, e intanto Marco mi allontana il braccio.
Senti, portami quello che ti pare, basta che ci lasci in pace.
Quello alza le spalle e se ne va. Lo guardo allontanarsi per essere sicura che non torni, poi mi rivolgo a Marco.
Che cafone. Dicevamo?
Non ci provare.
Cosa?
Non provare ad abbracciarmi. Non mi devi toccare.
Ma perché? Che ho fatto?
Mi guarda con le narici dilatate. Se non fosse un senza palle potrebbe quasi intimorirmi. Invece no: fa ancora più pena.
Si scola il boccale, qualche goccia gli cola lungo la barba e sul collo – penso al collo liscio di Michele, a quanto mi mancherà – poi se ne esce che Anna ha scoperto tutto.
Tutto cosa?
Tutto.
Ma tutto cosa?
La’, ma che cazzo, sei stupida? Tutto. Di me e di te. Te lo devo disegnare? Non so chi è stato ma qualcuno gliel’ha detto: mi ha fatto pure leggere un messaggio, uno screen, non c’ho capito niente.
Ah.
Cinque anni buttati al cesso per una cazzata. Una.
Mi sento intorpidita mentre Marco sputa fuori altre parole e tira giù un paio di bestemmie. Chiudo la bocca rimasta aperta, come per evitare di farmi scappare qualche parola di troppo. Si avvicina il cameriere con un boccale di birra, lo poggia e resta là a guardarmi. Lo guardo di rimando. Forse Nina, penso. Marco sbatte una banconota da cinque sul tavolo. Il cameriere raccatta soldi e boccali vuoti e se ne va. Continuo a chiedermi se Nina possa essere stata così stronza. Chi altri. Solo lei.
Allora? ringhia Marco leccandosi via la schiuma dalla barba. Che volevi?
No, è che…
Eh? dice.
Mi ritrovo a mangiucchiarmi un boccolo. Lo guardo e lo allontano come se non fosse mio. Non me l’aspettavo, dico.
Laura, porca puttana. Alza la voce.
Non me l’aspettavo!
Neanche io. Neanche io, cazzo. Cioè, penso a tutta quella gente che riesce a tenere in piedi tre o quattro storie parallele, e io resto inculato per un unico errore. Ma ti rendi conto? Dovevo starti lontano, cazzo.
Mi dispiace, dico, e mentre lo dico scopro che non è vero, che non me ne frega niente di Marco, di Anna, della loro storia che secondo lui è finita per causa mia. Che poi causa mia, è stato lui a rompermi le palle per primo e soprattutto poteva anche dirmi di no. Ce l’ha un cervello. Forse ha ragione mia madre a dire che sono una stronza a cui non frega niente di nessuno. Spero solo la voce non si sparga.
Che vuoi da me? mi chiede, mentre penso a una parola che ho sentito al liceo. Non era apatia, neanche apraxia. Vabbè, alla fine non è importante.
Non mi va di stare qui con te, Laura. Se hai qualcosa da dire, parla, altrimenti vattene. Anzi, non mi interessa neanche cosa avevi da dirmi, voglio solo andarmene a casa.
Deve per forza essere stata Nina. Volevo dirti, balbetto, riportando gli occhi su Marco, che domani parto per sei mesi.
Lo so. L’Erasmus. Me l’hai già detto.
Infatti, infatti.
Penso a qualcosa da dire ma non mi viene niente. Basterebbe così poco per poterlo rassicurare. Una parola, anche solo chiedere scusa. Magari dirgli di Nina, dargli qualcosa su cui ragionare. Qualcosa che gli consenta di chiudere.
È che… vorrei passare quest’ultima notte con te.
Passare cosa?
La notte, dico a voce più alta. Con te.
Fa una smorfia e scuote la testa, come un bambino ritardato.
Ma proprio mentre gli ripeto quanto sia importante per me passare insieme quest’ultima notte, realizzo che, ora che s’è lasciato, è l’ultima persona con cui scoperei. È una sensazione così folgorante che devo trattenermi per non sorridere. Ci riesco solo perché so che non è il caso. E quando scansa di nuovo la mia presa mi esce un sospiro di sollievo: lui non vuole me, io non voglio lui, e quindi non ho motivo di dirgli che forse è stata Nina a spifferare tutto ad Anna.

Non abbiamo nient’altro da dirci, tutto si è risolto così rapidamente che non mi pare vero. Sono libera di tornare a casa da Michele, libera di partire. Non mi frega niente neanche che parlino di me, perché tanto io non sarò qui a sentirli. Che si fotta tutto.

Marco però attacca a parlare e non si ferma più. Dice che in fondo lo sa che non è colpa mia, che le cose si fanno in due eccetera. Si vede che mi sento in colpa, dice. Si scusa – ma riesco a malapena a sentire la sua voce – e ora vuole solo tornare a casa e giocare all’Xbox. Dovrà togliere non so che foto dal comodino per evitare che il coinquilino gli faccia il terzo grado, dice che quello se ne accorge sempre quando qualcosa non va. I gay hanno un radar per le tragedie, dice.
Sta tirando fuori una marea di fesserie, ma l’ascolto perché non ho altro da fare e di andare al Fanfulla neanche mi va. Magari se perdo altro tempo posso tornarmene dritta a casa. Ora dice che quando Anna se n’è andata non sapeva che pensare. La prima cosa che gli è passata per la testa è che d’un tratto quei loro cinque anni insieme appartenevano già al passato: come quando cerchi di afferrare uno che sta correndo, lo sfiori, ne percepisci il calore un istante appena e poi scivola via. Come il fumo in una stanza quando il fuoco s’è appena spento, aggiunge.
La similitudine col fuoco mi piace.
Ti giuro, Laura, non sapevo che fare se non continuare a chiedermi che fare. E ora?, mi ripetevo. E ora? Ho girato a caso con la macchina, dall’Eur sono venuto fino a qui perché speravo di beccare qualcuno. Ho camminato per non so quanto. Poi ha iniziato a piovere e mi sono messo sotto un tendone. Mi sono messo a scrollare la conversazione: una settimana fa mi mandava le foto di un gatto che voleva adottare e oggi mi scrive solo devo parlarti. Come hai fatto tu. Mi è preso un colpo, capisci? Cioè, lo vedevo da un po’ di giorni che era strana ma pensavo fosse per il lavoro o per gli esami. Invece è arrivata, m’ha sbattuto il telefono addosso e m’ha detto ora tu mi spieghi che cazzo vuol dire questo messaggio. Non mi è venuta neanche una scusa, niente. Ho pensato fossi stata tu a dirglielo, ma perché avresti dovuto?
Infatti, Marco: io non c’entro niente in questa faccenda. Di certo non sarei andata a sputtanarci.
M’ha mollato uno schiaffo e se n’è andata. Manco un ciao, un riproviamoci. Niente. L’ho vista buttare l’anello nel tombino prima di svoltare l’angolo.
Non hai provato a inseguirla?
Per fare che?
Sei un coglione, vorrei dirgli. Mi dispiace, dico, sperando di potermi alzare. Sto cominciando ad annoiarmi.
Invece lui continua. Prima che arrivassi tu pensavo a perché combiniamo i casini. Cioè ma chi ce l’ha fatto fare, La’? Che problemi abbiamo tutti quanti, che ci complichiamo la vita quando siamo felici?
La felicità è una cosa complicata, dico.
Ci siamo conosciuti al concerto dei Radiohead, lo sai? Non avevo il coraggio di avvicinarmi, mi ci ha spinto Robi. Abbiamo cantato insieme House of Cards. Non avevo mai trovato una che apprezzasse quella canzone quanto lei. Mai, cazzo. Mai! Mi ha riempito di foto quella sera. Amavo il modo in cui scattava foto a qualsiasi cosa. Una pianta morente, un viso triste, queste cose qui.
È una bella cosa, dico. Anche se è una stronzata, penso.
In tasca ho ancora i biglietti per Londra. Volevo farle una sorpresa per il compleanno, ma forse mi sentivo solo in colpa. L’ho trascurata, l’ho tradita, e ora l’ho persa.
Dai, non prenderla così, gli dico trattenendo uno sbadiglio.
Mi uccide proprio l’idea di tutte le cose che non potremo più fare insieme. Avevamo una vita davanti e l’ho sprecata così.
Penso alla vita che abbiamo davanti io e Michele quando tornerò. Di nient’altro m’importa. Sto per alzarmi e inventarmi una scusa quando mi chiede se voglio un passaggio. Non me l’aspettavo.
Poi capisco: è divorato dal senso di colpa.
Gli rispondo che in effetti mi serverebbe uno strappo per tornare al Pigneto.
Così ci avviamo verso l’uscita, in silenzio. Prendo l’ombrello, glielo passo e mi aggrappo a lui, la mente già altrove. Abbozza un sorriso di rassegnazione. Tuo fratello come sta? chiede.
Michele bene, rispondo. Ha cambiato lavoro. Sta così bene che è pure uscito con una.
Sembra quasi che ti dia fastidio, dice.
Lascio correre questa sua considerazione e gli chiedo dove ha lasciato la macchina. Mi risponde vicino l’obelisco.
Solo cinque minuti a piedi, poi meno di un quarto d’ora di macchina, due chiacchiere con le altre e tutto sarà finito.
Hai visto che erano loro? urla qualcuno dietro di noi.
Ci voltiamo insieme, io e Marco, e insieme riconosciamo la figura enorme di Stefano. La tizia roscia al suo fianco sarà alta quanto me, ma in confronto ai suoi quasi due metri pare una nana.
Anch’io sono sempre sembrata una nana vicino a Stefano.
Avevi proprio ragione, Virgi’, urla, e le sue parole attraversano la pioggia per arrivare a me. Quelli sono Marco e la puttana.

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↔ In alto: foto 1 Nikola Jovanovic, foto 2 David Watkis, foto 3 Gage Walker / Unsplash.

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