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Erba e ferro

Quella stronza abbracciava lui e fissava me – mi fissava negli occhi – mentre gli chiedeva di accompagnarla. Marco, diceva, lascialo stare, mi porti tu al Pigneto?
Mortacci sua, quella troia! urlo.
Stefano, ti devi dare una calmata, mi fa Cecilia, afferrandomi il braccio. È rimasta solo lei. Dopo la rissa, Claudio e Virginia si sono dileguati. Begli amici quegli altri.
Io lo ammazzo!
Ma che tieni pena per una così? Ma sai quante ne trovi.
Ceci’, per favore, non ti ci mettere pure te.
Ti devi calmare, pure il sangue ti sei fatto uscire. Vieni da me, ché ti sistemo.
Guardo la mano gonfia. Non è niente, a casa ci metto il ghiaccio.
Ma dove vai in queste condizioni, dice, ti pigli un accidente e poi ti tengo sulla coscienza. Andiamo da me, sto qua dietro.
Camminiamo sotto la pioggia senza ombrello. Vorrei prendere a cazzotti un muro, giuro su Dio che vorrei tornare da Marco e spezzargli le ossa. A piazza dell’Immacolata ci sono solo due pusher a beccarsi l’acqua. Cecilia mi guarda, io alzo le spalle. Fa’ come ti pare, le dico. Compra fumo, erba, coca, quello che cazzo ti pare.
Prende dell’erba: la vedo contrattare e spero sia almeno roba buona. Se è un pacco come l’ultima volta torno qui e meno pure quel negro di merda. Lo faccio tornare a calci in culo in Africa.
Poi passiamo dal bangladino per un paio di birre. Cecilia prende due Peroni da sessantasei.
Facciamo tre, dico tirando fuori dieci euro.
Facciamo quattro, dice.
E brava ragazza.
Camminiamo in silenzio per un po’. Sto zitto per non bestemmiare. Questa poveraccia non c’entra niente, s’è solo trovata in mezzo a tutto quel casino. E questa mano fa un male cane. Le chiedo dove abita, mi dice Qua dietro, hai presente via degli Ausoni, dove ci sta l’officina?
Come no. C’ho lavorato lì, qualche anno fa. Vivi da sola?
No, sto con una ragazza di Bari.
Tu invece sei napoletana?
Di Sorrento.
Bella Sorrento. Prima o poi ci devo andare.
Comunque la mia coinquilina sta dal fidanzato il fine settimana, aggiunge dopo qualche secondo.
Meglio, non sono dell’umore per incontrare altra gente.
Neanche con me vuoi stare?
Che c’entra.
E ride. Che cazzo si ride.
Cammino con la Peroni gelata sulle nocche e penso a quando ho conosciuto quella puttana. Marco m’aveva imbucato al bowling, avevo fatto una partita assurda. Tre strike, quattro, al quinto lei se ne esce con Sei bravo, mi insegni? Stava a venticinque al sesto tiro. È troppo pesante questa per te, le ho detto, prendi questa rosa. Le ho fatto vedere e al primo tiro ne ha buttati giù sette. M’ha abbracciato, Comunque piacere Laura. Quel coglione del fratello non la smetteva di guardarmi storto.

Mentre in bagno disinfetta la ferita, Cecilia parla dell’esame di anatomia. Dice una serie di termini che non capisco, poi mi chiede che lavoro faccio. Le dico che stavo al Carrefour ma mi è scaduto il contratto. Mi vengono in mente tutti i curriculum che dovrò ricominciare a mandare domani. Altra rottura di coglioni, quella. Cercare lavoro a trent’anni è un’agonia, dico. Sembra sempre che ti fanno un favore ad assumerti. Lei annuisce e continua a mettermi sulla pelle della roba che brucia da morire. L’occhio mi casca sul cesto dei panni sporchi, da cui spuntano dei tanga microscopici. Uno è macchiato di rosso. Che cazzo di schifo.
Che poi tutta la casa è un bordello, piena di cibo avanzato, vestiti, libri. Quantomeno non puzza di sigarette come quella di Marco e di quel frocio di Tommaso. Non ci metterò più piede lì dentro, neanche morto.
Vuoi un pezzo di pizza? chiede. È di ieri però, quando sto da sola non mi prende di scendere.
Non c’ho fame, e non sembra neanche un granché.
Guarda me, poi il cartone. Ti offendi se ti dico che la fate ’na chiavica qua?
Alzo le mani. La napoletana non si batte, lo so.
Allora se qualche volta scendi andiamo da Sorbillo.
Mentre prepara la cartina e il filtro col biglietto dell’Atac mi dice che lei c’ha due gatti e mi chiede se ho animali. Grindo l’erba e le parlo di Thor. Le racconto che l’ho preso al canile, gli avevano mozzato orecchie e coda ma per me era bellissimo.
A Laura non glien’è mai fregato un cazzo di Thor, l’avessi mai vista fargli una carezza. Lui le scodinzolava intorno e lei lo cacciava via, diceva che c’aveva paura. Mi sono fatto andar bene tutto per lei. Sono proprio un deficiente.
Com’è ’sta roba? le chiedo.
Mi fido di Amadou. Mi fa sempre lo sconto.
Ma chi, il negro?
Si chiama Amadou, dice dosando il tabacco.
Può chiamarsi pure Gianfranco, sempre un pusher negro del cazzo rimane.
Sei un coglione, dice, ma nel frattempo ride.
Lo so che sono un coglione, Ceci’.
E pure fascio, aggiunge.
Quello non mi pare un difetto.
Tieni ancora dolore alla mano?
Brucia da morire. Comunque grazie.
E vabbuò, che fa?
Lecca la colla, chiude e strappa la carta in eccesso. Poi mi pianta la canna in faccia. Guarda che bella bandiera che t’ho fatto, ma dove la trovi una che ti fa una bandiera così?
Mortacci che spettacolo, c’hai un futuro da chirurga!
Fa la prima boccata a occhi chiusi, espirando verso l’alto. Se ti mettessi con me invece di stare appresso a quella cessa avresti il futuro assicurato.
Faccio la prima boccata a occhi aperti. Abbozzo un sorriso fissando il palazzo di fronte. A largo Preneste non ce l’hanno così buona, dico. E bravo Amadou, scemo io che volevo menargli.
Tu dici sempre che vuoi menare tutti ma sotto sotto sei buono secondo me, dice smanettando col portatile. Parte una canzone e mi chiede se la riconosco. È quella del pub, aggiunge.
Guarda, la conosco, ma ’sta musica da froci mi fa schifo.
A me i Goo Goo Dolls mi gasano troppo.
Sempre froci sono. Tie’, prendi, me la sto fumando tutta io.
Ma perché, tu che ti senti?
Li conosci i Rammstein?
No.
I Meshuggah?
Ma che nomi tengono?
Almeno i Metallica.
Conosco Fear of the dark.
Quelli so’ i Maiden.
E vabbuò, ja, mi so’ confusa. ’Sti gruppi so’ tutti uguali.
Sì, per chi non capisce un cazzo.
Mi fa una pernacchia schiacciando il mozzicone sul cartone della pizza, poi tira fuori altra erba.
Dai, questa la rollo io, dico. Tu grinda.
Rizla bianche lunghe, filtro, tabacco. Lecco per bene mentre lei mi guarda. Due minuti ed è pronta. Gliela metto davanti. Guarda che trombone t’ho tirato fuori, Ceci’.
A Laura non piacciono i cani, non piace il metal e non piace fumare. La verità è che io e lei non c’entriamo proprio un cazzo insieme, eppure ci sono andato sotto come a un treno. Una cazzata appresso all’altra ho fatto per lei. Poi vado a coglionare Lorenzo che ha smesso di uscire con noi per stare con Sonia. Almeno lui se la scopa; io mi sono solo fatto prendere per il culo. Se prima passava la polizia magari c’arrestavano pure. Mi ci vorrebbe una come Cecilia: una che sa ascoltare, affettuosa. Che sa rollare.
Non riesco a togliermi dalla testa la risata che faceva quando veniva. Si contorceva tutta, mugugnava e si toccava i ricci. Era bella. Si faceva solo quello che voleva lei: se quel giorno non le andava non c’era verso di scopare, poi però mi svegliavo la notte e me la ritrovavo a succhiarmelo. Non ne è valsa proprio la pena. Un anno buttato.
Mi piace quando mi chiami Ceci’, dice quest’altra.
Quando la soffocavo fino a farla diventare viola e mi fissava senza cedere. Piuttosto si faceva ammazzare.
Perché? le chiedo scolandomi la Peroni e stappandone un’altra.
Nessuno mi chiama Ceci’. Mi piace come suona in romano.
Te credo, ma ndo’ cazzo lo trovi un accento mejo de questo.
Lei sghignazza inclinando il collo e giocando coi capelli, poi cambia canzone. Questi ti piacciono?
Gli Afterhours no, te prego. Senti, metti Luci blu degli Zetazeroalfa. Sentirai che figata.
Ecco qua, fa lei premendo un paio di tasti. Mi sbuffa il fumo in faccia e mi sfiora la mano ripassandomi la canna. La vedo sorridermi quando il cantante urla Quant’eri bella amore mio, nel momento dell’addio. Poi strappa un morso dalla margherita rinsecchita, si mette a fissare la pioggia che riga il vetro. Ha gli occhi arrossati, ci faccio caso solo ora.
A una certa si scusa e se ne va. La sento armeggiare in bagno, poi lo sciacquone.
Vedo i piedi di Laura sul cruscotto, i suoi capelli sulla mia spalla mentre guidavo tornando da Ostia. Era l’estate scorsa, sembra una vita fa.
Tenevo i vestiti bagnati. Vuoi cambiarti pure tu?
Apro gli occhi. Cecilia è in piedi davanti a me. S’è messa dei pantaloncini e una maglietta gialla.
Lascia sta’, mo’ finiamo di fumare e poi vado. Tie’, finiscitela, dico, e intanto l’occhio mi cade sulle sue gambe. Una bella linea evidenzia il quadricipite teso.
Aspira, schiaccia il mozzicone nel posacenere, si avvicina sbuffandomi in faccia e in mezzo alla nuvola bianca sento le sue labbra sulle mie. Sa di erba e ferro. Le piazzo la mano sul culo; non oppone resistenza quando poi gliela struscio lungo la fica. Cecilia geme, si contorce per alzare il volume. Si sfila maglietta e pantaloncini, mi prende la mano e la guida sul suo corpo. Mi ordina di scoparla, poi mi slaccia i pantaloni e mi sale sopra. A ogni colpo lancia un gridolino. Il ticchettio della pioggia si mescola a una canzone che conosco ma adesso proprio non so qual è. Mi morde le labbra, io le mollo due schiaffi. Resta sorpresa ma poi ride e si afferra i capezzoli.
Girati, le dico.
Fa no con la testa. Come si dice, Ste’?
Le prendo il collo. Mettiti a pecora, Ceci’.
Si morde il labbro, si stacca da me, sbarella appena, alza ancora il volume, con una manata sparecchia il tavolino e ci si schianta sopra piantandomi il culo in faccia. Mi lancia lo sguardo più perverso che abbia mai visto.
La afferro per i fianchi, col dorso la prendo a pizze, sento la ferita riaprirsi, qualche goccia di sangue le resta sulla schiena, vedo il tavolo spostarsi a ogni botta finché non va a sbattere contro la libreria e un sacco di roba casca a terra. Intreccio i suoi capelli intorno al braccio fino a torcerle il collo. Urla Stefano mentre viene. Il suo desiderio porta il mio nome. Non m’era mai capitato così, porca troia. Non capisco più un cazzo; vengo ed è un’esplosione di sensazioni. Non m’era mai, mai capitato così. In mezzo alle convulsioni la sento ridere come una bambina. Non riesco a trattenermi e scoppio a ridere anche io, la rabbia di poco fa dissolta nel nulla. Rido per una cosa semplice che non credevo possibile. Resto dentro di lei, che mi bacia in preda agli spasmi, e intanto penso a due cose: la prima è che la riproduzione casuale sta mandando Someday, la canzone preferita di Laura; la seconda è che lei voleva che uscissi subito, appena finito. Non ne valeva proprio la pena di stare dietro a quella.
Collasso sul tappeto, la testa di Cecilia appoggiata al petto. Fuori c’è il diluvio, qui va tutto bene.

Quando esco da casa sua ha smesso di piovere. Monto in macchina, mi butto sulla Tiburtina, poi imbocco per Portonaccio. Da lì a largo Preneste sono cinque minuti. C’ho mille pensieri per la testa, ma ora voglio solo dormire. Rimando ogni decisione a domani, quando tutto sarà finito.
Guardo la nuova fasciatura sulla mano e sorrido. Cecilia è quello che mi ci vuole per andare oltre, la ragazza per me. Lei sì che ne vale la pena, cazzo.
La solita folla di sballati fuori dal Qube, nonostante il tempo di merda. Il Pigneto è qua dietro. Quella puttana starà passando l’ultima serata a Roma fra le braccia di qualcuno, e domani se ne sarà già trovato uno a Lisbona o dove cazzo è che sta andando.
Non è più un mio problema. Fanculo, dico, e do due colpi al volante. Non è più un mio problema. Magari ci resta, lì a Lisbona.
Poi al semaforo all’incrocio con la Prenestina mi fermo dietro una Punto blu.
Riconosco la targa e l’adesivo dei Radiohead. In fondo è una fortuna, un’occasione per parlare con Marco; per dirgli che non ne valeva la pena, non solo di fare a botte ma di perdere tutti e due tempo appresso a quella stronza.
Poi dal lato passeggero vedo una testa riccia dare un bacio al mio amico e appoggiarglisi sulla spalla.
Qualcuno dietro strombazza. La Punto blu è già oltre metà incrocio.
Sparo gli abbaglianti e accelero.

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↔ In alto: foto 1 Nikola Jovanovic, foto 2 David Watkis, foto 3 Gage Walker / Unsplash.

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