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Sul finire della settimana, per le righe del tramonto che contemplavo dal finestrino dell’auto, ho colto intimamente un messaggio. Ma un segreto si rivela nel tempo e non avendo alternative ho proseguito il ritorno verso casa.

Arrivato nella stanza, ho iniziato a premere la penna sulla carta acquietando la preoccupazione di non consegnare per tempo la bozza al mio editore. Da sempre, quando chiudo gli occhi e ascolto la musica con un taccuino sotto la penna, vedo un fiume scorrere nella vallata. L’immagine è sempre la stessa, mentre la direzione della corrente del fiume cambia ogni volta il suo corso. Non esiste un detrito in questa vallata, che è la pagina bianca.

C’è poca differenza fra essere svegli e essere addormentati e non sono l’unico a pensarla in questo modo: lo svolgersi del sogno, il suo divenire, il suo adattarsi al mio inconscio, l’incedere di tutto questo complicava il mio arrivo a destinazione, che era l’inizio della psicoterapia. L’appuntamento avrebbe dovuto essere, stando alle simulate abitudini del sogno, in un centro commerciale di una città indefinita. Vidi la dottoressa terapeuta mentre si voltava. Prima che lei si accorgesse della mia presenza tirai dritto riservandomi di arrivare a breve. Questa mia decisione, che alimentava la complessità di realizzare un’operazione semplice (quale appunto quella di arrivare fisicamente a un appuntamento) aumentò le distanze tra il mio corpo e il punto di arrivo. Senza alcuna spiegazione logico-temporale mi trovai a seguire la dottoressa sopra una rampa di scale che non comportava un dispendio di energie troppo gravoso. Mi sono svegliato prima che la terapia iniziasse, ma posso affermare che scorgevo una liberatoria luce crepuscolare oltre la struttura ingarbugliata del sogno.

Ho iniziato a riprendermi dall’assopimento e mia moglie mi ha invitato ad andare a letto. L’ho seguita per le scale e sotto le coperte ci siamo abbracciati come fossimo radici legate alla terra. Per non perdere l’intensità dell’abbraccio mi sono mosso lentamente come un feto. Nel buio ci siamo trovati a fare l’amore e lo ricordo in maniera nitida. Immersi nella morbidezza dei cuscini la nostra carne unita ha percepito una sensazione di accoglienza. Mi sono sentito il frutto all’interno di un fiore. Ho provato il desiderio, per un momento, di sentire un figlio crescere nel mio ventre. Di sentirlo scalciare nella pancia.

Sono caduto nuovamente in un sonno profondissimo. Non saprei spiegare quanto sia sceso all’interno di me stesso: nonostante le intemperie, il casale nella collina manteneva la limpidezza del colore. I colori erano quelli del tramonto. Gli invitati avevano la tenuta casual per le occasioni serali e io mascheravo in qualche modo il mio impaccio nel dover presenziare. Il vento decise di tramutare il presente in un inaspettato futuro immediato. Per primi gli uccelli vennero coinvolti dal vortice che portò con sé animali famelici. Ebbe inizio una fuga isterica e inutile per mettersi al sicuro. Anche io lo feci, sebbene non stessi seguendo la folla.
L’uscita dal casale significò scoprire nuovi avvallamenti aridi e meravigliosamente assolati.

Il mattino seguente mi sono svegliato presto e abbiamo deciso con mia moglie di improvvisare una gita verso le cittadine toscane, senza troppo allontanarci da casa. L’approccio è stato lo stesso che ha caratterizzato molti dei nostri viaggi, ovvero lasciare al caso il raggiungimento delle destinazioni.
Le cittadine di Bagno Vignoni e Pienza hanno quell’atmosfera accogliente e medievale che ha stimolato in noi un forte desiderio di intimità. Dato l’approccio che avevamo prospettato, abbiamo deciso che Pienza avrebbe potuto accoglierci la notte stessa. Abbiamo iniziato la ricerca di una stanza che, dato il forte afflusso di turisti, ha iniziato a diventare forsennata. Ricordo di aver chiamato decine di agriturismi senza un posto per dormire. Non siamo riusciti a navigare su internet coi telefoni e questa condizione ha iniziato a innervosirci. Per venti minuti circa, i nostri sentimenti sono stati rapiti dal belvedere di Pienza, che abbiamo potuto scorgere qualche istante successivo alla scomparsa del sole dall’orizzonte, distraendoci per un momento dalla discussione. Il prevaricare della notte ha levato un vento tagliente e ho provato un brivido così violento da mordermi il labbro e procurarmi un taglio. A stento sono riuscito a tamponare la fuoriuscita di sangue.

Mi sono allontanato dalla mia compagna per cercare un istante di solitudine e sono entrato dentro una chiesa tanto minuta quanto accogliente. Ho ammirato la solennità dell’unico uomo seduto e immerso nelle preghiere. Dopo pochi minuti mia moglie è entrata nella chiesa e ci siamo ricongiunti. Acquietati gli animi, ci siamo poggiati sul davanzale del belvedere e abbiamo trovato una stanza a pochi chilometri di distanza per passare la notte. Poco avrebbe importato il prezzo leggermente fuori dal budget. Il tempo di ricontrollare le condizioni di affitto della stanza e, prima di confermare la prenotazione, ho ricevuto una telefonata da casa: «Tornate a Roma, purtroppo ci ha lasciati».
Ci siamo abbracciati premendo le unghie sui nostri corpi. Sarebbe dovuta andare così. La mancanza di letti per dormire, il taglio, l’uomo nella chiesa, la telefonata.
Ho iniziato a riflettere sulla necessità di stringere fortemente la persona che abbiamo di fianco, nel momento in cui la carne della quale siamo fatti diventa una forma di comunicazione.
Nelle due ore del viaggio di ritorno è affiorato un ricordo per ogni lacrima deglutita. Alternando razionalità e preghiera, ho iniziato a domandarmi se esistono davvero quei chilometri che ci dividono da una persona morta.
Ho ricordato il momento in cui compresi il valore dell’arte venti anni fa, dentro un museo di Madrid. Una piccola scultura sovrapponeva due figure informi ma sinuose, leggermente distanti. La distanza esatta per comprendere che una figura poteva considerarsi parte dell’altra. «Le appartiene!» pensai, nello stesso istante in cui lessi che il nome dell’opera era Maternità.

Non sono avvezzo ai lavori casalinghi e il carattere protettivo di mia madre ha impigrito qualsiasi intenzione di sviluppare questa attitudine. Un giorno dovetti proprio aiutare i miei genitori a staccare mobili dai muri con il contestuale intento di buttare tutto quello che più non serviva. Mia madre mi consegnò un recipiente attribuendomi il compito di cestinare le penne senza inchiostro. Iniziai a tracciare linee sulla carta provando un senso di appagamento. Non scrissi nulla che avesse significato, ma quel senso di completezza mi fece pensare ai tossicodipendenti che dipendono dall’ago quanto dall’eroina. Compresi che avrei scritto per il resto dei miei giorni.

Le immagini sono esplose come granate e rimangono limpide nel loro essere frammenti. Cercando le parole per esprimere la distanza tra le viscere e le cose assenti ho pensato ai denti che affondano nella carne e a una poesia di Mallarmé che descriveva un personaggio che guardava il sole attraverso le bucce d’uva che aveva appena succhiato.
È difficile focalizzare una vita intera come fosse un punto unico da analizzare.

Questa notte arriverà un momento in cui sarò lontano da me stesso, sarà inevitabile.
Le paure diventeranno indomabili e mi terranno completamente sveglio. Cercherò di scomparire nelle braccia di mia moglie per tranquillizzarmi nuovamente.
Non sono nuovo a questo tipo di situazione da gestire. Ho dormito nello stesso letto dei miei genitori fino a tarda età. Tra la superficie più esterna del mio corpo e il respiro più profondo che nascondo, allora come adesso, c’è una distanza che sembra un’emorragia. Il contatto col corpo di mia madre curava nelle notti questa perdita di sangue. Mio padre ne era consapevole e lasciava il suo posto da padrone di casa.

Qualche giorno dopo la morte di mio padre tornai a casa sua per accompagnarla in banca. Dovevamo sbrigare delle pratiche relative al conto corrente bancario cointestato. La vidi a tavola mentre scriveva su un foglio bianco soltanto la lettera F, ovvero l’iniziale del suo cognome. La scriveva in maiuscolo corsivo, come ci insegnano alle elementari. C’era un contrasto tra la presenza ruvida di mia madre e l’esilità di quelle F. Nello stomaco sentivo la tenerezza alternarsi alla paura di perdere anche lei. La fragilità è il sentimento più forte a pensarci bene. Penso al momento in cui sto scrivendo e non voglio abbandonare la pagina per iniziarne un’altra.

Mi trovai dentro un luogo sacro, accogliente e grezzo, nel quale giocavo con dei sassi in attesa di scoprire un altro angolo del luogo. Le pareti erano formate da pietre antiche che mi proteggevano.
L’ambiente accanto, non riuscendo a intuirne le caratteristiche, mi inquietava; non vi erano ostacoli per accedervi ma io non entrai. Un istante prima della veglia ho riconciliato l’aspetto accogliente e ruvido del luogo sognato con l’immagine di mia madre che scriveva il suo cognome.
Salendo le scale per arrivare in camera da letto, continuo a provare questa sensazione tangibile.

Gli Stati Uniti sono lontani da Roma. Mentre percorrevo le lunghe autostrade occidentali ebbi la sensazione di migrare verso una sterminata solitudine alla quale una società opaca e indefinita mi aveva abbandonato. Avevo l’urgenza di esprimere questo punto di vista, di condividerlo con il mio ristretto cenacolo letterario, che purtroppo non esisteva.
Migravo verso una sterminata solitudine, ma le autostrade erano lunghe e mi riportarono a casa. Roma è una città materna e decisi di percorrerne le strade del centro storico nelle quali compresi di essere un feto all’interno di una città che stava respirando. La gravidanza aveva raggiunto il suo termine e non potendo più rifugiarmi nella solitudine che abbandonai sopra il marciapiede, proseguii il cammino fino al risveglio ripetendomi che non c’è salvezza senza unità.

Al mattino ho iniziato a premere nuovamente la penna sulla carta. Ogni parola ha iniziato a dialogare con la successiva assumendo una forma nota soltanto al mio inconscio. Il loro significato sarà comprensibile tra molti anni, in quanto costituiscono delle risposte a domande ancora da formulare.
Non ho apportato alcuna modifica al testo che ho inviato nel pomeriggio all’editore. La sua reazione è stata entusiasta al punto di leggere il racconto davanti a tutta la redazione. Durante la lettura ho sentito il corpo allontanarsi dalla mia testa e come nel sogno per le strade di Roma, ho avuto il desiderio di camminare sopra l’inquietudine delle mie gambe.

Nell’avanzare di questo percorso, che non permette di fermare il tempo, mi domando se la morte parla un linguaggio che si esprime mediante l’evoluzione. Mi spiego: prima della morte di mia madre io non ero lo stesso uomo che sono oggi.

Arrivato a casa in tarda serata, ho sentito la necessità di abbracciare mia moglie per condividere le emozioni assorbite durante la giornata. I battiti del suo cuore hanno iniziato a infrangersi sulle mie costole.

Dal colore giallo dell’erba credo di essermi trovato in estate all’interno di una famosa villa romana, dove mi recavo volentieri in gioventù. Sostavo in piedi sotto un rialzamento di terra di circa due metri che sembrava uno scalino di enormi dimensioni.
Due amici in sedia a rotelle vennero a trovarsi sopra il piccolo dirupo che li spingeva inesorabilmente verso il fondo a causa del terreno scosceso e della scarsa tenuta in frenata della loro pesante carrozzina elettrica.
Ma nel fondo ero presente io. La morte sarebbe stata immediata e inesorabile se non mi fossi frapposto tra il loro corpo e il terreno. Colsi prontamente i loro corpi, abbracciandoli, in due momenti distinti ma ravvicinati. Li strinsi forte al mio petto come fossero due neonati. Nella realtà io sarei stato schiacciato, e nel sogno me ne rendevo conto. Non avrei potuto afferrare i miei amici, come ho fatto, quasi senza scompormi.
Comprenderei la contrarietà di un lettore razionale, ma il sogno e la realtà sono paralleli come le corde di una chitarra: scollegati ma allo stesso tempo uniti nello sforzo di esprimere l’irrazionalità dei sentimenti.

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↔ In alto: foto Evie S. / Unsplash.

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