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Da qualche parte della storia c’è una frattura, un osso spezzato che ribalta il senso del tempo facendo male quando è ancora integro, l’attimo che si ricongiunge con la rabbia dell’universo: è un caos che le sgualcisce la gonna e le fa venir voglia di prendere in mano un coltello. Non sa affatto da quanti anni prima che lei nascesse era già presente nella sua casa aria fosca, eco di bruciato, odore di feci di cani, mutande da lavare, peli di animali feriti, anche lei è un animale ferito e senza gabbia è strano davvero che non riesca a scappare.

Non ricorda che rotture di coglioni e schegge di piatti, patetici momenti che non aveva mai voluto confidare a nessuno: quando per uscire di casa si era trovata il primo ragazzo a cui fare un pompino, il sapore del cazzo gli era stato spiacevole in bocca eppure aveva continuato, sapeva che le donne lo succhiano e a volte ingoiano se viene richiesto. E se proprio lei si fosse rifiutata poi i ragazzi avrebbero pensato che non le piaceva, che preferiva altro. Da ragazzina credeva anche che il rossetto sbavato agli angoli della bocca e il mascara colato la facessero somigliare ad una PJ Harvey anni ’90 con 50 chili in più.

Aveva una amica, Cate, avevano 16 anni, poi 17, poi 18, e un giorno ci aveva litigato, perché l’amica era solo una stronza e l’aveva tradita. Cate sapeva spogliarla da molti pesi, ma aveva iniziato a non farlo più: era successo piano, e poi si era legata a quel ragazzo, un impostore, quel ragazzo che poi aveva trovato lavoro e allora erano andati a convivere e Cate aveva preso le distanze da certe cose, non voleva più sentire certi discorsi, niente più parole su gente che conoscevano, gente che mentiva, allora anche Cate aveva iniziato a mentire, e tutte le prime cose belle che avevano fatto insieme erano svanite: la complicità, il fatto che lei riuscisse a mangiare due panzarotti in sua presenza senza vergognarsene, spesso dopo aver già cenato a casa. E dopo le andava sempre di mangiare un dolce, fumavano nell’attesa di una crêpe al cioccolato, e Cate non le diceva mai che schifo, esageri sempre con tutto quel cibo, fermati. Gustava sempre qualcosa con lei. Ma in breve tempo aveva iniziato a rifiutare gli spuntini, era pure dimagrita Cate, ed era diventata bugiarda, Cate la bugiarda che l’aveva tradita, le diceva no grazie io non ho fame, e rifiutava i biscotti o la crostata alla ciliegia, fumava molte sigarette in più e sembrava tutto a posto ma non era tutto a posto. Riceveva raffiche di messaggi dall’impostore, il telefono si accendeva e lei si isolava per leggere tutte quelle frasi vane, posticce, così aveva dovuto controllare gli sms di nascosto: eri molto bella ieri sera, che fai in questo momento, ti devo far sentire una canzone che mi ricorda te, e poi sempre più finzione – sipario aperto, mi manchi, ho voglia di vederti e sullo sfondo di queste parole sferiche c’erano i contesti bidimensionali in cui si incontravano: bar, birrerie, tavolini di plastica all’aperto che erano come cartoline attaccate al muro di una prigione e Cate ci cascava, ci cascava in pieno, le batteva l’inutile cuore, s’accendeva di tutte le splendide oscure stelle senza nome, si vedeva che era assorbita da quel fresco candore, da quell’agglomerato scomposto di speranza nascente che avrebbe rischiarato le sue paure, si vedeva che sarebbero divenuti loro gli amanti di cui parlavano i libri, loro, non lei e Cate ma Cate e l’impostore, e si sarebbero stretti l’uno accanto all’altra al cinema, lui le avrebbe pulito le lenti degli occhiali, lei avrebbe preso i popcorn dal cartoccio di lui e sarebbero saliti i conati di vomito, lo schifo dell’infingimento, la vergogna della simulazione, quell’amore non veritiero, quell’amore disgustoso, recitato per non dover morire con l’imene intatto, per non sentirsi sepolta in vita, quell’amore messo in atto per non dover pensare d’aver campato invano in una solitudine miseramente confezionata, eccoli i fingitori, questi inutili figli di puttana che osano raccontare storie non vere, che osano viverle, che pensano che tutti gli altri abbocchino fra un bocchino e l’altro e Cate soprattutto, quella troia, soprattutto lei, lei più di tutti era calata nella parte, lei più di chiunque altro era colpevole della messinscena, della recita natalizia, della storia romantica del bacio sotto il vischio mentre uno sconosciuto vestito da Babbo Natale la inculava.

E adesso ha un bambino, lo guarda bene dal finestrino della macchina, il bambino di Cate, se ne va sempre in giro per strada con quel cane. Li spia, ci sono giorni che sente di doverlo fare, tutti i giorni sono quei giorni, le occorre guardare che vita è accaduta a Cate. Il suo bambino pare un Gesù Cristo in miniatura sulle spiagge di Honolulu e il cane sembra un piccolo bastardo, un incrocio fra un viziatissimo corgi e una pecora del presepe. Un cane davvero di merda. Ma il bambino sacro, il biondo Re, il mini Nazareno reincarnato se lo porta come la Sacra Sindone in processione per gli isolati, camminano insieme a passo sincrono, le zampe dell’animale si allineano con quelle del Principe dei Cieli e se ne vanno a schiacciare Satana sotto le scarpette Primigi e i gommini rosa delle zampe pulite con salviette umide.

Dopo averli spiati, le capitava di sentire la fine di quel dolore sconosciuto: e vedeva Cate, madre calma con in braccio il bambinello, entrambi bianchi di gesso, stare sotto le arcate celesti perché lei potesse pregarli; poi la Madre discendeva e con la mano aperta le trafiggeva il cuore.

Queste erano le sere di lei, plebea sporca di polvere che andava a barattare vecchie verdure al mercato nella piazza, lei trucida umana a cui puzzava il fiato ad ogni ora, che sudava impietosa, che odorava di morte, queste erano le sere in cui piangeva l’eterna assenza di Cate, sapendo di doversi chinare d’innanzi alla grandezza del Bimbo col Cane e della degna Madre. Poi aveva deciso: si sarebbe presa il cane di merda, e avrebbe scoperto come la Madonna Sfondata e il Bambinello Hawaiano fossero riusciti a trasformarlo in un semi Dio pagano, in una creatura cui rivolgere offerte d’ossa. Avrebbe preso quel cane e sarebbe diventato suo, col tempo magari, e gli avrebbe tolto il collare verde e quella pettorina da cane borghese e lo avrebbe tenuto libero e sporco, perché ad un certo punto quel cane di merda le avrebbe voluto bene e sarebbe rimasto fedele così come ci si aspetta da un cane, un cane fedele a una cagna, e sarebbe diventato il suo migliore compagno e forse avrebbe un giorno potuto intercedere presso Cate. Ho trovato questo cagnetto smarrito per strada, le avrebbe detto, e lei si sarebbe commossa e l’avrebbe abbracciata e ringraziata e a quel punto lei avrebbe detto cazzo stai facendo lurida stronza? Questo cane ora è mio. Questo cane ora è solo mio. E finalmente avrebbe visto spegnersi negli occhi della lurida stronza quella luce da Santa Maddalena Protettrice delle Traditrici.

Chiuse il diario su cui stava scrivendo. Sulla copertina nuotava nel nulla una balena blu. Sotto, una scritta leziosa le ricordava ogni giorno la stessa cosa: Questa balena è fantastica, tu no.

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↔ In alto: foto Gil Ribeiro / Unsplash.

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