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Correndo, impari che le distanze sono una questione di testa. Certe vicinanze, invece, sono battiti in sincro.
Ciò nonostante, prima dell’incidente ero convinto del contrario. Che la prossimità fosse un fatto di buoni propositi. Contava soltanto spingersi oltre. La natura ha un modo tutto suo di scoperchiare alcune verità.

Corfù. Oggi cerchiamo Cosimo. È questo che mi sono ripetuto, guardando la mia immagine riflessa dallo specchio impolverato del wc del traghetto, le narici invase da un forte odore di piscio. Poi l’aria aperta e il sole e un cielo così azzurro da sembrare sul punto di esplodere.
Siamo sbarcati. Ad attenderci, una batteria di pesci spiaggiati sul confine bagnato dalle pretese del mare sulla terraferma. Sembravano vecchie scarpe lasciate lì da una famiglia di turisti smemorati e se questa fosse una fiaba, racconterebbe di un papà che passeggia lungo la battigia tenendo per mano una mamma sognante. I figli, più indietro, a scalciare le onde tra risate sincere, sotto il sole di un pomeriggio qualsiasi. Avremmo ombre maestose e impronte memorabili, che diverrebbero pozzanghere e poi scomparirebbero con l’avanzare del pomeriggio, perdendo significato per sempre. E questo sarebbe quanto e dovreste farvelo bastare.

Ma non si tratta di scarpe, bensì di pesci smembrati, dall’odore salmastro, su cui stavano banchettando gabbiani bianchi e svergognati. Dal traghetto avevo scorto quella massa albina e mi era parsa informe, un tutt’uno con il mare; avevo pensato si trattasse di schiuma, di onde rifrante sugli scogli. Forse perché il mare e il rumore dei motori avevano inghiottito le urla di quegli uccelli affamati. C’è che la natura ha un modo tutto suo per fare pulizia del superfluo.
Lisa ha concesso un’unica occhiata allo spettacolo, si è aggrappata alle bretelle del suo zaino ed è passata oltre. Ha detto camminiamo, devo sgranchirmi le gambe. Mi ha sorriso e i suoi capelli biondi, agitati contro il sole, mi hanno ricordato certi anemoni di mare che avevo visto durante un’immersione a Palermo, qualche giorno prima.


Palermo. Oggi cerchiamo Paolo. Lisa sedeva sulle mie gambe indolenzite dalla fisioterapia e tutto il resto, che poi sarebbe la parte meno dolorosa dell’intera vicenda. La sera in cui il ragazzo che si faceva chiamare Morrison ci ha detto perché non provate a Corfù, Lisa faceva dondolare la gamba destra al ritmo di una vecchia canzone di Duke Ellington, che stavo fischiettando sovrappensiero. Morrison stava finendo di rollare uno spinello e la sua faccia era una mezzaluna pallida dai tratti abbozzati, illuminata parzialmente dai lampioni e dalle finestre del centro abitato poco distante. Morrison aveva fatto scattare uno zippo e aveva preso una boccata di fumo. Aveva guardato me e Lisa e aveva allungato la mano con cui teneva la canna, accompagnando il gesto con un occhiolino. Noi avevamo fatto di no con la testa, e Morrison si era stretto nelle spalle. Aveva aspirato un’altra boccata e l’occhio arancione della canna si era acceso. Come a dire Io sono qui. E voi?
Noi eravamo due sopravvissuti, anche se per motivi diversi e stavamo a galla a fatica. Ecco dove eravamo noi, in quel momento. Stavamo scalciando sopra la linea di galleggiamento, lottando per tenere la testa sotto la pioggia. Morrison aveva fatto un altro tiro e aveva lasciato che il fumo passasse dalla bocca alle narici, una cascata al contrario. L’avevamo conosciuto tramite passaparola. I baracchini sulla spiaggia abbattuta dall’estate; i personaggi da depliant di villaggi turistici; la gestualità tipica di chi è abituato ad acquazzoni di silenzio; un aquilone sospeso così in alto da appartenere al cielo; ammiccamenti: tutti gli indizi portavano a lui, il bagnino con la canotta bianca, la pelle amarena e l’atteggiamento preso in prestito da vecchi film in bianco e nero. «Parlate con lui», ci avevano detto, mentre mangiavamo frittura mista da un cono di carta assorbente. «Ma parlateci dopo il tramonto». E ancora, indicando quel ragazzo intento a fissare il mare: «Ci si rivolge a lui, quando qualcuno manca all’appello».
E il ragazzo che si faceva chiamare Morrison ci aveva ascoltati a occhi chiusi e ci aveva recapitato il suo invito con un cenno del capo. Seguitemi. Vi mostro una cosa.
Morrison: l’ennesimo appoggio in una melina che si protraeva da diversi giorni, ma non c’erano filtranti, o giocate risolutive. Solo Morrison. Così avevamo acconsentito e nel silenzio notturno della spiaggia avevamo chiesto se un ragazzo simile a me, con l’accento del nord e la passione per la corsa fosse passato di lì. Se avesse visto un invasato con meno problemi di Forrest Gump, ma con la sua cieca determinazione. Erano le stesse domande che avevamo formulato negli altri porti. Cambiava solo l’interlocutore. Catania, Capri (Avete incontrato un tale di nome Giosuè?). Ora Palermo.
Hai incontrato un tizio di nome Paolo?
Ecco come era saltata fuori la canna e il silenzio dell’attesa. E Corfù. «Potrebbe essere a Corfù», aveva detto Morrison.
Prima di Morrison c’erano stati Santino, Tonsilla, Antina e Mariutta, e chissà quante di quelle identità nascondevano nomi inventati.
Una catena di Sant’Antonio composta da indicazioni, da cuciture labili. Così come Palermo non era altro che un porto franco, una condizione geografica fuori dal tempo. Proprio come quel ragazzo dai capelli arruffati. Il prossimo nome sull’elenco pareva essere Corfù, e andava bene: ci stavamo muovendo come palline impazzite da troppi giorni. Ma la Grecia non era Palermo. Non era Catania. Non era Capri.
Corfù era una sensazione di soffocamento.
Sei sicuro che sia proprio a Corfù, avevo chiesto a Morrison. Lui si era stretto nelle spalle. Aveva sbuffato del fumo, che era scivolato nello spazio tra la penombra e l’oscurità e aveva detto: «Paleokastritsa è una spiaggia incredibile. Ci andrei di corsa anche io». Morrison aveva accompagnato quelle parole con un gesto della mano.
Palermo, Corfù. Ogni città custodiva la possibilità di trovare una risposta alle nostre domande e il tempo sembrava sciogliersi attorno a noi. A volte un’ora non è altro che l’incontro tra urgenze di diversa natura. Per Morrison urgenza significava assaporare il respiro della notte mischiarsi con il sudore acre di chi cerca risposte.
Corfù, la Grecia, solo un tassello di un’esistenza difficile da spiegare. Avremmo potuto insistere e chiedere di più, ma avremmo ottenuto sguardi filtrati dal buio. Il modo di fare di Morrison ricordava quello di certi santoni indiani che puoi trovare nei documentari mainstream. Di cui ti fidi perché è troppo dura remare contro le convinzioni più radicate. Ci avrebbe lanciato occhiate sbilenche attraverso il ciuffo di capelli rossicci che gli cascavano davanti agli occhi. I suoi occhi, l’ennesimo punto di vista corrotto dalle circostanze. «Pensavo mi cercaste per questo», aveva detto infine, indicando lo spino. «Sicuri che non volete un tiro?». Ancora un gesto poco convinto. Ancora quell’occhio arancione puntato contro di noi. Avvolti dall’odore dolciastro della ganja, avevamo declinato l’offerta una seconda volta.
Avevo appoggiato il mento sulla schiena di Lisa. Fossi stato in vena di domande stupide, gli avrei chiesto perché si facesse chiamare Morrison, ma lui aveva puntato l’occhio arancione dello spinello contro di me. «Cosa hai fatto alle gambe?», mi aveva chiesto. Il silenzio: a un certo punto, sentivo il fuoco di mille incendi avvampare nei miei arti. Ma era durato il tempo di accorgermene, poi si era spento. Niente, avevo risposto. Non è niente. Dobbiamo andare.
Lisa si era piegata indietro, facendo rimbalzare via il mio mento dalla sua schiena. Corfù, aveva ripetuto. Andiamo a Corfù. Morrison aveva pescato dalla tasca la mano con cui non reggeva lo spino e ce l’aveva porta. Ci eravamo alzati e dopo avergliela stretta, eravamo tornati alla nostra stanza d’albergo.
Prima era stata Catania. Oggi cerchiamo Alberto. Polvere e un tamponamento sfiorato e porfido e pioggia che evaporava dall’asfalto senza riposo e l’alba vista dal parcheggio privato del b&b era un lastrone infuocato del colore della savana in fiamme; Catania, un acquazzone e una sfilza di tetti in terracotta e fichi essiccati e informazioni e corse in Vespa. Una vecchia che si faceva chiamare Tonsilla ci aveva letto le carte e aveva detto: «La vostra rotta dice Palermo».
Prima ancora era Capri e le gemelle, che vendevano souvenir dentro un monolocale senza finestre.
Avete incontrato un tizio di nome Franco?
Strette nel loro scialle ricamato a mano, senza denti, ci avevano spinto verso sud. «Le risposte stanno dove non siete mai stati».
Sballottolati senza meta verso sud, vero il mare, seguendo tracce accennate e consigli disinteressati.
Fino a Corfù.

Lisa mi ha aiutato ad abbandonare la spiaggia ma un refolo di vento ha sollevato della sabbia e ce l’ha spruzzata negli occhi già rossi per la notte insonne. La sabbia sottile negli occhi, le urla dei gabbiani contro il cielo. Quasi che dovessimo andarcene il prima possibile. Ci siamo riparati la faccia con il braccio e abbiamo raggiunto lo spiazzo dei taxi, bianchi come i gabbiani, ma meno rumorosi. Abbiamo parlato un inglese duro con un vecchietto baffuto di nome Gillo. La sua pelle bruciacchiata dal sole mi ha provocato una simpatia impagabile. Ho detto a Lisa andiamo con lui.
E dal porto ci ha portati a Corfù città. Alla casa con affaccio sull’ennesimo scorcio di mare. Il tragitto è stato un collage di storie e di informazioni turistiche. Ai tempi della guerra qui ci abitavano nobili ebrei. Ci hanno costruito ville dallo stile arabeggiante e altre stronzate sciorinate con sorrisi d’ordinanza. Ho smesso di ascoltare dopo la prima curva presa a velocità da ritiro di patente. Durante il tragitto, Lisa mi ha stretto la mano con forza. Il suo palmo era sudato e lo sentivo scivolare delicatamente sul mio. Da quant’era che Lisa non mi stringeva in quel modo?
A volte correndo ti imbatti in piccoli problemi di poco conto. Il dolore ti insegna l’esistenza di muscoli mai sentiti nominare prima. Impari a convivere con domande scomode, come: e se non avrò la forza di tornare indietro? E: Perché lo sto facendo? Incontri facce sorridenti che ti lasciano qualcosa. Chi ha detto che la fatica non è trasparente, chi ha detto che condividere lo sforzo non procura gioia, non sapeva di cosa stesse parlando.
Io e Lisa abbiamo scoperto che macinare chilometri fianco a fianco, finché le gambe ti suggeriscono di fermarti, rappresenta un territorio di incontro. Anche se ognuno correva per conto suo, al ritmo di una musica diversa, come avevamo sempre fatto. È così che ci siamo vissuti veramente. Quando, dopo uno sforzo, ci aspettavamo per raccontarci quanto facesse male la vescica spuntata tra alluce e secondo dito. Quanto fosse bella la fuga dal sole al tramonto.
L’incidente ha portato via quei momenti di condivisione, oltre a tutto il resto. Potrei dire che almeno avevamo già imparato a conoscerci a sufficienza, ma la verità è che una persona non è mai ferma. E se tu ti fermi poi non la conosci più. E puoi solo rimetterti in marcia.
Siamo entrati nella casa con affaccio sulla spiaggia e abbiamo mollato le valigie. Ci siamo sdraiati sul letto. Ho guardato il lampadario spiovere sopra la mia fronte e ne ho sentito il peso invisibile. Ho pensato che se fossi ancora in grado di correre con Lisa, magari staremmo semplicemente scappando. Magari saremmo altrove.

Fuori è buio e dobbiamo recuperare le energie. Lisa sbuca dal bagno con lo spazzolino tra le labbra. Accenna un sorriso, poi si tuffa nello zaino come uno struzzo. Torna in bagno. Mi allungo sul letto. Domani dovremmo cominciare la ricerca qui, a Corfù.
Avete incrociato un tale di nome Marco? Marco può andare, penso.
Non abbiamo una vera e propria traccia, ma chiederemo in giro. Uniremo i tasselli in nostro possesso. Ci saranno altre espressioni, nuovi nomi, sorrisi e vaffanculo. Forse questa notte sognerò ancora l’incidente. La strada sterrata che costeggiava la parete della montagna, la frana, il sangue e l’odore di un imprevisto che ha centrato proprio te. Forse Lisa piangerà nel sonno. Allungherò il mio braccio e lo appoggerò sulle sue spalle. Forse si scanserà.
Le persone che corrono, a volte, mi ricordavano isole galleggianti. Adesso, non posso più accompagnare Lisa e lei ha smesso di correre, senza di me. Credo abbia paura di ferirmi. Se avessi abbastanza coraggio, le direi che non stiamo galleggiando da nessuna parte. E mentre la notte si allunga sul mare fuori dalla finestra, penso che, forse, l’incidente è quanto di più bello avesse potuto capitarmi e mi sento leggero. Correndo ho imparato a conoscere meglio mia sorella, dopo gli anni in cui si è richiusa a riccio, dopo che lei aveva perso chi amava. Ora non corriamo più, ma continuiamo a muoverci. A scivolare verso il futuro con una convinzione che a volte mi spaventa. Lisa ha imparato a reggersi sulle proprie gambe. Ed è così, leggero come se fossi morto, che mi decido. Domani dovremmo ricominciare la nostra caccia ai fantasmi. Dovremmo chiedere se qualcuno ha visto un ragazzo con una barba rossiccia correre come se avesse qualcosa da dimostrare. Dovremmo apprezzare le risposte dei locali, in quell’inglese ruvido. Ci verrebbe fatto l’ennesimo nome. Provate con lui. Chiedete a lui.
Ci sarebbe data l’ennesima destinazione. Che poi chi cerchiamo non lo conoscono, e non lo conosciamo neanche noi, non davvero. E dovremmo interpretare le risposte come sempre: piegandole a nostro piacimento, per disegnare i contorni di una vacanza altrimenti noiosa e scontata. Ma per me può bastare così. Tra poco sarà il momento di tornare, e a mamma e papà racconteremo di granelli di spiaggia portati via dal vento, delle sfumature del mare, e ometteremo il riflesso affamato negli occhi dei gabbiani, e le proposte di quel tipo che si faceva chiamare Morrison, e le carte e gli inganni. Diremo a mamma e papà che siamo pronti per ridefinire i nostri sogni. Che il mondo ruota ogni giorno. Che, dopotutto, si può correre a destra e a sinistra, in lungo e in largo, a perdifiato, anche se una grossa pietra ti ha portato via un pezzo di piede e spezzato l’altra gamba. Basta ridefinire i propri limiti.
Che la natura ha un modo tutto suo di insegnarti che non sei l’ombelico del mondo.
Ma, più importante, prima di tutto questo, domani mattina, quando Lisa si sveglierà e si appoggerà allo stipite dell’uscio per guardare il mare, le racconterò di quanto era bella quando correva e di quanto fosse sincera la sua faccia. E le dirò che prenderò un taxi e l’attenderò lì, sulla spiaggia di Paleokastritsa, ma che ci deve arrivare correndo sennò non mi troverà; le dirò che la nostra ricerca potrà dirsi conclusa, se lo desidera, perché potremo sorridere a piacimento per lunghi anni al ricordo di questa avventura e nessuno potrà portarci via nulla di ciò che siamo diventati, ora che non siamo più isole.


↔ In alto: foto Saffu / Unsplash.

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