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Pochi mesi fa è uscito per Sellerio, nella traduzione di Maria Nicola, Poeta cileno di Alejandro Zambra. Approdato al romanzo lungo dopo Storie di alberi e bonsai, I miei documenti e Modi di tornare a casa (per limitarsi alle sue opere più note), il narratore e poeta di Santiago lascia ai lettori un libro che affronta il tema del passaggio di consegna tra le generazioni e indaga il senso contemporaneo della paternità, e che ha a che fare con due tipologie di legame solo apparentemente opposte: la tradizione e l’illegittimità.

Gonzalo ha 26 anni quando, durante una serata in discoteca, incontra dopo dieci anni l’amore della sua adolescenza, Carla; Carla ha un figlio di dieci anni chiamato Vicente, di cui Gonzalo diventa presto il patrigno (padrastre, in spagnolo). Non che Vicente non abbia un padre biologico, ma León, imprenditore fallito cinico e bonario, muscolare e imbarazzato, è solo l’ombra di un padre, un residuo pateticamente struggente dell’essere-padre che è oggi il lascito della paternità tradizionale. Il rapporto tra Gonzalo e Vicente passa quindi dal riconoscimento di un’estraneità: li seguiamo mentre penetrano con discrezione nella vita dell’altro, adattando due esistenze diverse alla ricerca di una lingua comune.

Per dire la natura del loro legame ci vorrebbe una lingua capace di raccogliere tutte le possibili sfumature dell’essere-padre e dell’essere-figlio, una lingua poetica. Gonzalo è un giovane poeta, e al momento di conoscere Carla ha l’intenzione di pubblicare il suo primo libro. Tuttavia, la scrittura e la paternità sono due dimensioni dell’esistenza che l’uomo non è in grado di armonizzare: da un lato il suo impegno per Carla e Vicente, dall’altro il progetto di una carriera di poeta nel panorama letterario cileno, che si scontra con quello che non è mancanza di talento da parte di Gonzalo quanto piuttosto una specie di disincanto eroicomico.

Aspirava ancora a una qualche imprecisata rilevanza e il suo amore per la poesia era rimasto intatto, ma non sognava più di diventare un Pablo Neruda o un Pablo de Rokha o di un Nicanor Parra, e nemmeno, per così dire, un Oscar Hahn o un Claudio Bertoni: Aspirava a essere considerato un poeta, nient’altro; aspirava a comparire nelle antologie, forse non in tutte, ma in qualcuno, in quelle buone.

Se nei Detective selvaggi, libro presente a molti livelli e addirittura citato all’interno del testo, la poesia è legata a doppio filo con l’utopia – l’utopia politica di un’America Latina libera e quella estetica di una rivista capace di raccogliere tutti i giovani poeti latinoamericani – in Poeta cileno la poesia nasce attorno a un nucleo di ironia e di scetticismo, e finisce col rivelarsi, quindi, perfettamente romanzesca. Gonzalo pubblicherà un unico libro di poesie, El Parque del Recuerdo, destinato ad affondare anonimamente nell’humus fertile della poesia cilena. Poeta cileno diventa quindi il racconto di un apprendistato mancato. Il sentimento del disincanto, che non è esclusivo di Gonzalo ma investe la sua intera generazione di poeti, è la vera cifra del Cile rappresentato da Zambra nei due primi capitoli del libro.

Così, malgrado l’amore per Vicente e Carla, Gonzalo sceglierà di partire per New York, dove ha ottenuto un dottorato in università. Lasciare il Cile significa molte cose, tra cui la rinuncia a volere partecipare alla scena poetica nazionale e in un certo senso a perpetuare la tradizione degli amati poeti cileni, oltre che l’abbandono della famiglia (che nasconde dietro un alibi di vittimismo).

Nei primi due capitoli Poeta cileno può dare l’idea di Künstlerroman: Zambra accompagna il protagonista in una serie di conquiste progressive fino al raggiungimento dell’assoluto artistico. Al contrario, mentre assistiamo allo sviluppo del personaggio, come nell’Educazione sentimentale di Flaubert, le passioni e gli eventi della vita scavano sotterraneamente nel desiderio dei personaggi, mostrandone tutta la futilità: da autentico contemporaneo Gonzalo sceglie la realizzazione personale, la recisione dei legami, il raffreddamento delle passioni. In questo romanzo Zambra mostra molto bene come tra i desideri esista una spazio neutro di completa relatività, dove un sentimento è sempre capace di ribaltarsi nel suo opposto.

È la scomparsa di Gonzalo a mettere in moto l’esistenza di Vincente e a guidarne indirettamente andamento e direzione. Vicente diventa un precoce accumulatore di libri senza badare al loro valore o al loro contenuto, colmando attraverso la serialità patologica la mancanza del patrigno. Crescendo Vicente cerca di cancellare ogni traccia del passaggio di Gonzalo, e finisce inconsapevolmente per coltivare la lacuna lasciata dalla sua sparizione. Anche Vincente intende diventare un poeta, ma a differenza del patrigno si muove con lucidità, concentrazione e coraggio nel proprio desiderio.

Quando nell’ultimo capitolo Gonzalo e Vicente si incontrano nuovamente a Santiago, passeggiano e discutono a lungo. Nei dialoghi che occupano le pagine finali l’autore riesce in un compito difficile: esprimere la tenerezza tra due estranei le cui vite sono tenute assieme da una specie di fatalità di cui sono solo in parte consapevoli. L’identità del figlio, il vero poeta cileno del libro, nasce nello spazio vuoto tra lui e il patrigno, e acquista pienezza e consistenza quanto più è capace di tradirne l’eredità, di sfidare con la poesia il suo destino di figlio mancato. E anche in questo esiste una struggente tenerezza. Zambra mostra nella forma di una parentela non biologica un tratto fondamentale del legame e dell’amore: il riconoscimento passa attraverso la constatazione di una diversità radicale, la tradizione attraverso il tradimento, e la lacuna è un patrimonio.

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