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Le mani di mio padre sono ricoperte da una patina biancastra, dalla polvere che esplode dalla pietra quando la incide con lo scalpello. Il ticchettio della punta che batte nelle fessure aumenta di ritmo a intervalli regolari: prima si traccia, poi si scolpisce. E papà traccia e scolpisce da quando ne ho memoria. 

Inizia tutto da un grande masso che trasporta in una carriola fino al tavolo da lavoro. La ruota va a sbattere contro le pietre rialzate del pavimento che papà ha cementato a una a una durante un’estate dei miei sei anni, facendomi bucare con l’indice la poltiglia fresca prima di appiattirla. Se il masso è troppo pesante o si sposta sbilanciando la carriola, papà si ferma e la sistema accanto alle colonne che tengono in piedi la grondaia e che ospitano le mie età in altezza. Non alzare le punte, però. Non le alzavo mai. Appoggiava la matita da carpentiere, rossa e rettangolare, sulla mia testa, tracciava un segno deciso e strappava sempre via qualche capello, che restava attaccato alla grafite alla fine del trattino.    

Lascia la carriola a pochi centimetri dal tavolo, indossa un paio di guanti che credo essere eterni, che negli anni si sono scoloriti solo ai bordi ma sono rimasti intatti nella forma. Il primo gesto è sempre uguale: solleva di pochissimo la pietra e accenna un minuscolo sobbalzo, come un macellaio che afferra un pezzo di carne per valutarne il peso senza l’uso della bilancia. Annuisce, indietreggia e la osserva con le mani sui fianchi. Arriva infine lo slancio, un movimento deciso – il bacino si ruota, le braccia trovano la propria angolazione, i muscoli del collo iniziano a lievitare – e il masso passa sul tavolo, fermo e imponente, a essere per l’ultima volta una pietra e basta, a diventare un prolungamento di papà, che stira la schiena e mi cerca: si sfrega i palmi, mi sorride, io ricambio e mi sposto un po’ più indietro sul tavolo, stendo braccia e gambe, a dirgli dai inizia, io resto qui, ti guardo.

Gira attorno al tavolo, gli occhi diventano a fessura e più rughe gli si formano sulla fronte, più la scultura è difficile da immaginare. Le dita sono adesso strumenti di calcolo, i polpastrelli un’unità di misura. Prima di prendere gli attrezzi comincia ad abituare il corpo, scricchiola le vertebre della schiena se prevede di restare chino per molto tempo; agita le mani se bisogna lavorare di fino; massaggia i gomiti se il primo passo consiste in un colpo secco con il martello più pesante. Alla prima pausa corrisponde anche un lungo sospiro, a volte un sorso d’acqua. Si volta, mi trova immobile.

Prima si traccia, poi si scolpisce. 

E io la capisco, la lingua in cui sta parlando. Non sempre, non tutto. Come un genitore di diversa nazionalità che ti cresce con parole straniere. Le impari, assegni un significato a ogni termine, sai distinguere una domanda da una negazione.

Annuisco, allora, comprendo, gli sto rispondendo nella sua lingua madre.   

Mi fa un cenno con le dita che significa avvicinati. Lo raggiungo, punta l’indice su un pezzo un po’ più acuminato. È il naso, inizia da qui. 

Queste sono le frasi complesse, invece, quelle con una sintassi ancora sconosciuta, quelle che puoi riuscire a capire – forse – solo dal contesto. Gli dico, sì, lo vedo. Ma in realtà gli sto rispondendo con un costrutto che ho imparato a memoria, provo a restituire il senso usando solo parole che conosco, senza davvero centrare il punto.

Fa così, papà. Inizia da dove la pietra si rivela. Una venatura leggermente più incavata diventa una ruga da definire, un’estremità arrotondata è un orecchio, la parte inferiore troppo scanalata sarà una barba. E quando me lo fa notare io provo a tradurre, a stento, e resto ad ascoltare coniugazioni che vorrei saper padroneggiare, ma che non appartengono al mio dizionario. Non lo vedo, il naso da cui inizia la pietra.

A fine agosto, a volte, sembra che la campagna decida irrequieta di cambiare forma: le nuvole diventano modellabili, plastiche, e si dilatano come a pretendere più spazio possibile, fino a coprire le punte dei tetti del paese sul pendio, amputando la chiesa del suo campanile. I campi alle spalle di papà iniziano a farsi prepotenti, con le foglie di fico che assecondano il vento e la polvere che sale dalla terra in mezzo ai filari del vigneto, lui studia prima il cielo, poi si volta verso di me, tanto non piove, sentenzia. Torno a sedermi sul grosso tavolo sotto la grondaia, continuo a osservare i pezzi che schizzano via dal masso. Mi appiccico le gambe al petto e appoggio il mento su un ginocchio, mi dondolo un po’.  

Guardo papà e penso che se le persone si potessero spostare come si fa con i gatti, acchiappandole dalla collottola, per poi sistemarle in un posto ben preciso, quello di mio padre non potrebbe che essere questo. Penso a tutte le camicie con tutte le maniche arrotolate fino ai gomiti mentre impastava la calce per il pavimento su cui adesso appoggia gli scarponi, alle vene dell’avambraccio che si ingrossavano a ogni mattone sollevato e sistemato attorno alla fontana, alla bolla della livella che cercava il suo equilibrio lungo il bordo delle colonne.   

Papà si ferma e si passa una mano sulla nuca, poi strofina il palmo sui pantaloni. Va a bere dalla fontana e si bagna la testa, arriva da me tutto acciaccato, scrocchia le dita facendo pressione sulle nocche. Mi tamburella l’indice sulla fronte, lascia un po’ d’acqua che decido di non asciugare, che tieni qua dentro? Io mi libero dalla posizione a guscio, alzo le spalle a rispondergli niente, si siede sul tavolo tirandosi su con le braccia e si sistema accanto a me. Trotterella da noi un gatto di qualche mese a cui non abbiamo ancora dato un nome, si arrampica prima sulla panca, poi dilata le pupille e si piega per valutare lo slancio necessario a passare sul tavolo, salta e si guarda attorno, come a voler essere sicuro di avercela fatta. Papà lo afferra con una mano sola, se lo porta davanti al volto e lo agita un po’, come si fa con un pacco di biscotti per capire se ce n’è ancora qualcuno all’interno. Poi se lo appoggia sulla pancia e gli fa segno con la testa indicando me, che tiene là dentro?

Resto in silenzio e sollevo la zampa del gattino con un dito: la misuro, è lunga un polpastrello e mezzo. La verità è che mi domando da dove ha iniziato, con me. Come ha deciso il punto in cui tracciare, quando ha stabilito il momento giusto per scolpire. Se gli ho mai fatto venire voglia di prendere martello e scalpello per aggiustarmi, se ha mai pensato di volermi raddrizzare come un muretto. Se si è mai fermato a studiarmi da lontano, a contare gli attrezzi e a rendersi conto che gliene mancava qualcuno, se a metà lavoro ha scosso la testa e stretto le labbra perché no, non era esattamente così il progetto iniziale.

Mi lascia il gattino sulle gambe e torna a scolpire. Blocco il corpicino prima che scappi via, sento le costole minuscole e compatte dentro il mio palmo. Me lo porto al petto e gli pulisco l’umido dagli occhi, riesce a sgusciare via per metà e gioca con la punta dei miei capelli. Le prime volte che papà mi appoggiava dei cuccioli in braccio non riuscivo a tenerli in una sola mano: io li sorreggevo con entrambe, lui li copriva, e loro se ne stavano accucciati come in un panino caldo e morbido. Piano, mi diceva quando li riappoggiavo accanto alla madre. Avevano il cordone ombelicale attaccato alla pancia gonfia, lungo e duro come un filo di canapa, li guardavo trascinarsi con le zampe ancora senza forza per trovare la mammella prima dei loro fratelli, ce n’era sempre uno più piccolo degli altri che si faceva sopraffare. Papà allora li teneva tutti fermi, mentre io facevo mangiare il più magro da solo prima che arrivassero gli altri a dargli fastidio. La zampa premeva contro la mammella per spingere fuori il latte e io la osservavo in quel movimento lento e innocente e mi sembrava che stessimo facendo la cosa più importante del mondo, io e papà, in ginocchio accanto al cartone del latte in cui la gatta aveva deciso di partorire.

Papà mi chiama, vieni qua, dice. Lascio andare il piccolo senza nome che scappa a immedesimarsi nell’erba. Appoggia martello e scalpello, mi afferra il braccio e mi sposta di pochissimo. Rovescia sulla pietra un’intera bottiglietta d’acqua, da bianca e opaca diventa lucidissima, si palesa, qualcosa come uno strato di pelle tolto a esporre i muscoli, le gradazioni di rosso, il movimento agitato del tessuto vivo. Raccolgo con le dita un po’ di poltiglia che l’acqua ha creato con la polvere, ci gioco spalmandomela tra i polpastrelli.

Lo vedi adesso il naso? 

Provo a tradurre.  

Si sente in lontananza il suono dei campanacci attaccati ai colli delle mucche, l’aria inizia a pungere la pelle, le mele più precoci cadono dai rami, e più si rafforza il freddo, più la campagna lo combatte e si fa testarda, facendo evaporare dalla terra il caldo che ha assorbito durante tutta la giornata. Arriva odore di erba e fertilizzante, i campi trasudano, si lasciano andare. Papà si srotola le maniche della camicia, capisco che per oggi ha finito. Ha il viso ricoperto da un sottilissimo strato di polvere, riesco a riconoscere la forma perfetta degli occhiali protettivi da lavoro: l’unico punto della faccia con ancora il suo colore vero. Lo vedi?Mi ripete. Indica il masso. È il naso, inizia da qui.Stavolta riesco a riconoscere una forma appena accennata, ma no, non lo vedo veramente il naso da cui inizia la pietra. Non riesco davvero a rispondergli nella sua lingua madre.

Guardo papà. Il sudore sferico sulla fronte, nuove macchie sulle tempie, i capelli sbiaditi sopra le orecchie, il bordo inumidito della camicia, sempre la stessa, con il colletto consumato sulle punte, le rughe stanche, quel modo di starsene fermo davanti alla scultura, a studiarne il potenziale, a mettere in fila nella testa gli strumenti che gli serviranno la mattina dopo, e l’espressione che ha quando ha già capito cosa verrà fuori, dalla pietra che ha davanti.    Lui, invece, lo vedo. E se vedo lui, vedo da dove inizio io.      


↔ In alto: foto mojtaba mosayebzadeh / Unsplash.

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