Skip to main content

Aspetti del romanzo è il sedimentato e la rielaborazione di un ciclo di conferenze che Edward Morgan Forster ha tenuto presso il Trinity College di Cambridge nel 1927. Il terzo capitolo prende avvio da una notarella puntigliosa riguardante il motivo per il quale è stata preferita la dicitura «persone» a un più ecumenico e giudizioso «personaggi». Eccola.

«Poiché gli attori di una storia sono in genere esseri umani, mi è sembrato opportuno intitolare «persone» questa conferenza. Altri animali sono stati proposti come personaggi, ma con scarso successo: troppo poco sappiamo oggi della loro psicologia. In questo campo potrebbe esserci, e probabilmente ci sarà, un mutamento paragonabile al mutamento subito dal modo in cui in passato si rappresentavano i selvaggi. L’abisso che separa Venerdì da Batouala può essere paragonato a quello che separerà tra duecento anni i lupi di Kipling dai loro discendenti letterari, quando avremo animali che non saranno né simboli né piccoli uomini camuffati, né sembreranno tavoli a quattro zampe in movimento, o frammenti di carta colorata in volo. Questa è una delle maniere in cui la scienza può ampliare l’orizzonte del romanzo, fornendogli nuovi argomenti».
(Aspetti del romanzo, pagina 57)

L’asse portante del brano è la connessione che Forster stabilisce tra la disponibilità di una vasta e minuziosa psicologia degli animali e l’utilizzo efficace di gatti, cani, stalloni, gazze ladre e pesci rossi come attori di un romanzo o di un racconto. Poiché allo stato attuale la letteratura non può fare assegnamento su questa disponibilità (colpa delle scienze cognitive, a quanto pare) bestie e bestiole mancano di un dispositivo interno che sia in grado di convertirle in autentici personaggi. A puntello di questa tesi va aggiunto che il secondo capitolo di Aspetti del romanzo si era già impiccato all’idea per la quale i personaggi sono tali in quanto custodiscono una vita nascosta – livore, paura, ambizione, tormento, autocritica, desiderio, condanna, opinione – che per analogia con le loro controparti umane dovrebbe rimanere ignota e inattingibile, ma che invece si fa luminosa e pubblica nel momento in cui lo scrittore scrive e il lettore legge. Quest’immensa visibilità non ha neppure l’obbligo di essere effettiva: il gusto o le necessità drammatiche possono suggerire all’autore riserbo, opacità o addirittura la finzione di una totale ignoranza nei confronti della vita nascosta dei personaggi, ma ciò che tiene in equilibrio l’assioma di Forster è la presunzione che financo il più omertoso degli scrittori può conoscere ogni dettaglio di queste vite per la semplice ragione che è lui stesso ad averle create, e lo ha fatto in accordo a ciò che comprende della propria psicologia (molto) e della psicologia dei suoi lettori (abbastanza). Il livello di comprensione che qualunque uomo può sbandierare di fronte alla psicologia animale è zero, dunque un personaggio che sia e rimanga intimamente gatto, cane, stallone, gazza ladra o pesce rosso decade in un’impossibilità concettuale.                

Dentro un quadro siffatto le uniche maniere di impiegare un animale in narrativa restano le chiavi metaforico-allegoriche, pseudoantropomorfe, gregarie e sceniche. Quattro declinazioni che a prima vista sembrano catturare senza residui l’andazzo galoppante della letteratura e che Forster – genio affabulatorio e strizzatina d’occhio – ha gioco facile a universalizzare: lo scarafaggio Gregor Samsa di Kafka, il cane Pallino di Bulgakov e l’intera fattoria di Orwell, pur miscelando le componenti secondo percentuali diverse, funzionano sia da simboli che da uomini camuffati; il cavallo Ronzinante e l’asino Rucio di Cervantes, la tigre Dharma di Salgari e l’elefante Salomone di Saramago forniscono i tavoli a quattro zampe in movimento; nugoli di farfalle, leoni marini sbracati su un lastrone di ghiaccio, scimpanzé che si dondolano dagli alberi, uccelli cinguettanti, infestazioni d’insetti più o meno vomitevoli e l’intero apparato teatrale che mobilita comparse solo per inquadrare l’esotismo geografico e infiocchettare la ribalta dovrebbero essere i frammenti di carta colorata in volo.

Tuttavia – e qui passo dall’agiografia al martello – Forster rischia di praticare un’amputazione eccessivamente drastica nel corpo della letteratura quando impedisce agli animali di accreditarsi come personaggi nella misura in cui sbarrano l’accesso alla loro psicologia. La trasparenza e la comprensibilità della vita nascosta sono davvero criteri stringenti per il conferimento del ruolo di personaggio a gatti, cani, stalloni, gazze ladre e pesci rossi? È una legge invalicabile del romanzo e del racconto che queste e altre bestiole possano servire unicamente da decorazioni o maschere o stolide cavalcature finché l’epistemologia non ci donerà una teoria adeguata? Mi sbilancerei verso un perentorio no, e a titolo di argomentazione e controesempio introduco due animali che Forster conosce bene ma che occhieggerà con sospetto: la balena bianca di Melville e il gatto nero di Poe.                

Innanzitutto è opportuno verificare che lo schema quadripartito di Forster non li ingabbi completamente in una o più delle sue voliere. Moby Dick e Plutone (questo l’infero nome del micio) sono frammenti di carta colorata in volo? Affatto: godono di una marcata persistenza durante la narrazione e sono in grado d’impattare sulla vicenda e di modificare destini. Sono tavoli a quattro zampe in movimento? Tolta l’incongruità del termine “zampa” in riferimento a una balena, nessuno li utilizza come portantine o carri merci o guéridon per lampade. Sono uomini camuffati? Lettura assai deviante: né il cetaceo né il felino cova alcuna metafora sociale, né flusso di coscienza, né briciolame antropologico, né parvenza di linguaggio. Sono dunque simboli? Senza dubbio. A seconda delle preferenze critiche Moby Dick è ora il Male, ora la Natura, ora l’Ossessione, ora l’Avversario. Il corpo bianco e salmastro di concetti astratti ed enormi. A questo livello supremo bisogna aggiungere la quota di simbologia interna: la baleneria ha una confidenza speciale con la demogorgone, con il kraken, con lo zaratan, con il Giona biblico, con il Leviatano. Parimenti il gatto nero è un concentrato di dicerie nefaste legate alla sapienza cattolica e contadina (sfortuna, ambiguità, predestinazione, filiazioni demoniache) e un travestimento allegorico maggiore che pertiene alla letteratura (il Dio dei Morti, il Vizio, le Erinni, la Follia).

Se il riduzionismo propalato da Forster è corretto, distruggere l’impalcatura simbolica di Moby Dick e di Plutone dovrebbe significare ucciderli, o perlomeno estinguere in loro qualsiasi funzione narrativa. Gatto e balena non raccontano alcuna vita nascosta (perlomeno nessuna che sia comprensibile a un uditorio umano) e dunque se non possono essere simboli dopo aver mancato di essere uomini camuffati e tavoli a quattro zampe in movimento e frammenti di carta colorata in volo non possono essere niente. Con buona pace di Forster qualcosa di Moby Dick e Plutone sopravvive a questo tenace lavoro di asciugatura e smembramento, ed è proprio il loro essere animali. Organismi diversi dall’uomo. Mammiferi appartenenti a classi e ordini diseguali. Forme di vita che corrono in parallelo e in alternativa rispetto alla nostra. Brecce nella presunta continuità esperienziale del mondo. Entrambi si comportano come farebbe qualsiasi altro esemplare della loro specie – il gatto zampetta rasente ai muri, s’accoccola nell’ombra di una vineria, morde il braccio che tenta di afferrarlo, borboglia le sue fusa, svicola tra le gambe del padrone mentre scende in cantina; la balena persegue le sue millenarie e indecifrabili rotte migratorie, colossale emerge all’orizzonte, stantuffa acqua dal dorso, cerca di evitare la fiocina e l’arpione, abbatte navi – e senza alcun bisogno di acrobazie o miracoli o trasfigurazioni rimangono, inequivocabilmente, personaggi all’interno delle storie che li muovono.

Se un Forster piccatissimo e redivivo mi domandasse quale proprietà conferisce loro lo status di personaggi, risponderei (con una fin troppo consapevole quota di acerbità e dilettantismo) che si tratta di qualcosa che mischia la volontà con il possesso di un grado minimo d’incidenza sui fatti. Il vaso omicida che cade dal quinto piano, la malattia diagnosticata troppo tardi o l’eruzione vulcanica soddisfano il requisito del grado minimo d’incidenza sui fatti, ma non diventano personaggi in quanto mancano del requisito della volontà. Un cameriere che agli innamorati suggerisce il bordeaux in un paragrafo romantico, una donna che sbraita al cellulare e urta il protagonista sulle strisce pedonali o un artigliere imbranato che occupa mezza riga di una novella ambientata a Dunkirk soddisfano il requisito della volontà (se non esibita, perlomeno deducibile sulla scorta del principio forsteriano in base al quale inventare significa conoscere), ma non diventano personaggi in quanto mancano del requisito dell’incidenza minima sui fatti. 

Da parte sua Moby Dick assilla Achab e frantuma tre navi. Plutone inquieta il marito e lo fa ruzzolare dai gradini. Tutti e due premono sulle vicende umane (le alterano, le sviano, le interrompono) in una maniera assai diversa dalla terracotta che precipita dal balcone o dalla sepsi o dalla catastrofe geologica. Ostentano un desiderio, una singolarità, un marchio d’esistenza, un qualche genere di ricalibrazione che si accorda all’uomo e alla sua condotta predatoria. Sono capaci di discrezionalità, abitudini, legami, strategie, appetiti, percettività e orrori di cui la lingua non saprebbe delineare la fenomenologia né circostanziare la marca psicologica, ma che nondimeno traspaiono dai loro comportamenti e li staccano dal novero degli oggetti inanimati. Pur senza voce né idioma ci vengono incontro (o ci piombano addosso) per dire: «Siamo qui; e siamo altro».

Questo scisma gnoseologico e comunicativo che li tiene separati da noi – la funzione di limite che guadagnano nel momento in cui agiscono tra gli uomini senza poter essere compresi, l’impossibilità ultima di rendere ragione – è precisamente il difetto o l’anomalia che Aspetti del romanzo eleva a pretesto per destituire gli animali dallo status di personaggi. Forster non si accontenta del binomio volontà+grado minimo d’incidenza sui fatti. Avverte la necessità di rilanciare, di appesantire la prima condizione con una pletora di attributi esosi: la volontà ingigantisce, prende il nome di vita nascosta e si forza a essere penetrabile, nitida, familiare.

Tuttavia non avrebbe senso interrogare Moby Dick a proposito delle finalità e dei moventi, chiedere a Plutone di giustificarsi, trattare l’una e l’altro come volontà riconducibili ad archetipi umani. Non risponderanno. Arretratezza scientifica e il difetto di un linguaggio comune sono attenuanti palliative: la balena bianca e il gatto nero non risponderanno perché abitano una dimensione (etologica e ontologica a un tempo) nella quale il fatto di dover rendere conto di se stessi in termini narrativi non possiede alcuna semantica, alcun referente verso cui indirizzarsi. I due animali agiscono le proprie volontà in modi assai incomparabili rispetto al nostro: forse liberi dalla catena temporale, con molta probabilità svincolati dall’autopercezione, sicuramente ignari della colpa e dell’obbligo.                 

Giudicata da una simile prospettiva la catilinaria di Aspetti del romanzo si qualifica come un malinteso che reputa occasionale (e quindi scavalcabile) un’impotenza gnoseologica che in verità è strutturale (e quindi imperitura). Al fine di allargare il consesso dei personaggi plausibili non c’è bisogno di attendere fiduciosi che il progresso della scienza o l’evoluzione della filosofia disserrino le vite nascoste degli animali, perché le vite nascoste degli animali, se esistono, rimarranno acquisizioni proibite alla nostra sensibilità e al nostro intendimento. La difformità categoriale tra Achab e la balena non è una contingenza storica che verrà obliata dalla fenomenologia del ventiquattresimo secolo o dalle neurosimulazioni più avveniristiche. Rappresenta, piuttosto, la cifra dell’umanità nella misura in cui non può – non ne è capace, non gli è per-messo – uscire dai propri schemi e dalle proprie categorie per abbracciare un fenomeno così divergente. Perché essere la volontà di un uomo significa (e qui un artificio tipografico dovrebbe caricare il “significa” di una logica fatale) non poter es-sere né comprendere la volontà di una bestia.

Per il bene della letteratura Forster proponeva di considerare l’alterità degli animali un buco nero, una materia illavorabile, una zona d’esclusione. Sarebbe giunto un tempo nuovo nel quale gli scrittori avrebbero imparato ad addomesticare la differenza trasformandola in omogeneità e parentela. Se il criterio bicorne di volontà+grado minimo d’incidenza sui fatti è esportabile all’interno di una simile dottrina, la prima clausola può venire soddisfatta in due modi: o aggravandola con una richiesta di limpidezza e accessibilità che si rimette agli esiti futuri delle scienze cognitive (ma l’errore di sistema denunciato poco sopra renderebbe l’attesa una procrastinazione fallimentare); o accartocciandola in qualcosa di paraumano (e allora gli animali cesserebbero di essere animali per diventare l’idea semplificata e grottesca che un uomo s’è fabbricato circa l’esse-re gatto, cane, stallone, gazza ladra o pesce rosso).
Moby Dick e Plutone, se avvicinati e accolti come nient’altro che animali, dimostrano invece che il principio di volon-tà+grado minimo d’incidenza sui fatti opera efficientemente già nella sua tenuta liberale e spoglia di aggettivazioni troppo draconiane. Balena e gatto nero manomettono di prepotenza le sorti di parecchi uomini, e lo fanno con quell’amalgama di di-scernimento e intenzione che sono i barbagli di una volontà retrostante. L’ovvia circostanza per cui a scrittori e lettori non è permesso dettagliare alcunché di una simile volontà non abolisce lo status di personaggio nell’animale che la manifesta: alla clausola volontà è richiesto unicamente di sussistere, non di fornire patenti e coordinate e ragguagli come vorrebbe Forster quando la drammatizza chiamandola vita nascosta. Melville e Poe dovevano saperlo benissimo (e circa ottant’anni prima che Aspetti del romanzo sventolasse la sua burbera tesi) per decidere che un cetaceo e un felino avevano ogni diritto di essere personaggi e non soltanto simboli, né uomini camuffati, né tavoli a quattro zampe in movimento, né frammenti di carta colorata in volo. Come spesso accade, la refutazione di un improvvido catechismo letterario era già acquattata nelle pieghe di una manciata di libri.


↔ In alto: illustrazione © Valentina Scalzo. Per gentile concessione.

15 Comments

Leave a Reply