Non so cosa accade senza umani, ma appena gli umani compaiono, tutto sembra cominciare a muoversi
Andreij Tarkovskij, Stalker
Dov’è oggi la frontiera? Quel luogo che non è mai stato solo spazio fisico, ma limite necessario e anche simbolico, mentale, che assume in sé l’ambizione del proprio superamento. Frontiera come luogo ultimo che accoglie la soglia e le cede il passo. Geograficamente annichilita dalla fede nella globalizzazione, la frontiera vista come oggetto inutile in un mondo dove il dio del progresso stabilisce che nulla possa più essere irraggiungibile da ciascuno. Nulla possa più essere vietato. È la pretesa di onnipotenza del turista, incapace di accettare divieti e luoghi inarrivabili – nemmeno lo spazio, «ultima frontiera» –, e radicato nell’esigenza di un mondo senza segreti in virtù del denaro speso.
L’unico senso in cui la frontiera sopravvive nel discorso comunitario è nel suo scivolamento in un significato disperato e feroce: i rigurgiti populisti riflettono soltanto il terrore dell’altro, e l’ambita frontiera invalicabile perde completamente il suo scopo più profondo, quello di ponte, soglia – non porta-muro-confine 1 La soglia deve essere distinta molto nettamente dal confine. La soglia [Schwelle] è una zona. Nella parola «schwellen» [gonfiarsi] sono compresi mutamento, passaggio, maree, significati che l’etimologia non deve lasciarsi sfuggire. – da Walter Benjamin, Parigi, capitale del XIX secolo, 2014, Temperino Rosso. – tra il conosciuto e l’inconoscibile. Ogni cultura, ogni civiltà, persino ogni individuo basa la propria identità su una frontiera, sul confine certo tra sé e gli altri, e ogni cultura, civiltà, individuo crescono solo relazionandosi con essa. La città esiste solo nel suo confinare con il bosco, in quel terzo paesaggio che costituisce la fascia di frontiera; la sua esistenza e la sua prosperità si attuano soltanto in relazione a ciò che sta fuori, al mantenimento dell’equilibrio che quella fascia esige. Fanno sorridere le esternazioni di stupore e condanna per i recenti avvistamenti di cinghiali a Roma nelle aree urbane (percepiti come vera e propria invasione): nella nostra visione del mondo, la frontiera non ha posto; ciò che non è noi non deve essere, e se mai si ostinasse a esistere, allora deve essere distrutto.
Sembra che la frontiera sia stata espulsa dall’uomo postcontemporaneo per l’inammissibile terrore di ciò che giace al di là di essa. In una società – quella occidentale – che ha riposto la propria fede nelle neuroscienze, nell’epistemologia come ontologia assoluta (senza valutare quanto lo stesso concetto di «fede nella scienza» scardini alla base qualunque struttura scientifica), l’idea di qualcosa di esplorabile ma non conoscibile è estranea, fallace. Orrorifica.
Ed è proprio nella sua dimensione orrorifica che allora la necessità di un limite, una frontiera, prende forma. Il fantastico diventa l’unica maniera per ritrovare una porzione di mondo inesplorata; ma questo fantastico, ponendo un limite inaccettabile per il mondo contemporaneo, diventa mostruoso, terrificante.
Già tra gli anni ’70 e ’80, nell’ultimo decennio di Guerra Fredda, è fondamentale il significato – in parte politico-sociale, ma perlopiù esistenziale, psicologico e filosofico – che si porta dietro un’opera come Stalker di Andreij Tarkovskij. Siamo dall’altra parte della Cortina di Ferro, ma l’esplorazione dello spazio è un po’ il fulcro della frontiera, sia politica che scientifica. Ecco quindi che da oltre la frontiera spaziale proviene un nuovo mondo, che intacca e deforma il nostro. Un mondo che non è più governato dalle leggi dell’esistente: la Zona stabilisce inequivocabilmente un’estraneità. È un’estraneità esplorabile, certo, ma le sue regole misteriose, l’impossibilità totale per l’uomo di comprenderla, la pongono simbolicamente come necessario veicolo d’inconosciuto. Necessario, perché solo dentro la Zona il mondo riacquista colore, e i desideri possono avverarsi. Con il bianco e nero, Tarkovskij sembra sottolineare il dramma di una realtà che ha perso le frontiere, che abbraccia e ingloba ogni cosa e che assottiglia il mondo fino a fargli perdere di significato. E non è un caso che lo stalker si senta a casa solo nella Zona, come non lo è che le due figure che lo accompagnano – scienza e arte, quest’ultima nel suo aspetto più mondano –, essendo profondamente legate al mondo fuori, non possano accettare quello che la Zona rappresenta.
Discorso simile si può fare per Watchmen di Alan Moore (2009, Planeta DeAgostini). La frontiera dello spazio è il luogo da cui sembrerà provenire la minaccia che mette fine alla Guerra Fredda. L’unione degli uomini si deve soltanto alla creazione di uno spazio oltre – simbolico e fintamente fisico –, uno spazio che delimita una minaccia inconosciuta (e inconoscibile, perché finta, artefatta). È significativo che la versione cinematografica di Watchmen abbia sostituito la minaccia esterna, spaziale, aliena, con il capriccio di un mostro scientifico onnipotente. Oggi, anche la frontiera spaziale ha capitolato.
Da questi esempi viene da pensare che l’uomo contemporaneo abbia trovato la chiave della frontiera nel fantastico. Ma il fantastico – l’irreale – mantiene la sua funzione solo nel momento in cui assume un valore simbolico. Se l’irreale prova ad assumere un significato letterale si svuota, perde i contenuti: da narrazione diventa informazione. Ecco allora che l’annuncio della piattaforma Meta mostra un terrore profondo della frontiera, una fame insaziabile di oggettivazione che punta a impossessarsi anche dell’irreale. La rete si mostra nel suo tentativo di a-soggettivare l’uomo e il mondo, riducendoli in ultima istanza a una serie di dati. E il mostro creato dalla fusione di ontologia ed epistemologia può prendere corpo soltanto in una irrealtà fenomenica, dotata delle stesse qualità sensibili del reale: una metarealtà.
Se davvero la mancanza di una frontiera – di un ponte verso l’inconoscibile, e dello stesso spazio inconoscibile – porta alla perdita del senso proprio delle cose, viene da chiedersi se questo svuotamento di significati che si opera a ogni livello non sia sintomo di un morbo più profondo. L’insensato (inteso come privo di significato) è specchio necessario del sensato (inteso, all’opposto, come pregno di significato)? Secondo l’OMS, la depressione – in costante aumento negli ultimi decenni – è la seconda malattia più diffusa al mondo. Certo, non si può ridurre un tema così complesso a un’unica causa, e non è certo questa l’intenzione del presente articolo; è opportuno però sottolineare il modo in cui, per la natura stessa della depressione, viene da pensare che lo svuotamento di significato sia uno dei problemi più impellenti e tragici della società degli anni 2000.
La depressione, inoltre, non è solo segno di malessere, ma anche spia del luogo in cui, in ultima istanza, avviene l’ultimo attacco alla frontiera. Se i pionieri del nuovo millennio hanno abbattuto le frontiere di spazio e irreale, il diffuso disagio mentale sembra rivelare il più che parziale fallimento di un approccio psichiatrico basato su neuroscienze e psicofarmaci. La frontiera oggi sembra slittata nell’interiorità, non più come limite di un mondo alieno, ma come necessario e infinito scavare in ciò che non possiamo arrivare ad afferrare completamente (e sana logica vorrebbe che questa prospettiva venisse portata anche all’esterno).
Nel romanzo Vorrh di Brian Catling (edito in Italia nel 2021 da Safarà) si presenta una frontiera diversa da quelle viste finora. Il Vorrh è una foresta che sta da qualche parte in Africa. Insondata, estranea; al centro si dice vi sia un giardino in cui cammina Dio.
È eco della Zona di Tarkovskij ma, a differenza di questa, non è aliena, non viene dallo spazio; la foresta è nel nostro mondo da sempre, dall’alba dei tempi, e per quanto si provi a rivelarne i segreti, ad analizzare, catalogare e riprodurre i suoi angeli e le sue regole attraverso macchine e ferro, il cuore del Vorrh rimarrà sempre sfuggente. Passarvi troppo tempo, o spingervisi troppo in profondità, fa perdere memoria e umanità. E l’inconosciuto si sposta oltre il piano puramente narrativo. Perché, anche se l’autore ha scritto un seguito, il romanzo può essere considerato autoconclusivo. La maggior parte delle storie raccontate non si disvela, rimane monca, senza un’apparente logica né una voce onnisciente e risolutivache risponda alle nostre domande. Non esiste quindi un filo che possa permetterci di collegare tutto; possiamo intuire, vagamente, sprazzi di luce, oscurità e meraviglia, ma nel momento in cui proviamo a racchiudere il mondo e le sue regole nel nostro pugno, c’è sempre qualcosa che sfugge tra le dita.
Se le storie raccontate nel romanzo mostrano perlopiù il fallimento di penetrare i segreti del Vorrh, l’unico personaggio che riesce ad attraversarlo due volte è l’Arciere, Unodeiwilliams. La sua storia – forse la più riuscita narrativamente – è imbevuta di senso d’arcaico, nuda di curiosità, di ragionamento; la sua non è fiducia nel Vorrh e in ciò che rappresenta, ma piena fede. È un uomo vuoto di tutto – persino di sé – riempito soltanto dal Vorrh.
La foresta diventa simbolo di un’interiorità che da sempre ci accompagna. Non possiamo conoscerla senza perdere la nostra umanità, quei ricordi che permettono di definire noi stessi e ciò che ci circonda. Dio è irraggiungibile dal nostro desiderio, dalla nostra curiosità. Ci si offre solo nel momento in cui accettiamo la perdita di noi stessi, di quell’intelletto che ci rende individui. Nelle parole di Weil: Non possediamo nulla al mondo perché il caso può toglierci tutto eccetto il potere di dire Io. Quel che bisogna dare a Dio, cioè distruggere, è questo. Non c’è assolutamente nessun altro atto libero che ci sia permesso, eccetto la distruzione dell’Io. 2 Simone Weil, L’ombra e la grazia, 2021,Edizioni di Comunità
È una dimensione che disconosce la capacità del sapere di penetrare profondamente nel reale. Una dimensione che stabilisce definitivamente una frontiera interiore che separa l’io da ciò che, pur esistendo, non può essere concepito.
Nel manga Made in Abyss (Akihito Tsukushi, 2018-in corso, Edizioni BD) è messa in scena una variante della stessa frontiera rappresentata dal Vorrh. In mezzo all’oceano c’è un’isola con al centro un abisso del quale nessuno ha mai esplorato le profondità. Per curiosità o sete di gloria gli uomini si avventurano al suo interno, in cerca di manufatti o provando ad allargare la propria conoscenza. Ma risalire ha un prezzo, una maledizione, un velo sottile e invisibile che si appoggia sulla testa, sempre più pesante man mano che si scende, e che quando si strappa nel tentativo di risalire causa malesseri, mutazioni, allucinazioni, morte.
La protagonista si avventura insieme a un bambino sintetico – immune alla maledizione proprio per la sua natura: come la Zona, l’Abisso in qualche modo acquista natura mostruosa solo alla presenza dell’uomo – alla ricerca della madre, che l’attende da qualche parte nel profondo. Il parallelismo simbolico è forte; l’Abisso come principio materno, cavità rocciosa, femminea. Sul fondo, un segreto; sul fondo, la verità; ma non vi è alcun ritorno una volta che la si riuscisse ad afferrare (quasi richiamo al sibillino facilis descensus Averno […] sed revocare gradum […] hic opus, hic labor est). Di nuovo: per arrivare a Dio bisogna abbandonare il proprio io sociale, terreno, spogliarsi dei desideri – se non quello di annullarsi per poterGlisi avvicinare.
A rendere più complesso l’intreccio di simbolismi, notiamo che più si scende nell’Abisso e più le creature che lo popolano acquistano tratti sessuali. Braccia che sono peni, curve e tagli che riprendono seni e vagine, è un’atmosfera che ritrova nella sessualità e nel generare – anche nei suoi tratti più triviali e corporei – la sua matrice ultima. Ma il fallicismo rimane comunque un passaggio verso il segreto, non il segreto stesso. Non essendo l’opera ancora terminata, è difficile tirare le somme; quello che si può notare è come ogni strato dell’Abisso sia un ponte che spinge l’uomo verso lo sconosciuto. Non solo sconosciuto: scendendo, il conoscibile si fa sempre più rarefatto, le istanze materiali e logiche sono piano piano sostituite dal simbolo, e soltanto l’isola di partenza è l’ultima soglia del pienamente conoscibile.
La pandemia di Covid-19 ha controintuitivamente accelerato il processo di sgretolamento della frontiera. Il venir meno da parte dei governi alle necessità umane che non fossero puramente economiche e sanitarie ha alzato il velo su ciò che la società odierna esige che siamo: uomo come «nuda vita» – per citare la formula usata da Agamben.
Ma l’uomo fatto di sola nuda vita è un uomo che non ha segreti, non ha Yin, né volto o soggettività; è uomo che in ultima istanza, non avendo io, non ha frontiera. È una riduzione ancora più drastica rispetto alla libertà weiliana; se in questa la distruzione dell’io è segno distinto di libertà – e accettazione di una frontiera invalicabile –, all’uomo di nuda vita la libertà non è data. L’uomo di nuda vita è un uomo incompleto proprio perché, mancando di senso della frontiera, della soglia, non può percepire nulla all’infuori o all’interno di sé. È uomo di pura pelle, capace di cogliere la sola vicinanza prossemica, ma incapace di spingersi verso una lontananza esteriore o interiore. L’uomo senza frontiera è un uomo senza aura.
A ben guardare, l’introduzione del Green Pass ha esacerbato ulteriormente la situazione. Al di là delle ragioni sociali, politiche ed economico-lavorative dei pro e contro Green Pass, questo strumento trasforma le frontiere relazionali e di comunicazione.
Tra me e l’altro non esiste più una frontiera, non vi è una soglia: si frappone invece un’app, un visto digitale che, alla stregua dei social, appiattisce l’identità al puro strato informativo, arrivando a uscire dai suoi margini ontologici e investendo i piani morale ed etico: il Green Pass in fin dei conti definisce la differenza tra i buoni e i cattivi. La soglia diventa porta, il ponte muro, la frontiera confine. Un’app che peraltro, come i recenti fatti sul Green Pass di Adolf Hitler hanno mostrato, non è difficile manipolare. Ma questa manipolabilità, questo facile inganno, unito equivocamente al piano morale, genera la sfiducia nell’altro.
Potremmo allora essere davvero tutti infetti, tutti untori più o meno consapevoli. Ma se si pone una sfiducia di base, allora l’altro non è più raggiungibile; è cattivo, è nemico, mostro. Va a rafforzarsi quel vuoto di frontiera, di soglia, aura e lontananza che annulla la percezione. La complessità dell’altro è ridotta al rigido binomio fazioso della fede nella nuda vita o della colpa. L’uomo ossessionato dalla nuda vita è un uomo ossessionato da un fantasma: in fin dei conti, questa visione trova riscontro nel solo strato informativo, che è giocoforza un’astrazione.
Lo spirito non è un terzo fra l’anima e il corpo: è soltanto la loro inerme, meravigliosa coincidenza. La vita biologica è un’astrazione ed è questa astrazione che si pretende di governare e curare. 3 Giorgio Agamben, Quando la casa brucia, 2021, Giometti & Antonello
La nuda vita conduce all’irrigidimento dettato dal dato, e al progressivo assottigliamento di una frontiera che svanisce. Ma una società che riduce relazioni e morale alla rigidità informativa, che traduce le frontiere con i confini – confondendo luoghi e non-luoghi –, è una società che non ha più forza narrativa, quindi incapace di mutare e maturare. È una società che rimane ordinatamente ad attendere la propria morte mentre la casa brucia.
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↔ In alto: foto Sidharth Shivshankar / Unsplash.
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