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Nel campo del mio vicino Azat s’è piantato un missile. Se ne sta così, a testa in giù, mezzo dentro mezzo fuori; sembra uno spaventapasseri, con quelle sei alette come altrettante braccia. Al villaggio siamo rimasti sbalorditi, e all’inizio abbiamo pensato a uno scherzo, a un’imitazione in cartone fatta con maestria. Qualcuno ha detto di aver sentito un sibilo fortissimo poco prima del ritrovamento, ma non gli abbiamo dato retta, perché qui intorno ci sono pastori che cacciano fischi da far sanguinare le orecchie; ma quando il sole è uscito dalle nuvole il missile ha cominciato a dare riflessi che solo il metallo può dare, tanto brillanti che doveva essere un metallo mai visto da queste parti. E così ci siamo rassegnati.
Questa disgrazia non ce l’aspettavamo proprio, perché non siamo in guerra con nessuno. È anche vero che qui le notizie arrivano con giorni di ritardo, quindi non possiamo escludere che siamo in guerra e non ci hanno ancora avvisati. Lo scopriremo presto, ma intanto ci siamo convinti che dev’essere il missile difettoso di una guerra vicina, lanciato da un mortaio altrettanto difettoso che l’ha mandato a sperdersi. Questo perché dall’altro lato della frontiera sono più poveri di noi, e non possono permettersi armi infallibili come gli americani.
Intanto il missile sta lì e Azat non può arare il campo per seminare i cavoli, perché vai a sapere se il vomere, solcando la terra, non genera un’onda che arriva fino al missile, gli solletica il naso e gli scatena uno starnuto che fa saltare in aria Azat, il bue, l’aratro, e forse anche le galline del pollaio là in fondo.
Sia come sia, non siamo gente da piangerci addosso: c’era un mercante che andava in città, così gli abbiamo chiesto di avvisare il prefetto per farci mandare un paio di soldati, ché quelli lo sanno bene, come sradicare un missile senza provocare una tragedia; è il loro mestiere, e a ciascuno il suo. Potrebbero volerci settimane, non lo nego, e se Azat non semina ora, i cavoli non cresceranno e la sua famiglia morirà di fame, e lui dice magari il missile esplodesse e gli mandasse all’aria il campo, risparmiandogli la fatica di arare, e un po’ lo capisco.
Noi del Consiglio, però, vogliamo fare le cose come Dio comanda, e in attesa dei soldati abbiamo deciso di vigilare il missile, perché i nostri campi abbondano di volpi, lepri e altre bestie, e se si avvicinano troppo potrebbero generare quello starnuto fatale di cui vi dicevo. Dei bambini non ci preoccupiamo perché, prima ancora di imparare a correre, apprendono a suon di botte che i campi non si calpestano, con o senza missili.
Se non fossimo poveri potremmo costruire una recinzione col filo spinato, ma poi chi si arrischierebbe a battere i pali nel terreno? Così facciamo i turni, appostati con un vecchio cannocchiale rimasto qui dall’ultima guerra, quando i nostri padri lo requisirono al cadavere di un tenente nemico.
Abbiamo chiesto anche ai più giovani di darci una mano, ma al secondo giorno li abbiamo esonerati, perché lasciavano il cannocchiale per andare a cogliere frutti o lo puntavano di qua e di là in cerca di ragazze. Li capisco, perché ai miei tempi, quando è toccato a me di averlo fra le mani, l’ho fatto anch’io; ed è stato guardandola da lontano scherzare con le amiche, ignara di avere i miei occhi addosso, che mi sono innamorato di mia moglie.
Per colpa del missile, sul villaggio è calato un silenzio mai sentito prima, se così si può dire. Perfino il prete, che in genere suona le campane a tutta forza per scovare quelli di noi più lontani e riluttanti al richiamo della fede, ora si limita a un paio di rintocchi mosci, e chi vuole sentire sente. Solo i pastori continuano coi loro schiamazzi, perché una pecorella smarrita, a loro, gli costerebbe molto più che al prete.
Vigilare il missile significa battere le mani quando vediamo avvicinarsi qualche bestia; non troppo forte, però, perché non si sa mai. Per ora ha funzionato. Di giorno, almeno. Di notte non possiamo fare nulla, se non pregare fino ad addormentarci. Ci diamo il cambio col prete, che prega mentre noi lavoriamo, ma a sera, con quello che beve, più di un Padre Nostro non riesce a biascicare.
Negli ultimi giorni il numero degli avvistamenti si è ridotto, come se questa calma improvvisa, quest’assenza di uomini avesse fatto fiutare alle bestie una trappola, o le avesse convinte che non c’è più nulla da razziare. Forse rimugino troppo e attribuisco a qualunque sciocchezza un significato sproporzionato, fatto sta che abbiamo tutti i nervi a fior di pelle, e durante il mio turno comincio ad avere le allucinazioni: a volte mi sembra che il missile si sia fatto più alto e robusto, altre volte che gli sia spuntata un’aletta nuova o che abbia cambiato colore, come un frutto che va maturando.
Ieri mattina quasi mi viene un infarto. Avevo un occhio incollato al cannocchiale e, prima di rendermene conto, un corvo atterra proprio sul culo del missile. D’istinto mi butto giù e mi copro la testa con le braccia per proteggermi dal botto, che però non arriva. Quando riprendo il cannocchiale, il corvo è ancora lì che si pulisce le sue stramaledette penne come se niente fosse, e addirittura va chiamando quelli della sua razza che volteggiavano da quelle parti. Allora mi è venuto da ridere, al pensiero che quello schifo di missile non serve nemmeno da spaventapasseri.
Questo pomeriggio, in Consiglio, abbiamo deciso che i tre vicini di Azat, me compreso, dovranno lasciargli coltivare un pezzetto delle loro terre. È una rogna per tutti, lui per primo, che deve sbattersi di qua e di là con gli attrezzi in spalla, ma alla fine è la cosa più giusta, e anch’io ho votato a favore. D’altra parte, il missile non era per lui: bastava che quel giorno soffiasse la tramontana e poteva finire nel mio campo, per dirne una
Un falegname – di cui non farò il nome – ha provato a insinuare che è toccato ad Azat perché ha qualche peccato da scontare, ma si tratta di un vecchio bigotto, uno che vede facce di santi e madonne in ogni venatura del legno, e per fortuna sono in pochi a dargli retta. A dirla tutta, poi, mi sembra blasfemo evocare la mano infallibile di Nostro Signore quando basta quella maldestra di un soldato a spiegare tutto.
Certe volte mi viene da pensare che ci stiamo ossessionando, che dovremmo fare come i corvi, come i giovani, come le donne che passano ridendo ai margini del campo, come la neve che stasera ha cominciato a cadere e ad accumularsi impassibile sul culo gelido del missile. Se davvero ce l’ha mandato Dio onnipotente, deve averlo fatto per prenderci in giro, per vederci passare le giornate attaccati a un vecchio cannocchiale come bambini che giocano ai soldati, per vedere i nostri occhi cerchiati di un ossido verdastro che non va via nemmeno col sapone.
Quando mi vengono questi pensieri durante il mio turno, arriva il momento in cui distolgo lo sguardo dal missile e vado a cercare il punto dove la strada incrocia la cima della collina, perché è da lì che verranno i soldati veri, quando verranno. Allora m’immagino di veder spuntare il camioncino verde mezzo scassato, che saltellando sparisce e riappare fra la polvere, e gli faccio volare via un cerchione e un parafango, e i tergicristalli prendono a oscillare a tutta forza, e penso al prete, e il clacson suona come una campana, e vorrei ridere e piangere insieme, e devo stropicciarmi gli occhi per rientrare in me. Oggi, però, quando ho puntato il cannocchiale sulla collina, la cresta era così vicina da poter immaginare di arrivarci con un passo; già che c’ero, mi sono incamminato giù per l’altro versante fino alla città, per scoprire da me se c’era o no la guerra, esultando alla notizia che siamo in pace. I rumori delle strade erano così allegri che mi sono fermato, ho trovato un lavoro qualunque e ho cominciato a pensare che potevo vendere la terra e quel tugurio di casa, e farmi raggiungere da mia moglie e mio figlio. Dopo il lavoro me ne andavo al bar e ordinavo un cognac. Bevevo un sorso, e con un occhio alla porta aspettavo che entrasse qualcuno a raccontarci com’era andata a finire la storia del missile, quello che s’era piantato nel campo di un uomo di nome Azat, nel villaggio di là dalla collina.

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↔ In alto: Nagorno-Karabakh, view from the Peak of Omar Mountain / foto di Vaghinak Vardanyan / Unsplash.

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