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In principio era l’albero. Dovrei dire: in principio era il seme, il frutto, il fiore e su su fino all’ameba e la monera. Mi sia consentito, però, di andare avanti veloce, e lasciatemi dire che in principio era l’albero. Snello, largo poco più di un piede di elefante, alto poco meno di una giraffa adolescente. I rami sottili. Si dirà come serpenti, ma non vorrei con questo evocare immagini gorgoniche e non me ne abbiano i serpenti che mi leggono se contribuisco a peggiorare la loro già non ottima fama. Foglie ancora verdi, radici salde ma un po’ impacciate e qualche cicatrice fresca di termite indecisa. Un albero giovane, insomma, con ancora tutta la primavera davanti.

Poi viene la sega. C’è un passero sul ramo più elevato, è alquanto irritato dal frastuono. Lo vediamo volare via, se ne va in Africa o alle Canarie o dove vanno i passeri quando sono infastiditi. Ecco il tronco, il piede d’elefante; adesso è per terra. È bene che non sia un vero elefante, si dirà, altrimenti il tonfo sarebbe così potente da convincere il passero di essere perseguitato, che davvero non lo si vuole lasciare in pace. Cosa resta del ceppo? È un’altra storia, coinvolge coltellini svizzeri che incidono cuori e, mesi dopo, li cancellano.

Il nostro tronco lo vediamo un po’ spaurito, su un camion, legato insieme a tanti altri piedi di elefante come lui. È possibile seguirlo solo fino alle porte della fabbrica. Lì, un omino coi baffi e la camicia abbottonata fino al collo mi dice che non si può entrare. Solo i parenti sono ammessi ed è chiaro che io e il giovane albero possiamo al più essere amici stretti. Un po’ nervoso, resto fuori dal cancello. Provo a scambiare due parole con l’omino: cerco di fargli dire che andrà tutto bene, ma quello non mi aiuta. Quanti ne ha visti, penso, di poveretti come me che aspettano fuori. Intanto dalle ciminiere esce del fumo. Dal colore, dall’odore e dall’impressione sulla pelle che il fumo mi lascia, intuisco che qualcuno lì dentro sta provando ad attizzare un barbecue con legna troppo fresca. Spero, guardando gli sbuffi della fabbrica confondersi con le nuvole, che tutti abbiano almeno abbastanza da mangiare.

Alla fine dell’operazione, il mio amico albero (la nostra amicizia è diventata un fatto assodato mentre aspettavo fuori e mi accorgevo di essere in pena per lui come solo un amico può essere) è irriconoscibile. Bianco, tutto arrotolato e liscissimo somiglia ora alla pancia di un’orca dopo una bella scorpacciata di pinguini e surfisti. Non mi piace, lo devo dire, il suo nuovo aspetto; lo preferivo prima, con corteccia per vestito e rami per capelli, ma cerco di non farglielo capire. Gli dico che sta bene, mi complimento per il candore, la liscezza e altre caratteristiche che suppongo potrebbero compiacerlo. Teso e tirato com’è, però, non riesce bene a sorridermi e sospetto che anche lui si preferisse prima.

Quindi viene la forma. L’idea venne, se non sbaglio, un milione di anni fa a un tale che fu incaricato dal faraone di selezionare una figura adatta per scriverci sopra. Quel tale provò prima di tutto il cerchio. Sappiamo gli antichi come sono fatti: avrebbero preferito un cerchio ben fatto alle loro stesse madri se solo avessero potuto scegliere. Venne fuori però che era confuso scrivere a spirale, giacché alcuni partivano dal centro verso il fuori e altri facevano il contrario e alcuni ancora si ostinavano a far stare ogni capitolo dentro uno spicchio. Il triangolo anche fu scartato, perché qualcuno finì per accecarsi nella fretta di voltare pagina; la stella fu giudicata troppo politica; il cuore osceno; il dodecagono troppo pretenzioso. Finì che si scelse il rettangolo. Il tale, come è consuetudine nelle storie di faraoni, fu dato in pasto agli scorpioni per aver selezionato una forma tanto banale. Eppure questa è la forma in cui ritrovo il mio amico albero, ormai ben srotolato e tagliuzzato e impacchettato in mille risme poggiate qua e là. Un post-it su ogni risma dice che ne sarà di ogni frammento del fu albero. Le ex orecchie del mio amico, risma numero uno, saranno un libro di ricette. Una seconda edizione un po’ plastificata piena di foto, con una copertina rigida e una vecchia signora e la sua permanente che sorride sul retro.

Le gambe dell’albero, risma numero undici, saranno mandate a una fabbrica di pezzi di ricambio per motociclette. Ufficio contabilità, per la precisione. Saranno stampate, un po’ alla volta, con i ricavi e le tasse e gli stipendi e le mail con i cordiali saluti scritti in calce.

Il cuore o la versione cartacea che ne resta, risma numero quarantatré, diventerà l’ennesimo libro su come migliorare te stesso facendo yoga tutte le mattine e imparando ad amarti e andare a letto presto. Finirà in un cassetto per un po’, letto di nascosto e poi abbandonato, che per lo yoga serve comunque una certa elasticità – e per amarsi pure. Quella che era la schiena, risma numero ottantadue, diventerà un diario segreto. Si riempirà, ogni sera prima di andare dormire, di impressioni sognanti e di segni calcati con forza quando sono tre giorni che quel maledetto visualizza e non risponde.

E così via, si potrebbe continuare. Le braccia che diventano un piccolo romanzo che leggi e poi scompare nella libreria, le ginocchia una biografia di Winston Churchill, la spalla sinistra gli atti di un tribunale, le nocche una raccolta di haiku giapponesi, i fianchi un’edizione di Guerra e Pace con le parti in francese tradotte e il polpaccio destro un temibile eserciziario di derivate ed equazioni.

Sapere il mio albero così brutalmente dilaniato mi fa raggelare. È modo questo, dico io, di trattare un amico? Ammetto il fare a pezzi i castelli di costruzioni o le frasi al telefono quando non sai cosa dire, ma un albero, per giunta così giovane! Eppure, alla fine, anch’io ci casco. Mi tocca la bocca, risma numero trenta. Un libro di fiabe. Una principessa che aspetta e dopo un po’, stufa, si trasforma in una farfalla proprio il giorno che il principe finisce di indossare l’armatura. Un’illustrazione sull’ultima pagina mostra la farfalla sventolare le ali sull’orecchio del cavallo che sorride sapendo di star andando a liberare una torre ormai vuota. Qualcosa, la copertina o i disegni o forse l’inchiostro, profuma di albicocca e a sfogliarlo puoi sentire la principessa che si posa sulla pagina successiva.

Il mio giovane amico albero, quel che resta s’intende, è adesso poggiato sullo scaffale più basso dove anche i bambini possono prenderlo – facendo attenzione a non strapparlo che altre sofferenze sarebbero davvero troppo. Lì ha incontrato altri pezzettini di pioppo e castagno e si raccontano di quando i picchi non li facevano dormire o il vento li sfidava a braccio di ferro. Un vecchio nespolo sullo scaffale dei libri di baroni e imperatori ascolta in silenzio le storie dei più giovani e, pieno di segni a matita e angoli piegati, rilegge la sua storia. Si commuove, come fanno gli anziani troppo stanchi per non piangere in pubblico, quando scopre che, ancora una volta, i suoi due eroi si sposano felici. Forse, dico io, sono le sue lacrime a far ingiallire le pagine. Asciugandosi (i libri hanno mani e braccia e fazzoletti nella tasca), si ferma a pensare (i libri hanno anche le gambe e non stanno mai fermi). Pensa che in fondo è felice di essere stato un nespolo. Pensa di essere contento di aver fatto la sua parte, se è questo che serve a chi, irritato dal frastuono, non ha altro modo di volare sui rami o in Africa o alle Canarie o in qualunque altro posto vada la gente prima di spegnere la luce.

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↔ In alto: illustrazione © Anna Giulia Pricoco. Per gentile concessione.

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