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Si avverte il gentile lettore che questo intervento non ha nessuna pretesa di risultare esaustivo, ma semplicemente di sintetizzare alcuni aspetti, avanzare delle riflessioni – opinabili e discutibili; inoltre non sarà rispettato minimamente il linguaggio saggistico, la serietà e rigidità della forma che ci si aspetta da un testo teoricocritico, perché come diceva Pontiggia: niente si sottrae al comico, neanche la riflessione sul comico.

All’inizio di qualsiasi intervento teoricocritico che si rispetti l’autore del testo trova il modo più o meno discreto per sciorinare il suo curriculum, ossia una lista sufficientemente corposa che possa rendere valide le sue osservazioni riconoscendogli una posizione, per poi raccontare come è nata l’idea stessa della ricerca. Sgomberiamo subito il campo da qualsiasi equivoco: le mie competenze in materia comica et umoristica sono limitate all’essere napoletano e lo stimolo che mi ha spinto a scriverne è del tutto casuale. Costruisco commedie – almeno nei testi lunghi; una mia cara amica si è impelagata in una ricerca sulla questione comica nella poesia italiana – Jolanda Insana, dice qualcosa?; e ho letto di recente due testi umoristici: Santi Numi di Jacopo Masini e Nostra Signora dei Sullivan di Gianfranco Mammi. Quindi ho pensato valesse la pena interrogarsi, fosse soltanto per scrivere qualcosa di decente nella vita, su cosa diamine fosse la commedia, almeno in questa cosa nebulosa che chiamiamo letteratura. Questo è, iniziamo.

Se digitiamo sul più famoso motore di ricerca del pianeta le parole romanzo umoristico il primo risultato sarà la pagina della più famosa enciclopedia gratuita del pianeta dedicata al romanzo umoristico. Nessuna traccia di suggerimenti automatici, nessun libro consigliato, solo articoli, interventi, riflessioni e questo per pagine e pagine. Se invece proviamo con romanzo comico non cambia molto, il primo link è legato proprio a un approfondimento che tenta di distinguere la comicità dall’umorismo. Neanche questa volta ci sono dei romanzi tra i suggerimenti. Provando invece con romanzo ironico spunta una serie di nomi sotto la dicitura romanzi/ironia. Ecco l’elenco dei primi otto titoli: Tre uomini in barca; Florence Gordon; Galapagos; Grandi Speranze; Candido; Fahrenheit 451; Il segno rosso del coraggio; Comma 22. Il sistema, nonostante abbia finalmente intuito cosa stiamo cercando, presenta comunque qualche problema: c’è Jerome, un caposaldo della letteratura comica, ma Dickens? Passi ancora Vonnegut, vada per Comma 22, ma Il segno del coraggio e Fahrenheit 451? Ora non iniziamo a prendercela con i computer, e ricordiamoci che l’indicizzazione dei motori di ricerca è creata dagli esseri umani, il ragionamento delle macchine è condizionato da come l’uomo le programma, allora il problema va ricercato alla radice. Siamo sicuri di intendere tutti la stessa cosa quando parliamo di commedia, di romanzo comico o umoristico o ironico? E poi siamo sicuri siano davvero la stessa cosa? La tragedia è tragedia, poco da aggiungere, ma la commedia? La commedia non è solo comica. Qualcuno diceva che la commedia ammette tragedia, anzi verrebbe da dire che al suo interno necessita di un elemento tragico per suscitare il riso, ma al contrario la tragedia non può ammettere commedia. La tragedia potrebbe essere considerata come un sottoinsieme, una parte più piccola della commedia. Dal punto di vista psicanalitico, da Freud in poi, ci si è interrogati molto sul legame tra riso e psiche – molto di più di quanto non sia stato fatto per il rapporto tra pianto e psiche. In linea generale parliamo di due fenomeni che servono a scaricare, ma se il pianto è in qualche modo passivo la risata impone un’accensione, un’attivazione, questo perché la tragedia si muove su piani conosciuti, in qualche modo è consolante e consolatoria, al contrario la risata gioca con l’inaspettato, con la frattura della realtà, con l’incomprensione. La risata è spesso un’improvvisa e imprevista conferma di qualcosa che abbiamo sempre saputo, ma non avevamo ancora visto in quel modo. Dopo aver fruito di una tragedia, in qualsiasi forma, possiamo metterci a letto e dormire – a meno che questa non c’abbia scosso a tal punto da renderci insonni – per poi dimenticarla fino al prossimo pianto. La commedia, nelle sue intenzioni più nobili, dovrebbe invece risuonarci nella mente per giorni, dovrebbe aver illuminato controsensi, paradossi, aver creato quella che Ramachandran chiamava frattura. La risata, che si può ottenere in vari modi – sostanzialmente tre: situazione, linguaggio e battuta di spirito / comicità di carattere, di situazione o di parole seguendo lo schema di Bergson –, pare giocare con la struttura triadica del nostro stesso sistema di pensiero, ossia del modo in cui ragiona e lavora il cervello. Volendo semplificare, sembrerebbe che a livello cerebrale tendiamo a funzionare seguendo paradigmi che la realtà potrebbe rompere, da qui nasce la frattura, e che noi in modo conscio o inconscio proviamo a sanare. Questa frattura, stringo perché altrimenti avrei bisogno di un paio di pagine di settimanale ben retribuito per sviscerare la questione, si può generare o perché la nostra percezione è alterata (droga, alcol, forti emozioni, vecchiaia etc.) oppure perché giunge un dato anomalo e questo dato, spesso, è la situazione comica, paradossale, ironica che la realtà o la commedia – che spesso sono la stessa cosa – ci propongono. A quel punto ignoriamo l’anomalia oppure forziamo il nostro paradigma per far rientrare il dato anomalo, questo in ogni caso genera riso o situazioni potenzialmente comiche. La risata è il tentativo del cervello di sanare la frattura. Non è un caso, infatti, che dopo lo scampato pericolo, ancor prima di tirare un sospiro di sollievo, a molti scappi una risata: è una reazione che spesso viene definita nervosa, quindi istintiva.

Che il riso sia legato a una reazione nervosa lo osserviamo anche dalle espressioni ridere come un pazzo oppure morire dal ridere. Qualcosa di estremo, pericoloso. Possiamo infatti notare come una grande dose d’ironia sia abbinata a una grande lucidità, che permette di osservare la realtà nelle sue contraddizioni, andando oltre l’ordine rasserenante e conciliante che il cervello propone per sopravvivere. La risata colma questa lesione e chi non smette di ridere diventa pazzo, forse perché, come sostengono alcuni, continua a vedere cose che non esistono – ossia la famosa frattura. La commedia sembra ricordarci ogni momento che siamo davvero fortunati a ignorare alcuni aspetti della realtà, a piangere quando capita, a non impazzire per troppa lucidità, fortunatissimi nel saper ancora ridere o sorridere, ma con moderazione. Perché si può anche morir dal ridere. Tutto questo per evidenziare, semmai ce ne fosse bisogno, che la teoria del comico è molto complessa, che la commedia è un genere con tutti i crismi, fatta di struttura, personaggi, esigenze, una commistione di lingua e situazioni che, a seconda del medium, si può articolare in forme diverse. Un copione di un grandissimo successo teatrale letto nel silenzio della propria stanza, pur mantenendo un certo brio, rischia di essere molto meno divertente e comico della sua rappresentazione teatrale. Questo per dire che è evidente che la commedia vada calibrata in funzione della sua forma espressiva, basti pensare alle barzellette. Se ben raccontate, anche le più becere possono farci ridere e riescono a farlo nonostante l’incipit, ora vi racconto una barzelletta, nonostante chi parla abbia annunciato che si dovrà ridere. Scritte, molte di quelle barzellette non farebbero ridere neanche a pagare. Si salvano invece alcune battute di spirito, perché veloci, immediate, fatte di linguaggio e quindi meno connesse alla teatralità dell’oratore. Mi scuso con il lettore che ben conosce queste differenze, ma è necessario il preambolo prima di esporre i vari problemi ai quali si va incontro con la letteratura comica. Il primo si è già forse evidenziato: la forma scritta. Il grottesco è comico se riusciamo a non farci spaventare, quindi se non subiamo l’emozione. L’ironia può essere considerata più una questione di tono che di struttura. Il sarcasmo, la parodia, l’umorismo nero e via dicendo sono altre sottocategorie di quella che nella totalità chiamiamo commedia: esiste persino una risata che nasce e si produce per eccesso di serietà.

La suddivisione della commedia è un altro problema che non affronterò perché successivo all’operazione di riconoscimento attuata in queste pagine. Varrebbe la pena porselo, sarebbe sicuramente molto interessante, qualora la commedia venisse già riconosciuta. Si tratta di un dettaglio, di una specificazione, il problema del riconoscimento è invece macroscopico: la commedia neanche esiste, che senso ha andare a indagare come si articola al suo interno? Come posso specificare le parti di un tutto che ancora non esiste? Che senso avrebbe dividere il nulla in tante piccole parti di niente? Un altro problema interessante a livello particolare potrebbe essere la questione semplificazione: la commedia spesso semplifica la realtà, ma non il messaggio e le sue conseguenze. Blanchot, riferendosi all’operazione del pensare, diceva che è come combattere con Proteo legato e questo vale, credo, anche per la risata nei confronti della realtà. Insomma, di riflessioni ce ne sarebbero, ma come ho già detto non è questo il luogo o il momento. Torniamo a noi e andiamo sugli store online di libri, direttamente nell’occhio del ciclone.

A cercare su A. ritroveremo testi che arrivano dal mondo televisivo, scritti da personaggi dello spettacolo o che riprendono in qualche modo quell’immaginario: Benni spunta dopo un bel po’ ed è forse il primo e unico titolo che risponde davvero al criterio di ricerca. La formula migliore è cercare nella categoria romanzo umoristico e scorrere un po’. Ancora peggio su I., dove manca del tutto la categoria umorismo – non che quella di A. fosse un granché, ma almeno qualcosa. Su F. scopriamo che la situazione è molto simile. Anche su B., nonostante la presenza di numerose sezioni, delle categorie, dei consigli delle librerie e i libri suddivisi per tematiche, manca la commedia. La narrativa finisce tutta sotto un unico cappello e non è facile trovare quello che stiamo cercando. Ora non ho alcuna voglia di ripetere l’esperimento su altri portali, ci faremo bastare i dati raccolti, sebbene la procedura non corrisponda esattamente al metodo scientifico. Poco importa, il me ingegnere si metterà l’anima in pace. Tiriamo fuori una conclusione: la categoria non è sufficientemente diffusa, i libri che hanno una forte matrice comica o che addirittura rispettano la struttura della commedia non sono individuabili con la stessa facilità dei gialli, dei romanzi rosa, dei fantasy. Anzi, a dirla tutta, pare impossibile scoprirli in autonomia: si salvano, bontà loro, i grandi classici che in modo automatico il sistema, di tanto in tanto, tira fuori. Per i contemporanei, addio. E non è paradossale? La commedia risente molto dello spirito del tempo, ha legami forti con costumi, abitudini, realtà che cambiano e che rendono meno riconoscibile l’ironia: è possibile che alcuni testi nati con intento comico oggi ci appaiano come testimonianze serie o che la carica comica risulti sbiadita, difficile da cogliere. La commedia è più contemporanea della tragedia che in qualche modo è eterna. Lo scrivo con la morte nel cuore, ma non è che ignorando il problema risolviamo qualcosa; nell’epoca del marketing, della targhettizzazione del cliente e di ogni oggetto come prodotto, è impensabile non offrire ai lettori la possibilità di trovare commedie contemporanee con più semplicità. La commedia è un genere. La scrittura ironica, sarcastica o umoristica è una nota così tanto importante in un autore che non può non essere evidenziata. Proviamo a guardare allora il problema dalla prospettiva di chi vende e di chi compra. Ancora un poco e ho finito.

Chi vende sono le case editrici, quindi i librai, di seguito quelli che chiameremo critici, giornalisti, recensori vari e poi, spesso dimenticati, gli autori. Lo ripeto per l’ultima volta: sto semplificando per porre delle domande, che esistano le eccezioni è una fortuna – nessuno si senta offeso. Dicevamo, le case editrici: qui è noto un problema di pregiudizio, l’idea che la commedia sia meno letteraria, che non appartenga al romanzo, che non faccia vincere premi, non faccia scalare le classifiche, sia qualcosa da limitare a nomi televisivi o a qualche vecchio autore già affermato o a qualche esordiente da buttare nella mischia. Totalmente vero? Non saprei, perché in realtà sfogliando i cataloghi – dalle ce più piccole fino alle major – è possibile individuare alcuni titoli che seguono la linea comica. Parlando con alcuni autori viene fuori che gli editor spesso sono alla ricerca di scritture ironiche, con un taglio leggero, perché i lettori vogliono ridere. Ma allora? Si sviluppa un certo paradosso: le commedie no, però le commedie sì. È un sistema isterico. Ma anche quando si sceglie di aggiungere in quarta di copertina la parola commedia – o una sua derivazione, dall’allegria fino alla leggerezza, alle volte addirittura mischiandole come se fossero la stessa cosa – non si fanno scelte chiare, non si vendono le commedie in quanto tali e ai librai spesso non è neppure chiaro il tipo di libro che hanno di fronte. Anche chi dovrà praticamente vendere le copie si ritroverà stretto nella morsa che commedia significa non letterario, che scrittura ironica significa scrittura superficiale. Si vive lo stesso probabile snobismo dei gialli – che però sono più riconoscibili – vendono comunque e persino in autogrill, o di altra letteratura di genere. Ma di cosa hanno paura le ce? In parte sono consapevoli che una buona commedia è molto difficile da costruire, che una scrittura davvero ironica è difficile da trovare: far ridere è complicato. Quando però riesce, viene riconosciuta: penso al Premio Bagutta Opera Prima vinto da Venturini nel 2018. La comicità, specialmente quella brillante, sarcastica, parodistica, se ben fatta è un livello in più sulla realtà, non qualcosa in meno. E questo invece appartiene più alla lettura dei critici, dei recensori. Comprendere una commedia richiede uno sforzo maggiore, analizzarla nei suoi sottotesti, nei meccanismi della risata, nei personaggi oltre lo stereotipo, nella dinamica delle scene presuppone una grande attenzione. E in più c’è un problema dato dalla natura stessa della commedia: la risata basta a se stessa. Una commedia non ha bisogno di essere spiegata, anzi, come per le barzellette, se la devi spiegare per capirla allora significa che non era una buona commedia – o che forse non sei buono tu, questo poi è da vedere. La tragedia invece è comoda, la narrativa di genere è chiara, le speculazioni di certi romanzi letterari forniscono l’assist perfetto per critiche letterarie, potremmo dire quasi libresche, universitarie, da convegno. La commedia chiede tanta intelligenza all’autore, umorismo che non tutti possono avere, sensibilità di cogliere il comico nella realtà, ma chiede lo stesso anche a chi legge e recensisce. Anche perché: chi scrive di libri per chi scrive veramente? Bisognerebbe parlare dei lettori ma, ancora un momento, dedichiamoci agli autori. L’Italia ha da sempre una grande tradizione di letteratura umoristica, non faccio nomi per non doverne tenere fuori qualcuno, ma voglio citare Dario Fo. Perché? Perché è stato il nostro ultimo Premio Nobel per la letteratura e gli elementi della sua scrittura, anche e soprattutto teatrale, sono all’insegna della comicità. Fo è stato un grandissimo intellettuale eppure non si prendeva per niente sul serio, ironizzava, giocava, parodiava, sperimentava. Era un personaggio pienamente a suo agio nel mondo televisivo, riconosciuto e riconoscibile, probabilmente non viveva il terrore di perdere l’etichetta di intellettuale se avesse provocato la risata nel lettore/spettatore. Attenzione, non siamo di fronte a un unicum: restando nel campo del Nobel, volendo assumerlo come criterio del massimo valore letterario, per gli italiani, esclusi i tre poeti, in ambito della narrativa e del teatro abbiamo anche Pirandello. Tra i narratori in prosa resterebbe fuori solo Deledda, ma insomma mi sembrano delle percentuali molto buone a favore del comico. Allora cosa è successo? Forse gli intellettuali, o meglio gli scrittori di oggi, sono meno dotati di senso dell’umorismo? Forse sono meno intellettuali e sopperiscono questa mancanza con una certa seriosità? Forse è venuto meno il ruolo e il conoscimento nella/della società, si cerca di difendere quel poco seguito raggiunto, quel piccolo piedistallo, di recuperare posizioni? In questa difesa l’ironia non è consentita: puoi scherzare del mondo quando ne fai parte, in una condizione di serenità, se invece ti senti escluso, messo da parte, e ambisci al tuo posto rischierai di essere adulatore, serioso allisciabarba, soporifero assicuratore letterario. Forse. Forse con un pizzico di cattiveria l’ironia si può trasformare in sarcasmo. Qualcuno diceva che l’uomo insegue certezze, l’ironia rovina e mette in discussione ogni successo in questa direzione. Ecco che forse gli autori, inseguendo questo successo, non riescono a metterlo in discussione. Per fare ironia bisogna innanzitutto essere capaci di ridere di sé e della propria finitezza. Socialmente questo ci porterebbe a riflettere sul peso sociale della risata, per quanto spesso diciamo che quella persona manca d’ironia e lo diciamo in senso dispregiativo. Non ridere è anche non socializzare. Questo viene dimenticato. Ma basta così, ho infierito abbastanza.

Possiamo finalmente passare dalla parte di chi compra, i benedetti lettori. Il problema dal punto di vista dei lettori è forse più piccolo di quel che sembra. Le poche commedie vendute come tali spesso funzionano, anche con il grande pubblico, se riescono a essere lette piacciono, nessun lettore rifiuterebbe una risata. In questo sembra che le ce abbiamo ragione: il lettore vuole ridere. Poi si può essere più o meno esigenti, ma lo stesso vale per il cinema e il teatro. Il pregiudizio sulla commedia forse colpisce quelli che seguono la critica, le bolle editoriali. Colpisce tutti coloro i quali leggono per darsi un tono, e alle volte neanche leggono, al massimo comprano i libri, li fotografano, li portano in giro nelle metropolitane, li lasciano sparsi per casa. Il libro è anche un modo per dire qualcosa di sé e la commedia forse implica le cose – secondo chi, poi? – sbagliate. Un pregiudizio quasi sistemico che spinge chi legge, anzi più genericamente chi compra libri, a preferirne altri – salvo poi accogliere con piacere delle commedie ben fatte. I lettori si lasciano influenzare dalle classifiche dei giornali oppure dalla presenza massiccia dei titoli in libreria? I gialli vendono tanto perché la critica ne parla bene o perché costano il giusto, sono ampiamente disponibili, riconoscibili e visibili? Ho sentito parlare di almeno 5 categorie di lettori: i lettori forti, i lettori da best seller o cosiddetti deboli, i lettori da critica, i lettori d’autore e i lettori potenziali. La prima categoria legge tutto, è onnivora, autonoma; la seconda pesca quei due, tre libri l’anno e li legge durante le feste di Natale, le vacanze estive, forse neanche li legge, semplicemente li compra; i lettori da critica seguono i giornali, Instagram, le classifiche, i bookblogger, insomma leggono i libri di cui si parla di più; quelli d’autore scelgono i classici, i libri necessari e imprescindibili di gente preferibilmente morta o moribonda. Poi ci sono i lettori potenziali che non esistono, forse sono un’invenzione del mondo editoriale nel tentativo di truccare i bilanci: sono quel x% di mercato potenzialmente disponibile, quelle migliaia di copie che si potrebbero vendere se e solo se si riuscisse a fargli leggere un libro. In questo mercato potenziale rientrano anche le altre categorie, esclusi i lettori già forti: le case editrici vorrebbero trasformare tutti in lettori da almeno 20 libri l’anno, ma ci accontenteremo di 10, facciamo che anche 5 andrebbero bene. Peccato che poi si cerchi di conquistare questa fetta debole con dei libri altrettanto deboli. Però la chiuderei qui perché rischiamo di allontanarci dall’analisi per finire nel campo dell’ipotesi. In linea generale non me la sento di dare la colpa al lettore e, allargando il discorso, non ritengo che ci siano quasi mai responsabilità da parte dell’utente. Il pregiudizio che mette in atto chi legge è lo stesso di chi scrive, di chi pubblica, di chi critica. Probabilmente è solo un riflesso. Quindi tiriamo le somme.

Il problema, volendo riassumere, può essere ricondotto a una doppia matrice: pregiudizio e soggettività. Ridere sembra cosa da poco e non a tutti fanno ridere le stesse cose, l’ironia va quindi riconosciuta, la comicità ha bisogno di grande partecipazione da parte del fruitore: buona parte di noi piangerebbe per la scena tragica perché la sensibilità è mediamente la stessa, mentre non tutti ci troveremmo a ridere di fronte a una battuta – grossolana o sottile che sia – perché si tratta di una questione di intelligenza. E quella, a differenza della sensibilità, non me ne vogliate, è poco democratica e disequamente diffusa. Ruozzi definisce il comico un genere anfibio capace di sollevare reazioni contrastanti, addirittura polemiche, suscitando riflessioni su quali siano i limiti – le zone sacre – che il comico dovrebbe risparmiare. Qualcuno però suggerisce che il comico non deve avere paura o schifo di niente mentre Brancati dice al contrario che il comico sembra essere un’esplosione che va contenuta, oppure come sostiene Kundera il tragico consola, il comico rivela brutalmente l’insignificanza delle cose o almeno la loro insensatezza, oppure ancora Bergson arriva a scrivere che il rimedio specifico della verità è il riso e il difetto essenzialmente ridicolo è la verità. Quindi, cosa fare? Non ne ho la più pallida idea. In queste pagine, che spero non siano diventate troppe, volevo soltanto accendere delle domande – e proprio come il riso che poi provoca riflessione – evidenziare la frattura. Possiamo ricucirla? Forse. Dobbiamo? Non è detto. A ogni modo avanzo qualche proposta giusto per non sembrare il classico lanciatore di sassi e nasconditore di mani: troviamo delle categorie specifiche, come esistono per i gialli, i fantasy, i thriller e via discorrendo; opzioniamo un colore, come il giallo o il rosa, magari il blu perché è associato alla tristezza e sarebbe una scelta comica, metacomica; ricordiamoci che la commedia non è solo comica e che il comico ha tante forme: gli scrittori non abbiano paura di far ridere, tanto accade comunque in modo inconsapevole e poi è peggio; i critici si sforzino di indagare la commedia, senza confondersi dietro un’aurea di seriosità. In ultima analisi: cambiamo il nome, troviamo un nome che funzioni. Se la commedia è inflazionata al ribasso, se sembra qualcosa di sbagliato, cerchiamo nella nostra lingua qualcosa di più alto – se la nostra ossessione è ascendere verso i cieli della letteratura. Potremmo optare per ironia. Pensateci: una persona comica è un pagliaccio, definizione usata quasi sempre in senso dispregiativo È quasi sinonimo di cazzone, che è sinonimo di coglione, che è sinonimo di scemo. Una persona ironica, invece, sembra dirci che quella persona sì, fa ridere, ma è intelligente, incredibilmente intelligente. Tutti vorrebbero un ironico nella propria comitiva per fare bella figura in pubblico. Il comico no, va bene soltanto tra amici, poi in certi contesti ce ne si vergogna quasi. Allora cambiamo il nome, liberiamoci.

Credo che basti, in fondo questo è un testo senza grosse pretese, una cosa per ridere. Dovevano essere un paio di pagine, mi sono allargato. Perché la commedia è una cosa seria, ma non seriosa. Perché avevo voglia di provocare, di porre delle domande, ma non credo di poter avanzare personalmente delle risposte. Però le voglio cercare comunque: per questo, il 21 marzo, partirà su Limina Rivista una rubrica intitolata Gli ironici, una serie di recensioni/interviste a tema comico. Insieme ad alcuni autori cercheremo di definirlo meglio, di indagare i suoi meccanismi e scoprire quali sono gli elementi in comune tra libri generalmente definiti comici. E poi ci ritroveremo di nuovo qui, su Altri Animali, per tirare due conclusioni. O per raccontare qualcosa di ironico. Magari.
E basta, con questo è davvero tutto.


Si consigliano al lettore che voglia approfondire la questione: le riflessioni di C. Giunta sulle tre forme di comicità; gli appunti di L. Spagnolo in riferimento a Freud e al motto di spirito; l’articolo di F. Di Vita sul perché in Italia non si pubblicano commedie; il saggio G. Ruozzi sulla comicità del ‘900; la ricerca similscientifica di H. Bergson sul riso; le intuizioni di F. Accame sul comico.
Grazie ai potenti mezzi di internet il lettore può trovare tutto il materiale necessario, e forse sufficiente. Si scontrerà però contro uno dei grandi problemi: come cercare? L’esperienza pratica, il ripetere in parte i passaggi che ho già compiuto in questo testo potrebbe farlo sorridere. Almeno spero.
Avrei forse potuto inserire delle note, almeno per le citazioni più importanti, ma non mi andava: le note facevano davvero troppo minisaggio di questa ceppa. Spero di aver fatto cosa gradita al lettore.


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↔ In alto: Theater by Tatiana Belkina from NounProject.com.

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