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Alla periferia di un impero editoriale italiano straccione ma narcisista, con più titoli che tirature e più scrittori che lettori, viveva, anche se nessuno se n’era accorto, Babbeo Nanini, il più appassionato e incapace aspirante scrittore del suo tempo, o almeno del suo condominio. Come un cornuto fedele, lui alla letteratura aveva dato tutto, senza che lei, manco per sbaglio, gliel’avesse mai data, nemmeno per un giro di frase. 
Trentenne canuto, laureato a vanvera in Lettere, di giorno era mulo factotum in un negozio di animali, mentre la sera sognava di fare lo scrittore, ovvero si addormentava sulla tastiera provandoci, ma in dieci anni di concorsi di poesia nelle biblioteche comunali, di contratti capestro, di corsi coi santoni della scrittura ricreativa e di bancarelle abusive ai festival di nanoeditoria non aveva mai convinto nessuno, nemmeno un parente, a buttare un occhio, o anche solo una pedata, su uno qualunque dei suoi romanzi inediti.
Ma una sera primaverile di pioggia storta, di ritorno dalle sue dodici ore malpagate di cassa vuota e scrostamento gabbie, con le dita che puzzavano ancora di criceto, Babbeo Nanini digitò la password della sua casella di posta, «Orgoglioepastorizia» tutto attaccato, e, dopo anni di lettere a nessuno, trovò un nuovo messaggio.
La redazione del Premio Pino Spoglio, giunto alla sua seconda gloriosa edizione, aveva accettato automaticamente l’invio del modulo preimpostato per entrare a far parte della Giuria Popolare, ma dal momento che le richieste superavano i quindici posti disponibili, il venerdì successivo, presso la Banca Popolare San Caino, ci sarebbe stata, dopo la presentazione del Premio, un’ulteriore selezione, nella forma svogliata ma giusta del sorteggio.
Quella notte Babbeo Nanini rimase sveglio a scrivere un lungo post pieno di commozione e similitudini botaniche. La retorica disneiana del sogno, che se ci credi s’avvera, che se spingi forte esce, come l’escremento, tornava a illuderlo, a compromettergli il pasto oggi e la pensione domani.
Il disonorato Premio in onore di Pino Spoglio, pittore barbone morto di rogna, era nato circa un anno prima dall’esibito senso di colpa sociale di un amico d’infanzia, Carlo Aurelio Polenta, uno di quei banchieri gioviali col complesso d’inferiorità umanistico e le velleità da sindaco.
Lui ci metteva soldi e coperto, ovviamente non suoi, teneva il discorso inaugurale, in cui equiparava la cultura al buon cibo, con la stomachevole metafora del libro come pane dell’anima, e poi spariva, lasciando che a tener su la farsa ci pensassero i cosiddetti esperti del dipartimento di Studi Umanistici della vicina Facoltà di Lettere.
Alla presentazione del Premio, nella sala d’onore, concessa per pena fino alle diciotto, «perché va bene la cultura, ma è pur sempre venerdì», Babbeo Nanini sedeva in ultima fila difensiva, e quando alzava gli occhi, ogni quarto d’ora, dal pavimento in mosaico scrostato, invece di riconoscere attorno a sé l’intellighenzia letteraria italiana, contava un pugno scarso di sciure provincialotte, chiassose, appariscenti, ontologicamente volgari, come le bomboniere della comunione, convinte che la letteratura fosse tutta trama, sentimenti e cazzi degli altri, insomma una sofisticata forma di gossip.
A addomesticare la pantomima il pilatesco titolare della cattedra di Letteratura italiana contemporanea aveva inviato il suo assistente meridionale  e leccachiappe di fiducia Pipino De Coccio, valente, affidabile, noioso, che non essendosi buscato, come certi poetastri suoi colleghi di corso, il sacro fuoco di Sant’Antonio dell’arte, era riuscito a fare carriera accademica.
Dopo aver annunciato i prestigiosi finalisti, più vicini al Nobel che a un reddito semiserio e quindi scomodabili per settecento euro di premio, il De Coccio diede inizio alla tanto attesa estrazione, scatenando, a ogni annuncio, esultanze, scongiuri e tiè da pecoreccia tombola di paese, ma contro tutte le leggi del buon senso algebrico, nonostante in sala ci fossero poco meno di dieci persone per quindici posti disponibili, il nome di Babbeo Nanini non venne estratto, nemmeno tra i cinque di riserva.
Mentre tutte le sciure si festeggiavano e fotografavano, una mendicante bassotta in abiti firmati Caritas, zoppa ma vispa, andò verso il De Coccio a gridolinare al complotto perché il suo nome non era uscito, ma il De Coccio, abituato per deformazione professionale a interagire soltanto con chi lo potesse poi raccomandare a qualcun altro, non la vide nemmeno. Resasi conto che la polemica non attecchiva, passò subito, senza pudore, a fare la vucumprà di se stessa e cercò di rifilare ai presenti un bigliettino da visita su carta igienica, che solo Babbeo Nanini ebbe il coraggio sanitario di prendere in mano.
Il biglietto, in grafia sghemba e analfabetica, diceva così:
«Kristal Merini Lagosporco, poetessa scrittrice di 125 libri».
Fuori dalla banca, i due scrittori ridicoli passeggiarono un poco. Kristal, paranoica, impresentabile ma stoicissima, diceva che la ignoravano, la boicottavano, nonostante sapessero tutti lei chi era, cosa aveva scritto. Babbeo Nanini, per tenerla buona e corta, stava zitto e provava ad accompagnarla da qualche parte, preferibilmente sotto un tetto, ma se di giorno la matta bivaccava in biblioteca, scroccando riscaldamento, acqua della toilette e connessione internet, la notte non era ben chiaro nemmeno a lei dove andasse a dormire.
Quando fu davvero buio, si salutarono con la promessa che si sarebbero presto rivisti, magari già al secondo incontro del Premio, ma soprattutto fecero all’altro quello che avrebbero tanto voluto fosse fatto a loro: si scambiarono i preziosissimi manoscritti inutili, accettando di leggersi a vicenda in tempi non geologici. Dopo anni di autismo scrittorio, avevano finalmente trovato un primo e forse ultimo lettore.
Nel suo lettino da disoccupato sentimentale Babbeo Nanini trascorse la notte in bianco a leggere la matta, e leggendo lei, per la prima volta leggeva se stesso così come lo avevano sempre letto tutti, deridendolo alle spalle. Si riconosceva brutto, oggettivamente brutto, come la fame o come la sazietà conatosa da fast food.
E in un lampo di consapevolezza critica si domandava a cosa servisse Kristal, coi suoi 125 libri, a cosa servisse lui, a cosa servissero tutti questi impenitenti scrittori ridicoli, in crescita esponenziale, mitotica, batterica, pandemica, la cui scrittura era onanistico spurgo espressivo, narcisismo ignorantello, brancaleonesca rivincita sociale.
Ripensò al suo primo lacrimoso incontro con la letteratura, ai brutti libri illustrati che la nonna parkinsoniana gli leggeva prima di dormire. Aprì il diario intimo da studentessa delle medie e scrisse così: che gli scrittori ridicoli, anche se ridicoli, sono importanti, perché le loro cartacce sono il combustibile, l’anonimo concime cinetico che tiene acceso il fuoco della letteratura nei decenni di gelo tra un classico e l’altro.
Appuntò il pensiero in pochi secondi, scrivendo per sottrazione, senza arlecchinate lessicali, senza lo sforzo così antipoetico di scrivere poeticamente, e fu quella l’unica volta in cui la letteratura, impietosita, gliela fece sniffare un momento, per poi negargliela di nuovo, dal mattino seguente, quando Babbeo Nanini, tornato in sé, avrebbe ricominciato a scrivere troppo e male, inseguendo la pubblicazione fino all’esaurimento nervoso o del mangime economico, insieme agli altri, troppi, scrittori ridicoli, come lui, come noi, come tutti.


↔ In alto: McGill Library / Unsplash.

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