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1.

Schiuma di carnevale. «Ecco cos’ho sul cappotto, Bea» avrei dovuto risponderle quando sono scappato da casa sua, con la mia vergogna schermata dal bavero, per averla baciata nella sua crisi di pianto peggiore, dopo che Roberto aveva deciso di chiudere la loro relazione e concentrarsi sulla moglie e le bambine.
Ma la risposta arriva adesso, mentre pedino i ragazzi autori delle macchie sul mio cappotto. Mi fa sorridere questa epifania fuori tempo.
Hanno aspettato che la sfilata di martedì grasso superasse la piccola stazione del paese, poi guardinghi hanno saltato il cancello del deposito treni, svelti hanno costeggiato il muro perimetrale sotto un cielo cianotico, attraversando il cimitero di vagoni lividi come carne marcia, poi la parete finisce e allora hanno continuato infilandosi tra i rovi, sbucando in un boschetto ancora salvo dalla speculazione edilizia e nel centro della vegetazione disordinata l’hanno trovata: la strada leggera di cui parlavano poco dopo avermi annaffiato di spuma chimica. Io li ho seguiti, segugio silenzioso.
Nascosto tra piante di cui non conosco il nome, fermo il fiato. Quello più robusto di loro prende l’iniziativa. Con una certa scioltezza si avvicina a un largo cerchio di terra rossa. Poco dopo, il suo corpo inizia a vorticare nell’aria, galleggia placido. Sono nell’ombra a desiderare d’essere lieve, dimenticando per un momento Bea.
Poggio il primo piede. Amo Bea, Bea ama Roberto. Dal basso una forza bianca e possente alza il mio peso con facilità. Ma Roberto ama sua moglie, per questo ha lasciato Bea. Non so come alzarmi in volo, una giravolta nell’aria, il mondo si attorciglia, sottosopra, si scompone, poi si rimette in asse. Posso amarla io. Allargo le braccia e le gambe, nell’aria fresca di primavera, fisso gli occhi al cielo cercando una visione ulteriore, la luce è troppa e a volte stringo le palpebre. L’ho baciata al momento sbagliato, tutto è rovinato. Ora galleggio, come una foglia trasportata dallo zefiro autunnale. La amo dall’università e da allora mi sento molto stanco. Adesso un po’ meno.
Gli occhi prudono, vorrei farli riposare, proteggerli, ma non posso. Sbarrati. Aperti. Vigili. La gravità non ammette battiti di ciglia, non concepisce il riposo. Lentiggini di folgore punteggiano di chiarore la volta scura, mentre la mia prima gravitazione saluta il sole alle sue spalle. Arriva la notte completamente e la luna fa gli ossequi. Sono leggero, non sbatterò più gli occhi, non scenderò mai, dormirò nell’aria con le palpebre spalancate come saracinesche in tempo di guerra e il mondo smetterà di esistere: Bea, Roberto, il lavoro, la famiglia lontana, me stesso: cumulo di polvere in questo colpo di vento, la notte passerà, domattina sarò così lieve da scomparire.

2.

Mi risveglio nel mio letto, anche se non avrei voluto. Ho dimenticato il momento in cui ho sbattuto le palpebre, azione che, a detta dei ragazzi, avrebbe decretato la fine della gravitazione.
Insisto con lo spazzolino tra i denti, sovrappensiero, finché le gengive bruciano. Non mi riconosco del tutto nello specchio perché la resa visiva è sporcata dai lampi del giorno precedente: la sfilata, le labbra di Bea, l’imbarazzo, il pedinamento, la gravitazione. Sputo nel lavandino spuma di dentifricio e sangue.
Il cellulare vibra sul limitare del lavabo. Il nome di Bea sullo schermo. Porto il cellulare al viso, mi concentro sui pixel che compongono queste lettere. Nel flusso di impulsi elettrici voglio rimpicciolirmi, quindi dissolvermi.
Bea desiste, lascia cadere la chiamata. Dovrei continuare con la ricerca del lavoro, riattivare la mia routine, tornare in palestra, fare la spesa, redigere il curriculum, o magari guardare un film, scrivere ai miei amici, ordinare sushi di pessima qualità, oppure affiancare in bici il naviglio sulla ciclabile dissestata. Invece, rimango a gambe e braccia divaricate tra le lenzuola. Come il giorno prima, ma senza aria, con più gravità, schiacciato dal suo peso, ammansito dall’imperiosità della sua legge fisica — forse con un lampo di speranza di alzarmi in volo nuovamente, per volteggiare nell’aria tutta la vita. Ma quelli come me non sono destinati alle grandi imprese, rimangono solitamente sul letto a guardare il soffitto. Le nostre lenzuola puzzano di sudore.  

3.

Bea si palesa sull’uscio la mattina successiva, quando decido di tornare alla strada leggera. Questo strano cerchio gravitazionale mi è tornato in mente tutta la notte, nonostante razionalmente lo riconosca come un palliativo, qualcosa che brucia tra i ricordi al pari di una soluzione, con la stessa forza gravitazionale – che paradosso – delle dipendenze. Come morfina, una strada leggera per attenuare i pesi.
Apro la porta per uscire e lei è lì che aspetta. Ignoro da quanto, non glielo chiedo nemmeno.
Dice che dobbiamo parlare.
«Per forza?»
Insiste, si infila in casa in direzione della cucina.
La raggiungo che è già accomodata con le lunghe gambe incrociate. Falsifico il mio fastidio con la gentilezza: «Cosa ti posso offrire?».
Risponde niente e so già dove vorrà andare a parare. Devo trovare un diversivo. Tergiversare illude il nemico, gli dà l’idea di una distensione, ma al momento giusto dovrò sgusciare attraverso la sua guardia. Insisto, allora: «Ho delle tisane, dei succhi, alcuni dolci di nonna. Sicura di non volere nulla?».
Decide per i dolci e la tisana. Così, molto lentamente, le espongo i vari pacchetti colorati sul tavolo. Tè nero, verde, rosso, frutti di bosco, bianco. Tisane al carcadè, timo, finocchio, arancia, cannella, pompelmo, ananas. Tutto, molto, lentamente.
«Quella che vuoi» taglia corto, aggiungendo il mio nome tra i denti. Furba e nervosa. Scelgo il tè bianco e inizio il rituale di ebollizione. Per un po’ nessuno parla, mi concentro sulle bolle che salgono nel pentolino, ma il gesto inizia a risultare forzato. Non ho alternative. Mi volto verso di lei, con le braccia incrociate sul petto e sorrido. Il mio corpo mi tradisce, non è coerente. Una parte di me in fondo si chiede perché non abbia già iniziato la manovra d’attacco, dicendo che sono uno stronzo per quel bacio sbagliato, per aver rovinato la nostra amicizia, per aver approfittato del suo dolore.
L’acqua borbotta alle mie spalle; la verso filtrandola nella sua tazza.
«Cosa volevi dirmi?» chiedo. Passo falso, mi maledico.
Prima di rispondermi soffia stringendo le labbra. Prova a fare un sorso per tastare la temperatura: si scotta la lingua, la tira fuori rossastra mentre sbatacchia la mano cercando sollievo. Le diluisco il beverone con dell’acqua più tiepida. «Attenta» dico, in un tono bonario e preoccupato; più di ciò che avrei voluto, più di ciò che mi spettava.
Mi guarda attraverso i fumi bianchi. «Dobbiamo parlare del ba…».
Non riesce a terminare la frase che improvvisamente capitombolo dalla sedia. Cado letteralmente da seduto. Il corpo è come tirato verso il basso dalla schiena, sbatto anche la testa, ma la mia gamba destra veleggia nell’aria. La schiena e le braccia assecondano la gravità, le mani si puntellano tra le fessure delle piastrelle, mentre la gamba destra tira il mio corpo verso il soffitto. Bea mi guarda esterrefatta, forse preoccupata.
«Che succede?» biascica. La mia risposta è una preghiera: di andarsene, la richiamerò.
Raccoglie le sue cose e corre, mi pare di intravedere i suoi occhi lucidi. Rimango in cucina con questa gamba leggera. Dal basso la guardo come si fa con gli alberi nelle foreste. Con gran fatica arrivo al letto nonostante la mia gamba destra pretenda la sua personale levitazione. Si impossessa di me una nuova vergogna ancor più viscida della precedente, mista a una sincera preoccupazione per questa gravitazione parziale, indipendente dal cerchio di terra rossa nascosto dalla stazione.
Dilatazione della strada leggera nei miei tessuti.
Sospiro: Bea non mi riscriverà mai più e un po’ l’idea mi manleva dalla responsabilità di affrontarla. Quindi arriva il sonno cautamente, lo accetto e vorrei fosse una specie di morte non violenta, un congedo educato da questa vita così complessa.

4.

Sotto: geometria della vita, intersecazione plastica. Spilli di carne solleticano l’epidermide della terra. Cristalli neri ne aprono la crosta, ecco le cicatrici di cuoio, sbuffi di anidride. Linee d’asfalto si allungano, si piegano quindi si curvano.
Sopra: bagliori giganti, pestoni sulla terra. La gravità è una quisquiglia però, posso cadere, cado, perforo l’aria, la realtà sta per infrangersi, il mio corpo sarà una pozza d’acqua rubina. Ti prego, Dio dell’aria, concedimi un’altra gravitazione.
Fioretto: non sarò mai più pesante.
Mi schianto: al suolo il sonno si sfilaccia.

5.

Urlo il nome di Bea, l’unica che può fermare la mia caduta. Il suo nome si allunga dal sonno alla veglia, reggendomi come un filamento di fibre metalliche tra l’onirico e il reale. Sulla bocca ho ancora le sillabe del suo nome per intero.
Aprendo gli occhi il soffitto della stanza mi pare più vicino del solito, un orizzonte familiare ma troppo prossimo. Prendo coscienza della gravitazione, cado sul letto, annaspando, cercando l’aria dei terrestri.
Un sole caldo attraversa le imposte, lancia un quadrato dorato sul letto. Mi sfiora le cosce, le mani, mi calma e infonde coraggio: sorprendendomi di essere ben saldo al suolo, mi lavo di dosso la vergona, scelgo il vestito migliore e con le chiavi in mano corro giù per le scale.
Dovrò scusarmi con Bea, parlare del bacio, è giusto per lei, è importante per me. Scendendo in metropolitana sono travolto dall’acidità della gelosia. Roberto si sarà fatto vivo. Nella folla sudata batto il piede, nervoso. Sono un lampo: scale, tornelli, aria fresca, sole in viso, passaggio pedonale, marciapiede di piscio, sigaretta, mozzicone nel cestino; eccomi, sotto casa, suono.
«Chi è?».
Dico il mio nome, levando le cuffie dalle orecchie.
Pausa. La sua voce si addolcisce: «Andiamo a fare colazione?».
Play. Le rispondo di sì, con un’allegria frizzante.
Ora, tranquillizzato dalla sua voce, mi accovaccio sul portone stringendo una sigaretta tra le labbra. C’è come un’entropia delle cose che funziona per vie sconosciute, che ordina ogni elemento al posto assegnato. Una riconoscibile disposizione cosmica. Mi sembra un pensiero leggero, naturale da elaborare, quasi scontato. Così il traffico che mi sfreccia davanti agli occhi è una macchia allungata di metallo policromatico.
Sarebbe bello vederla dall’alto, capirne il disegno e la posizione, decifrare il geroglifico che traccia con la sua corsa. Poi planare in parallelo a questo movimento frenetico, seguire le scie dei vapori nocivi, sentirsi leggeri, superiori in senso stretto, nella disposizione gerarchica dello spazio, superare le invidie letterarie, sorvolare le preoccupazioni salariali, i cappotti sporchi e i baci umidi di vergogna. Mi distrae il rumore della porta, Bea si affaccia, mi cerca, scorgo la sua testa muoversi in tutte le direzioni tranne che verso l’alto, ovvero verso il punto da cui la osservo. Un suo messaggio: dove sei? Il cellulare mi cade dalle mani, arriva ai suoi piedi. Lei finalmente alza lo sguardo ma sono già troppo in alto perché se ne possa accorgere, perché io possa continuare a vederla. Un puntino, ormai.


In alto: foto di Evie S. / Unsplash.

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