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Attraversate la grande rotonda dei Martiri al centro, con la premura di non farvi investire, e li scorgete riversi, le spalle ricurve, pellacce squamose, non capite se desti o ronfanti, se morti. Forse una testa si gira a spiarvi: non fatele caso, se vi distraete dalla marcia non arriverete in orario. Milite, milite ignaro. Un impulso fa reagire la lingua contro la schiera inferiore di denti, a caccia dei semi di papavero incastrati fin giù nei molari. Passateli pure in rassegna, ma muoversi, muoversi!
No, che? un vibramento, la tasca, le mani al telefono, ma guardando lo schermo non trovate la causa: nessun interesse, nessuna notizia, nessuno vi cerca. Eppure qualcosa ha vibrato, vi dite, non l’abbiamo sognato. L’impressione sparisce nelle dita impugnate dal gelo. Ficcatele in tasca! e imboccate lo stradone dei Mille; via Galliera per spezzare la retta; svoltate a sinistra. Vi prude una spalla.
Meandri, pensate, di qua, sulla piazza dirimpetto al Teatro del Sole; salite lungo via Indipendenza (negozi baretti sgargianti festoni), ne uscite al più presto per ficcarvi nel Ghetto, sbucando su via dell’Inferno. Sta lì ad aspettare, vi dite, ma dove? E fra strati di avanzi di carta, biglietti timbrati e spicci accumulati nei jeans ripescate il foglietto, apparso giorni fa nella posta, già ripiegato tre volte e riposto in attesa che voi lo trovaste. Lo rivoltate con cura finché non leggete:

Lundi 3h santé donnée

Indovina indovinello: chi è francese, si diletta con enigmi e labirinti, scrive in una grafia smangiucchiata che fa sembrare i caratteri rosi come da bruco su foglia, e non vedete da mesi? Fa lo stesso, tirate corto.
Imboccate Zamboni e scovate in piazza la ressa: ora di cambio, della pausa caffè, una Peroni per poi ributtarsi al Paleotti finché non vi cacciano. Un’aria operistica scivola nello ska biascicato da uno speaker portatile. Lo ska è sovrascritto a mo’ di doppler dal vibrato metallico di una bici sul ciottolato in dissesto. Quasi vi falcia e va oltre senza notarvi; a mezza bocca ingiuriate: scavallati i trent’anni gettate pretese di cura sui passanti, specie se bivaccano e gingillano e poltriscono, e vi arrotano. Notate il biondo pennellone accasciato contro il colonnato del teatro, steso a L ai vostri piedi. Vi scorge di sottecchi e senza più badarvi riprende lemme a sfumacchiare la sua ciospa. Infame, infame, perditempo, pensate, finché non vi distraggono gli scambi commerciali all’incrocio di Petroni, accenni di litigi sulla diagonale con il Guasto. Stavolta non fa in tempo il senso di decoro a formulare un giudizio che riecco il telefono vibrare: ancora tremore fittizio. 14:11. Potete indugiare, cercare un bagno dove sciacquarvi e scardinare qualche seme dal castone gengivale. Siete anche usciti senza pisciare.
Al 32 si entra senza tesserino, ma i bagni, a memoria, dispongono di lettore alla porta: scartate l’opzione. Al Paleotti il problema sorge all’ingresso: la coda fa il giro dell’angolo e non la potete soffrire. Più avanti, il 36, la scura fortezza occupata da stuoli di zombie, non offre sbocchi urinari senza pass. Affidatevi ai filosofi, come negli anni di studio: superando i civici esclusi, varcate il 38 e accelerate anche qui, non perdere tempo, benché la vescica non scoppi e potreste rallentare. Non se ne parla: preferite una dissennata corsa feroce, a perdifiato arrancare sui gradoni e di botto affacciarsi su un prof intento in rimbrotti al telefono, schivarlo appena e assorbirne il disprezzo, schizzargli dietro, affanculo, per un pelo, e svelti zigzagare al primo bagno.
Torreggiate sul cesso reggendo nella sinistra lo smartphone, nella destra il pisello. 14:20, quaranta minuti. Per cosa? Il foglietto, ma siete a corto di mani e non vi fidate a lasciare libero il getto. Ripetete il messaggio: Lun-dì, truàs hurr, sante donne. Ridacchiate, non capendo se per il francese storpiato, o per il post di ACM che vi scorre sottocchio: assurdo che esista ancora la pagina, invecchiata male negli anni e assurta a organo memetico di una sinistra postironica – ma relegate la critica a un sentimento nostalgico e sciocco, la barbara infanzia di un’educazione politica. Navigate, ora maturi, ora trentenni, nel mare delle responsabilità. Tanto stabili non avreste mai potuto figurarvi. Persino una taciuta vaghezza di paternità sta insinuando le sue spire. E ne è passato da quando, da quando. No! That era has passed. E d’amor non si nutre. Titillarvi il prepuzio col medio conclude lo scroscio.
Appena scomparso il cellulare, risognate che vibri. Il gesto di estrarlo si mescia con la delusione di scoprirlo illibato: e tre, nessuno vi cerca. Non una richiesta d’amicizia, un like all’articolo condiviso in bacheca, un messaggio inaspettato, un meme inviato per ridere, un gruppo ravvivato da spam, una qualsiasi interazione non cercata, un insperato salvataggio, un’incrinatura portata sul volto di chi tace, spezzateci il giorno, le giornate indiscernibili, i polpastrelli consumati a forza di scrollare. Riporlo, non pensarvi.
Gonfiatevi d’acqua, andate a caccia di semi.

Lunedì – alle tre – nel quartiere San Donato: avreste dovuto incontrarvi con un’amica. Dapprima vi eravate sentiti coinvolti nel gioco e l’avevate assecondato, credendo di essere richiesti per ragioni esclusive. Voi, solo voi! Eccitati, vi eravate in fretta e furia fiondati per strada, sfilando per Bologna: avete rimandato persino la consueta sega postprandiale, tanto storditi vi aveva il sogno d’esser stati scelti, richiamati in servizio d’amicizia.
Dopo una pausa nei bagni al 38, sospettosi, vi siete chiesti se per caso non fosse uno scherzo, se quel messaggio fosse stato recapitato a voi, soltanto a voi, o se non si trattasse piuttosto di uno sbaglio. Un’amica ci aspetta: «Pauline, il y a longtemps». Lo avete sibilato beandovi della capacità intonsa, dopo anni che non praticate la lingua, di formulare frasi francesi, ipotesi di come avreste esordito una volta incontrata alle panchine del parco, dove sapevate di trovarla, tralasciata l’ipotesi di burla. Il y a longtemps. Eppure, non fareste un simile sfoggio con un parlante d’indole meno benevola: che figura! ritrattereste ogni cosa, vi sarebbe richiesto un idioma diverso, un inglese esibito a tentoni. Ma anche nella parola corrente a malapena sapete chi siete. Ciò non vi turbi: ignorate, ignorate le malelingue vostre interiori, non gli badate.
Scendete le scale con la tortura di volervi scusare col professore di prima, per pigliarlo dal bavero del cappotto sportivo e intonare un PROF, non era mica per offendervi! No, no, nooo, abbiamo avuto riguardo, evitandovi, no? allora perché, perché ci considerate inetti? si vede, non mentite! Negate? Vorreste mitigare il disprezzo con la pietà e pattuire all’istante la resa delle ostilità, vorreste che vi mollassimo, che non vi spaccassimo il cranio con questa spranga di ferro, che non lasciassimo il vostro corpo tramortito nell’androne sanguinante? Che non che non dei versi sui muri illeggibili mentre scendete le scale e non pensate più a niente, fate attenzione a non urtare gli studenti ciacoloni.
Da dove vi è nata la fretta di muovervi? Non smaniavate così da quando, da quando, sì! da quando Teo promise una visita: sarebbe sceso per voi da Milano. L’euforia vi aveva ingannato riguardo il suo intento – e la sua compagnia. Lo vedeste, con l’asma della corsa ancora in petto, scendere dal freccia assieme a una brunetta con esigue pretese di apparire; a prima impressione quasi scompariva dietro l’ala di Teo, rapace smanioso, che, una volta sceso, aveva costretto le riprove di affetto nei vostri confronti dietro un manto spessissimo di modi amichevoli e affabili, con il sorriso enfatico e teso di chi vuole qualcosa. Lei durante la gita in centro aveva centellinato le parole e mostrato interesse solo quando parlaste di Kafka – e voi fingeste di aver letto Il processo –, o quando Teo, bocca larga, provò a tirarvi dentro al progetto grafico di un album che stava producendo, di tali Meshida.
– Vogliamo un fotografo di cui fidarsi.
– Per un book?
– La copertina. Puntiamo a un certo target.
– Bene.
– Questi sono freschi. Servono facce, ma non facce qualsiasi.
– Le loro non bastano?
– Vogliamo dargli da subito luce, un mistero.
– Bene.
– Scatti che li rendano-
– Spettrali?
Non rispondeste alla Bruna, di nome di nome, e lì per lì il suo intervento sortì l’effetto d’una battuta infantile. Teo si limitò a una parca approvazione di capo, per poi tornare a inquisire sul vostro interesse. Il sorriso si inarcava a dismisura in un bilico tetro da zigomo a zigomo, incapace com’era di spezzarlo se non avesse rischiato di palesare il fine pratico, solo pratico, dell’incontro. Titolo del disco: Dissacramore.

– Bene.
– Idee?

Lunedì. Sono quasi le tre, ma voi non ne siete coscienti. Riconoscete può darsi antiche amicizie incamminarsi alle torri. Non potete seguirle, via Zamboni è una trappola. Restate imbambolati a passarvi la lingua fra i denti, appagati dall’assenza di intrusi. Il telefono vibra e stavolta non controllate, lo lasciate nel dubbio e cercate il relax al tono misto di opera e ska. Allungate le gambe sul battuto e poggiate la schiena a una colonna. Il relax è super. Chi lo dice? Non indugiate in ricerche di spessore: prendete la frase com’è, apparizione o citazione, non conta, vi appicciate una paglia. Ancora è presto, lo sarà a lungo.
Pochi raggi solari sbrigliati dalle nuvole si arricciano sui visi della piazza e li scorgete tutti, adesso, studenti e tossici, bici che presto o tardi verranno rubate, caffè sorseggiati da tazzine perlate dai bordi bombati, il murales col volto ridente di Lorusso e gli spari gli spari e la fila per il Paleotti che mezzo lo copre, un signore verticale in paltò e il suo manifesto disprezzo per voi che state disteso, fumante, a nulla pensando, lasciate che passi, e sentite i piccioni spaesati tubare, lucertole schive ansimare sui muri, chissà quanti ragnetti e formiche in ogni interstizio, le polveri danzanti coi microbi e i virus di corpo in corpo saltanti, ballano anch’essi nel viavai di Zamboni. E quanti fantasmi, creaturine a migliaia trasviste da vetri smerigliati di lucerna, da sottoboschi di ciglia socchiuse.
A ben pensarci, a contare quest’abbondanza di esseri, vi viene un languore di sonno. Dormite, l’oggi non ha nulla da esigervi. Pauline, chi era costei? che vuole da voi? Sfumano i tratti dell’urgenza, un palloncino tirato in tensione che sfiata, come piazza Verdi perforata da più parti dalle strade che la tranciano in crocevia. Ora, così ridotte, le vostre aspirazioni non hanno spessore, sminuzzate, e con esse vi sgonfiate e rilassate le membra e buttate la cicca e insinuate il torpore nella veglia; scivolate: dormite, dormite – alfine, dormite.

– Idee?
– Spettrali.

Che siete usciti a fare? Di Pauline, neanche l’ombra. Il foglietto, come se non fosse. E Teo, da quanti anni. L’atmosfera distesa di Verdi ha obliato i vostri intenti di poc’anzi. La colonna contro cui siete ancora poggiati non sembra pronta a liberarvi. Forse vi conviene scalarla, divenire lo stilita della piazza e da lassù svernare in un letargo dei sensi. Una questione posturale. Avreste ancora molto di cui preoccuparvi: il cane da portare a passeggio almeno tre volte al dì, committenti cui rispondere entro le scadenze e futuri ingaggi, aspettare l’incrinatura, ma tanto vale, per quanto nulla valga, scacciare ogni senso e mettersi in posa per il ludibrio di chi passa. La vostra caratteriale prontezza al sacrificio si commisura soltanto alla eguale paura di non avere nessuno con cui parlare; e non avendo più parlato con nessuno se non di lavoro nelle ultime settimane siete sul punto di accettare il sacrificio di mettervi lì, esposto e distante, a bersaglio. Fare un po’ il folle, ma farlo in silenzio e in assenza di moto. Aspetterete che qualcuno, chiunque, vi scocchi una frase, sia pure un insulto, un dileggio per farla finita, per fermarsi una volta per tutte.

– Forme?
– Spirali.

Che fare? «Pauline, il y a longtemps». Temete lo scherzo, fuggite la delusione, non vi muovete, se non per i minimi aggiustamenti esercitati contro il duro schienale. Tastare la gamba sinistra; trovarvi dimagriti. Qualcuno disse che la magrezza vi dona, il viso smunto mette in risalto i pregi dei tratti, ma così esagerate. Chi avrà più voglia di toccarvi? Oh! che svergognati che siete! Restate incatenati a scialbi vittimismi di maniera, spuntati al solito a sfatare il relax.
Il pomeriggio trascorre, voi siete bloccati come siete stati per ore. Le tre sono passate. L’appuntamento è perso. È lunedì, ma si avvicinano i vespri e il sole comincia a scucire il profilo del Santa Cecilia. La cromatura di Bologna a quest’ora vi ha sempre restituito il sentore di una tenebra ilare, quasi ridicola; ma forse, chissà, sarebbe potuta divenire più seria e dannata se inseguita nei vicoli fitti, o nei quartieri a nord dei binari, quelli che si appianano e allontanano in fuga e voi, per paura, vi appianate ugualmente, ma in direzione inversa, per paura di loro. Restate distesi e ignorate gli enigmi da risolvere, o gli appuntamenti da rispettare. Lasciate in pausa San Donato, purché l’invito, lo scherzo, valga per la settimana seguente. Ora non deve più interessarvi. Guardatevi attorno, la pianura è qui dentro. Si è propagata fino a lambirvi le suole. Anche la fauna – studenti, spaccini, fantasmi – è cambiata: siete precari allo sguardo di chi passa la piazza.
Qui attorno non avete più amici.

– Chi?
– Noi due soli.

Bologna è una trappola. Qui scivolano nebbie di smog e s’incastrano senza più modo di uscirne. Qui il ritratto della giovinezza viene fatto a forza di voti e ricatti domestici. La sola speranza è intrufolarsi dove esaminatori e padroni non possono beccarvi, benché non a lungo potrete sfuggire al loro gioco degli obblighi. Ma qui voi girate come alla Mecca dei balocchi e incontrate al Pratello mistiche e santi, chi non trova rimedi e la notte si azzanna – qualcuno ne gode, beato. Qui di amore, di amici, di sesso. Qui Bologna la notte calata sulle teste ubriache di piazza, senza tregua il trafficare di Guasto e Petroni. Si strozza qualcuno, tossiscono all’angolo. Sputato, il catarro si mescola ai fiumi d’affetto cosparsi per terra. Ricordate di allora, di quando eravate studenti, di quando eravate al grado zero del vivere, innocui e prolissi tiravate a perdere giorni dietro allo svago e, nella piena degli eccessi, eravate. Vibra ancora il telefono. Eravate con loro.


In alto: foto di Francesco Luca Labianca / Unsplash.

2 Comments

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