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È ben noto che gli anni “tondi” (i quaranta, i cinquanta, i sessanta…) non segnano affatto scadenze più significative di altri: i ventitré, per dire, o i trentasette. Ed è altrettanto noto, però, che l’illusione di aver raggiunto in qualche modo una meta, o un punto di svolta, invita nostro malgrado ai bilanci. Mi permetto quindi, dopo aver messo così le mani avanti, uno sguardo retrospettivo, anche perché l’anno 2022 coincide non solo con il mio sessantesimo, ma con la pubblicazione del centesimo volume da me tradotto.

Se ripenso alla mia attività di traduttore nel suo complesso, devo dire per prima cosa che ho avuto a che fare con molti autori importanti, alcuni addirittura famosi, come Quentin Tarantino, o Patrick McGrath, e che frequentare i loro testi mi ha dato momenti di grande felicità. Ho tradotto anche qualche schifezza (sì, sì, proprio così!), inevitabilmente, perché ci sono momenti in cui se si ha bisogno di soldi si accetta qualsiasi cosa, e in un paio di casi mi sono addirittura rifiutato di firmare il lavoro perché mi vergognavo di mettere il mio nome su certe pagine… Ma nel complesso, ripeto, il bilancio è positivo – anche dalle opere di intrattenimento, come quelle di George Romero, o di Don Winslow, o di Trevanian, ho imparato molto.

Questa è la seconda cosa che sento di dover dire: traducendo ho imparato molto (e naturalmente continuo a imparare) – in termini di lingua, ma anche, come si dice, di “enciclopedia”. Tradurre vuol dire leggere al rallentatore, leggere col microscopio, lasciarsi in certa misura invadere dal testo che si ha di fronte – e ogni libro mi ha quindi lasciato qualche parola in più (non solo delle lingue di partenza, ma anche della mia), mi ha insegnato ad ascoltare la musica delle frasi, girandole e rigirandole fino a ottenere l’effetto voluto, e mi ha costretto a studiare (o almeno a informarmi su) argomenti che mai mi sarei sognato di approfondire altrimenti: dalla struttura di una portaerei nucleare al funzionamento di un manicomio vittoriano, dalle attrezzature degli alpinisti di un secolo fa alla genealogia delle famiglie mafiose di New York.

Ho commesso errori, nel corso di questo lungo viaggio? Molti. Alcuni veniali, altri ahimè più gravi. Mi consola la consapevolezza che nessuna traduzione è perfetta. So che qualcuno sostiene e teorizza il contrario, ma la mia esperienza è questa: come tutte le cose umane, le traduzioni sono sempre migliorabili. Per questo si continuano a ritradurre alcuni libri (quelli che nella lingua originale sono diventati “i classici”) – perché, come l’analisi critica, così anche le traduzioni (se fatte seriamente, cioè se intese come “interpretazioni”) progrediscono. Tornerò su questo tema fra poco. Prima voglio dire una terza cosa per me importante, e cioè che in più di trent’anni ho incontrato persone meravigliose (come l’editor che, a fronte di un lavoro mal fatto – era il mio primissimo –, non me l’ha pubblicato, no, ma mi ha fatto capire dove avevo sbagliato, dandomi una lezione preziosa) e persone tremende (come la signora inglese che, avendo sposato un italiano, era convinta di essere diventata madrelingua per osmosi e mi correggeva ciò che era già corretto).

Naturalmente, e credo che tutti i traduttori, o quasi tutti, direbbero lo stesso, le cose più belle le ho fatte negli ultimi anni e le sto ancora facendo: mentre scrivo queste righe sono immerso nelle bozze dell’Antologia di Spoon River di Masters, che mi ha impegnato per quasi tutto il periodo della pandemia, e in quelle del terzo romanzo di Abdulrazak Gurnah, il premio Nobel 2021; e sto preparando non senza emozione il primo corso per traduttori che terrò a Firenze – insegnare quello che so, mi scuso se suona un po’ retorico, ma è una delle attività che danno un senso alla mia vita, il pensiero che qualcuno continuerà dopo di me a tradurre, o a recensire, o a pubblicare ecc., è all’origine di un’altra illusione preziosa: che il mondo continuerà dopo di me e, chissà, in qualche modo a me ignoto, non omnis moriar

Dico in qualche modo a me ignoto perché, inevitabilmente, e per fortuna, il lavoro di traduttore cambierà, e tanto. Ho sperimentato in prima persona l’entità del cambiamento: il primo libro l’ho tradotto quando ancora non avevo un computer (l’ho acquistato con i soldi guadagnati appunto con quella traduzione…); oggi posso dire senza vergogna che ormai da anni utilizzo i vocabolari cartacei solo in casi eccezionali, perché tutto il lavoro si svolge a video, grazie ai dizionari online e ai traduttori automatici, che ovviamente non mi forniscono mai la traduzione, ma in alcuni casi, soprattutto dall’inglese, sono uno strumento utile e in via di continuo miglioramento. Qualcuno si scandalizzerà per questo – mi dispiace per lui.

A testimonianza di quanto il lavoro sia cambiato, torno come promesso su un argomento già accennato. Mi è capitato infatti (non credo che sia un’esperienza comune) di ritradurre a distanza di vent’anni lo stesso libro, Sulla riva del mare di Gurnah – l’avevo tradotto una prima volta nel 2001 per Garzanti, l’ho ritradotto nel 2021 per La nave di Teseo. Naturalmente ho corretto qualche svista (come dicevo: siamo esseri umani, la perfezione non ci appartiene…); ma soprattutto ho potuto misurare come è cambiata in vent’anni la mia professione. Vent’anni fa tradurre un autore africano, per chi non fosse uno studioso di culture africane, era una vera impresa: Gurnah scrive in inglese, ma inserisce nella sua pagina molti termini arabi e swahili (le due lingue della sua infanzia, trascorsa sull’isola di Zanzibar, sulla costa della Tanzania). Laddove il contesto non aiuti, spesso il termine risultava incomprensibile: i seredani sono pentole, bracieri, cibi, prodotti agricoli, o oggetti d’arredamento? la parola mawlid, su che dizionario vado a cercarla – tanto più che la trascrizione inglese non è sempre la stessa usata in italiano? Parliamo di un’epoca in cui le enciclopedie disponibili dedicavano all’Africa uno spazio risicatissimo e alla pubblicazione del primo dizionario italiano-swahili mancavano cinque anni. Giornate e giornate in biblioteca, spesso con risultati insoddisfacenti… Ora non solo ho trovato immediatamente la risposta a queste e a mille altre domande di carattere linguistico e/o enciclopedico, ma ho potuto seguire gli spostamenti dei personaggi passo passo, grazie alle mappe online, non solo a Londra, ma anche a Mombasa e a Dubai, e perfino nei villaggi più sperduti. Aggiungo che il mondo intorno a me è cambiato: ho conosciuto amici africani e musulmani, ho tradotto altri libri africani, ho letto i grandi autori delle letterature post-coloniali, ho visto film, ascoltato musiche – insomma ho vissuto i cambiamenti (diciamo pure: gli arricchimenti) della società e della cultura italiane. La mia vecchia traduzione appartiene ormai a un’altra epoca. Immagino (spero) che fra vent’anni si potrà affermare lo stesso dei lavori che faccio ora. Vorrà dire che la vita nel frattempo è continuata, con o senza di me. Che il mio lavoro è stato un piccolo segmento di una trama più vasta, un dettaglio del disegno collettivo che, tra mille tentativi ed errori, chi fa questo mestiere porta avanti.

Mi resta ancora da confessare che solo approfondendo la sua conoscenza, cioè ritraducendo il libro che me l’aveva fatto conoscere e poi affrontandone altri, ho capito il valore letterario di Gurnah: la motivazione con cui gli accademici di Svezia gli hanno attribuito il Nobel (“per la sua rigorosa ed empatica analisi degli effetti del colonialismo e dei destini dei rifugiati”) dice una parte della verità: certo, Gurnah racconta storie parzialmente autobiografiche di colonialismo, di immigrazione e sradicamento, in qualche caso di razzismo. Tuttavia, il valore di uno scrittore non può essere ridotto alla nobiltà dei suoi principi etici. La forza poetica di Gurnah non è legata solo ai temi che affronta, che pure ovviamente hanno una innegabile importanza, a me pare che sia legata soprattutto alla densità della sua scrittura e del suo modo di raccontare.

Gurnah ci coinvolge in un vero e proprio fuoco d’artificio di invenzioni, di trovate, di idee inaspettate – i suoi romanzi procedono accumulando divagazioni, parentesi, excursus, parlano dell’epoca coloniale e dell’oggi, della condizione degli immigrati e delle tradizioni popolari del suo paese di origine, di amore e di commercio, alternano i toni umoristici e quelli drammatici, riescono a farci riscoprire come se la leggessimo per la prima volta perfino una storia notissima a tutti i lettori italiani come quella dell’uovo di Colombo… E soprattutto ci costringono a uscire dagli schemi e dai pregiudizi: non troviamo mai i colonialisti cattivi e i poveri tanzaniani vittime innocenti, ogni personaggio è sfumato, complesso, umanamente vero. Un solo esempio, che spero sia un valido invito a prendere in mano i suoi romanzi per una lettura integrale: all’inizio di Sulla riva del mare, un anziano profugo di nome Shaaban arriva all’aeroporto di Londra e viene bloccato perché è senza documenti. Il doganiere che lo interroga pensa che si tratti del “solito” africano ignorante e disperato, ma Shaaban è un antiquario coltissimo, che parla l’inglese meglio di lui e cita Shakespeare e Melville, lasciando l’ingenuo funzionario a bocca aperta. Il lettore si sente partecipe della superiorità di Shaaban, che racconta in prima persona il buffo episodio – e vedrà giustamente messi alla berlina i suoi pregiudizi: scoprirà infatti che non per ragioni politiche o etniche il nostro eroe è stato costretto a fuggire, ma per una banale questione di eredità, per una lite familiare, insomma, che è degenerata fino alla violenza.

Così, con ironia e arguzia, lo scrittore ci mette cordialmente in difficoltà e ci invita a cogliere il valore universale della sua opera – che non parla solo di ex colonie o di immigrazione, ma dei limiti del nostro sguardo e della nostra ridicola e commovente imperfezione di esseri umani.


Photo by Patrick Mueller on Unsplash

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