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Io mio padre non l’ho mai visto per intero. Anche se un giorno ci sono andata molto vicina. Lo avevo seguito strisciando fino alla cucina e lui si era fermato davanti al frigorifero. Mi ero messa sotto una delle fessure più grandi, dove potevo vedere meglio. Mio padre aveva aperto il frigorifero e preso una bottiglia d’acqua; da dove mi trovavo potevo vedere il suo collo che si gonfiava a ogni sorso e persino la testa e un orecchio. Mi ero spostata solo di poco, volevo provare a vedere anche la faccia, finalmente, ma chissà come ho fatto, forse ho sollevato troppo la testa, non mi ricordo. Ho battuto la fronte così forte che il pavimento ha tremato e mio padre ha lasciato la bottiglia, e quella è caduta per terra. Siamo rimasti immobili, mio padre e io, ad ascoltarci, muti, mentre l’acqua gocciolava fra le assi del pavimento e mi cadeva sui capelli e sulla schiena.

Il primo a muoversi fu mio padre, che corse fuori dalla cucina chiamando mia madre, dicendo che non ne poteva più, che bisognava fare qualcosa. Mia madre rispondeva che era il solito paranoico, che era per lo stress che sentiva tutti quei rumori. La verità era che mio padre era convinto che sotto il pavimento ci fossero i topi. Invece, sotto il pavimento, c’ero io.

Anche se non sapevo come fosse mio padre per intero, conoscevo a memoria alcune parti. Per esempio, avevo visto così tante volte i suoi piedi che potrei descrivere perfettamente le sue unghie, le vene e le loro curve mollicce, i peli sulle dita, e persino le caviglie, con quell’osso che sembrava un bottone e immaginavo che se l’avessi premuto sarebbe schizzato in alto come un razzo. Oppure, magari, sarebbe sceso dove ero io. Della sua faccia non sapevo niente, a volte pensavo che non ce l’avesse, magari vagava da qualche parte per casa come un palloncino.

Mia madre, invece, lo sapeva bene che io ero sotto il pavimento, perché mi ci aveva messo lei. Quando ero piccola, e mio padre non la vedeva, si sdraiava accanto a me e mi raccontava come mi avesse messo lì sotto.

Lei e mio padre erano andati a vivere in una vecchia casa, con i muri scrostati, i mobili bucherellati dalle termiti, un pavimento con le assi di legno mezzo rotte, alcune si potevano persino sollevare. Mia madre mi raccontava che io nacqui all’improvviso, come uno scherzo di cattivo gusto, diceva proprio così, e quando mi prese fra le mani odoravo di sangue e vernice. Presa dal panico, mia madre aveva sollevato una delle assi del pavimento e mi aveva nascosta sotto. Poi era rientrato mio padre e lei aveva fatto finta che nulla fosse accaduto, e mi diceva che io rimasi zitta, non emisi un lamento, tanto che pensò che fossi morta. Invece, quando tornò e sollevò l’asse, mi trovò ad attenderla, e quella era la mia parte preferita della storia, perché mia madre diceva che potevamo essere complici, io e lei.

Ogni tanto era costretta a fermarsi a fare delle pause, perché sentiva i passi di mio padre sopra di noi, allora metteva l’indice sulle labbra e mi fissava con gli occhi sgranati, spegneva la torcia e rimaneva solo il bianco delle sue iridi e un silenzio che strozzava la gola. Quando mio padre si allontanava riaccendeva la torcia e sussurrava quello è il tuo papà, ma io lo sapevo già chi fosse. Sapevo anche se cercava mia madre, oppure se solo camminava per casa, perché lo scricchiolio del pavimento era sempre diverso, e certe sere, quando aspettavamo che passasse, cercavo di capire dal piede che conoscevo a memoria se si portasse appresso anche la faccia, e tutto il suo peso.

Mia madre non gli aveva detto nulla di me, e se le chiedevo come fosse possibile che non se ne fosse mai accorto, lei si arrabbiava, iniziava a farfugliare, le si agitavano le mani, tutta la faccia si contraeva e alla fine diceva che non ne potevo sapere niente, nemmeno mio padre poteva, così mi salutava. La sentivo mentre ritornava da lui e alla domanda su dove fosse finita lei rispondeva con un “di là”, e questo bastava, a tutti e tre.

Io pensavo che la storia che mi raccontava mia madre fosse come vedere mio padre da sotto il pavimento, che mi fosse impossibile sbirciare tutti i pezzi.

C’è da dire però che io non ho trascorso tutta la vita sotto quelle assi. Mia madre mi faceva uscire approfittando dell’assenza di mio padre, e mi portava al parco, a volte mi comprava persino il gelato. Fuori dal pavimento ogni cosa era intera, non c’era il vuoto fra una parte e l’altra, nulla era diviso in pezzi. Tutti i bambini, i giochi e le strade e le case se ne stavano lì, era come se volessero prendermi in giro e mi sembravano finte. Allora mettevo le mani davanti gli occhi, le dita un po’ aperte, come se fossero le mie assi, per farli essere un po’ più veri. Mia madre si arrabbiava moltissimo, diceva che mi sarebbero venuti gli occhi storti di nonna Tina, anche se non avevo idea di chi fosse. Mi osservava con attenzione, mia madre, mentre correvo oppure leccavo il gelato. Dovevo stare con le spalle dritte, per fortuna non avevo il petto chiuso di zia Teresa, che ci era morta di petto chiuso, si era tutta consumata; e i capelli radi di zia Rosa, che indecenza fare vedere il cranio in quel modo; e dovevamo sperare che non mi venisse il naso del cugino Pietro, non si può mica nascondere quello che sta al centro della faccia.

Io chiedevo chi fossero tutte quelle persone che mi avevano messo addosso delle parti del loro corpo, che magari volevano riprendersele, e di me sarebbe rimasto qualche pezzo qua e là. Ma mia madre mi allontanava, «vai a giocare, sei troppo piccola», diceva. E mi sembrava che la bocca di mia madre fosse una voragine in cui precipitavano tutte le cose che non riuscivo a vedere e andavano perdute per sempre. Allora avrei voluto correre lontano, finché il parco non fosse diventato un sassolino per tenerlo in mano, tutto intero, con dentro mia madre e la sua voragine, così non mi sarebbe sfuggito più niente.

Poi però si faceva l’ora di tornare a casa, ed ero io il sassolino da riporre sotto il pavimento, senza lasciare nulla fuori, altrimenti mio padre mi avrebbe vista. Mia madre aveva l’abitudine di parlarmi della scuola, mentre tornavamo a casa. La sua voce diventava allegra, anche troppo alta, diceva che non vedeva l’ora di portarmici. Se le chiedevo che cosa si facesse a scuola, lei diceva soltanto che si imparavano le cose per come erano fatte.

«E come sono fatte le cose?» chiedevo allora io.

«Così come le vedi» rispondeva lei, facendo spallucce.

«Ma allora non serve che ci vada!»

«Poi vedrai» ribatteva, e pareva che non vedesse l’ora.

Me lo ricordo ancora, il primo giorno di scuola, lei sembrava così sollevata di lasciarmi lì, diceva che era perché così era certa che non mi sarebbero venute le gambe rachitiche, ma io già la immaginavo andare incontro a mio padre senza dovergli dire nessun “di là”.

La scuola, all’inizio, non fu così difficile per me, perché era come stare sotto il pavimento, solo che non dovevo strisciare, mia madre si era tanto raccomandata. Per il resto, rimanere in silenzio e uscire quando permesso erano identici.

Di nascosto, ogni tanto, mettevo le mani davanti agli occhi in quel modo che mia madre detestava, soprattutto quando c’erano i papà che venivano a prendere i figli. Me ne stavo davanti il cancello della scuola, le dita a coprirmi gli occhi e dalle fessure sbirciare il collo, la testa di tutti quei padri, vedere se somigliavano al mio. Mi piaceva cercare quello che non potevano sapere di se stessi, come quel neo sul collo, la macchia dietro l’orecchio, e sapere che un pezzo di loro lo conservavo io, e che erano incompleti senza saperlo. Alcuni mi insospettivano, con la faccia spigolosa come se avessero limato un pezzo con tanta pazienza; oppure con la faccia tonda come un pozzo, per buttarci tutto dentro e non farlo uscire mai più. Mi sembrava che qualcosa mancasse sempre.

Non mi sono mai aspettata che mio padre comparisse dietro il cancello, e poi non lo avrei nemmeno riconosciuto. Quello che mi aspettavo era che anche gli altri bambini vivessero sotto il pavimento come me, con l’unica differenza che loro potevano uscire quando volevano. Si vedeva subito che erano bambini interi, che sapevano di esserlo, e si erano accorti che io non lo ero, mi fissavano, mi giravano intorno, a volte temevo che potessero pestarmi anche se erano molto lontani.

Così, quando la maestra ci diede il compito di descrivere la propria stanza, io ero felice di dimostrare di poter essere uguale. Scrissi tutto, non dimenticai nulla: le assi del pavimento, quali erano più fragili, quali più solide, le fessure da cui vedevo meglio, e il loro odore acuto, che era come avere aghi nel naso, soprattutto quando si sbriciolavano in polvere. C’erano anche i sassolini che mi restavano appiccicati ai gomiti e alle ginocchia, e tutte le cose luminose che la mia mamma mi aveva portato, le torce, gli orologi che si accendevano, i giochi fosforescenti. Non tralasciai niente, fatta eccezione per la questione che non riuscivo a vedere mio padre, perché lo avevo promesso che non lo avrei detto. Ricordo che la maestra lesse il mio compito ad alta voce e i bambini scoppiarono a ridere, e lei urlò di stare zitti e poi mi disse di smettere di scrivere scemenze. Mi intimò di ascoltare, e scoprii di camerette con i lettini, le scrivanie, gli armadi, le finestre e qualcuno parlò anche di tendine e tappeti. Queste erano le cose per come erano, e ancora a me apparivano frammentate nei fogli di carta, masticate fra i denti dei bambini che leggevano i loro compiti, e mi sembrava che i resti mi si spargessero intorno.   

Alla fine credo di aver vissuto raccogliendo quello che potevo. Mia madre aveva smesso di tentare di convincermi del contrario, mi diceva che era molto stanca, e che io ormai ero abbastanza grande per vederla come mi pareva. Voleva solo che facessi più piano, che non tremassero troppo quelle assi, non sapeva più che scusa inventare a mio padre. Non poteva più trattenerlo, ogni volta che io sfioravo il pavimento lui minacciava di chiamare la disinfestazione, un pomeriggio mia madre li ha anche cacciati davanti la porta di casa. Ma quelle assi erano troppo basse per me, non riuscivo più a muovermi, non facevo che farle vibrare e mio padre era oramai ossessionato, li voleva cacciare quei maledetti topi che lo perseguitavano. Poggiava l’orecchio sul legno mezzo marcio e ascoltava, tutto il suo peso su di me, smettevo persino di respirare, fino a quando non si decideva ad andare via. Con il naso schiacciato per terra, non riuscivo più a vederlo, i suoi piedi sulla mia schiena, e anche quando si allontanava mi sembrava che potesse dividersi in centinaia di particelle, che mi inseguivano, mi rotolavano addosso. Tutto il pavimento era diventato una parte di mio padre, che si tendeva a ogni suo movimento e io cercavo di restare immobile, di non perdere nulla di me, per non farlo trovare a lui.

Io non so bene come accadde, fu come sentire un gran prurito, e desiderai essere tutta intera, anche se non era vero, portarmi appresso tutti i pezzi e appiccicarmeli un po’ come volevo. Diedi una spallata a un’asse e la spaccai, proprio vicino ai piedi di mio padre, e lo afferrai per le caviglie, premetti quell’osso che era un bottone e lo feci precipitare giù.

Il pavimento era fracassato in centinaia di schegge, le assi traballanti si spezzavano, erano piene di buchi, si scomponevano in detriti, la polvere si depositava in migliaia di granelli su me e mio padre. Mi sollevai fin sopra quel che era rimasto, e mi girai a fissarlo, questa volta dall’alto, mentre se ne stava per terra, gli occhi sgranati che si muovevano nervosi da me a tutti quei frammenti e il pavimento spaccato alla gola, e sembrava che mi riconoscesse, forse ero un pezzo che anche lui andava cercando. Alla fine, in mezzo alle schegge di legno, le urla di mia madre che disintegravano i muri, e le nostre facce scomposte mentre si fissavano, ero certa che quello fosse il modo in cui erano fatte davvero le cose: frantumate, dissolte. Provai a riattaccare a mio padre tutti i pezzi che avevo raccolto, cercai qualcosa di lui che forse giaceva ancora fra le assi, ma non ne venne fuori niente. Così, anche se lo ebbi di fronte, lo vidi solo a pezzi, mio padre.


In alto: foto di Mathieu Stern / Unspash.

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