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Ero rientrato al paesello perché avevo fallito. Avevo resistito meno di un anno. Mio padre, di fronte al mio ritorno, aveva reagito come se fossi stato in vacanza per un periodo troppo breve per maturare dello stupore, ma abbastanza lungo da rimproverarmene. Ora che dirai a tutti, eh? – infieriva dall’altro capo del tavolo, accendendosi una sigaretta, dopo il caffè – farai la fine della Megera. Mia madre invece, per una settimana, mi aveva abbracciato a ogni occasione possibile, per la commozione; poi, i giorni a seguire, di notte – e di nascosto – aveva pianto per l’imbarazzo. Se mio padre aveva risposto con un grugnito quando gli era stato domandato il perché fossi tornato, mia madre, al contrario, aveva edificato una scusante articolata, anche se poco plausibile. S’era inventata che, a causa del clima instabile e dell’inquinamento, avevo contratto un male ai polmoni ancora poco conosciuto, e che per trattarlo, in attesa di chiarimenti sulla sua pericolosità, mi era stato consigliato di abbandonare l’Inghilterra e di rintanarmi nelle temperature miti del mio paese d’origine. A chiunque avesse avuto un minimo di conoscenza scientifica questa motivazione sarebbe suonata tremendamente romantica e anacronistica, ma al paesello non viveva più nessuno al di sotto dei cinquant’anni, e chi era rimasto non era mai andato oltre la terza media. Così mi ero ritrovato a ricevere pacche sulle spalle accompagnate da mugugni dispiaciuti in un italiano misto a dialetto – qualcuno aveva finto addirittura di parlare inglese, per tirarmi su di morale, emettendo versi a labbra strette. In realtà non avevano fatto altro che affossarmi, e io mi ero limitato ad annuire e ringraziarli, tenendo fede alla menzogna. L’unica cosa che potessi sperare era che tutti quei vecchi non andassero a dire ai loro figli – che erano stati miei amici e compagni di scuola – del mio rientro, della mia presunta malattia e della mia condizione di stallo; perché loro ce l’avevano fatta, e ora erano sparsi per i capoluoghi d’Italia a ricoprire posizioni lavorative ben remunerate.
Non ero rientrato al paesello per il solo motivo di aver fallito. Anzi, il fatto di essermi fermato al solo impiego di delivery guy di una pizzeria era l’ultima delle mie afflizioni. Avevo abbandonato l’Inghilterra per solitudine, per semplice e profonda solitudine: quella che ti lascia in un monolocale di venti metri quadri con il gabinetto attaccato al letto, a guardare il grattacielo di fronte a meno di due metri dalla finestra, sorseggiando spaghetti istantanei – sulla scheda del telefono neanche un numero inglese memorizzato, nessun essere umano con cui poter condividere un briciolo di amarezza.
Allo scadere dell’undicesimo mese di permanenza nella pioviggine londinese, in un paio di giorni avevo rassegnato le dimissioni, raccolto le mie cose in una valigia e in un borsone, e dopo aver fissato un’ultima volta il vuoto dell’appartamento e del tempo che vi avevo trascorso mi ero chiuso la porta alle spalle e avevo lasciato le chiavi sotto lo zerbino. Una volta reinserito nel moto perpetuo della provincia, però, fui esposto ai racconti dei meriti di chi si era laureato nel periodo in cui ero stato distante, o di chi, alla mia età, spostandosi di solo qualche chilometro, era diventato capo d’azienda e padre di famiglia – i loro profili social erano un tripudio di auto e orologi di lusso, di settimane bianche e vacanze alle Maldive, di braccia stese a sfiorare aurore boreali, di baci infiammati da tramonti su spiagge vulcaniche, una vetrina di sorrisi perfettamente bianchi. La storia dei problemi respiratori ormai veniva ritenuta logora e incompleta, la gente aveva iniziato a supporre che fossi rientrato perché avevo messo incinta una ragazza e non avevo avuto le palle di assumermi la responsabilità di essere padre, o che ero stato coinvolto in operazioni illegali e che di conseguenza la legge aveva deciso di espellermi, per non dover gestire l’ennesimo delinquente; qualunque cosa pur di additarmi. Altri invece mi avvicinavano nel tentativo malcelato di estorcermi la verità – che comunque li avrebbe delusi, vista la banalità della sua natura.
L’unico contatto reale che potessi raccattare in quella bolla era il cenno che mia madre faceva nello sporgersi per annusarmi i capelli, dicendo poi, a bassa voce, che odoravano ancora di mandorla e vaniglia, di latte, o di bambola, come quando ero un neonato. Era l’unica a conoscere il reale motivo del mio ritorno – a mio padre era bastato sapere che non ero riuscito a fare carriera per trattarmi come una persona di grado inferiore; sapere della mia depressione lo avrebbe solo spinto a evitarmi.
Per non gravare sulle loro risorse – avevano lavorato una vita per una pensione da fame – m’ero fatto assumere, quasi per malinconia, in una pizzeria che faceva consegne a domicilio del paese appena dopo il nostro. Per sei euro l’ora, ogni sera, dovevo servire l’intera area: mi avevano concesso l’utilizzo del loro motorino, ricoperto di pubblicità del locale, che a fine turno dovevo rigorosamente lasciare nel cortile interno del negozio – le voci, che erano giunte anche a loro, avevano troncato ogni possibile fiducia nei miei confronti. Io, però, sopportavo il dover tornare a casa a piedi a notte inoltrata – circa quattro chilometri nel buio di campi e filari di pioppi – perché l’impiego mi permetteva di annullare ogni possibile contatto umano superficiale: le consegne presumevano una fretta che non lasciava spazio a chiacchiere, e al momento di lasciare le pizze tra le braccia del cliente mi limitavo con una mano a porgere lo scontrino, e con l’altra a incassare il denaro – non toglievo nemmeno il casco, la mia voce deformata dalla visiera.
Il lavoro mi consentiva inoltre di passare buona parte della giornata fuori dalla casa che mi aveva riaccolto, aspetto per me più importante in assoluto. Non sopportavo di dover frequentare la camera che un tempo mi aveva visto crescere, e che era cresciuta con me, ma solo fino a un certo punto. Sulle pareti erano ancora appesi i poster dei Phish e di altre band funk rock di cui avevo dimenticato l’esistenza, e il letto – avvolto in lenzuola tappezzate di piccoli piatti di spaghetti e polpette con gli occhi – riportava ancora le bruciature delle canne che avevo fumato in compagnia di quegli squinternati che ora erano altrove a godere del proprio successo.
Mia madre tentava di tutto pur di farmi riapprezzare quelle mura – tirava fuori dalla cassettiera vecchi album di fotografie, o mi assegnava piccoli compiti come sistemare qualcosa in giardino o riparare dei vecchi bauli in soffitta. Mio padre, invece, provava un certo piacere ad affossarmici, facendo leva sul fatto delle consegne. Cosa dicono, eh, quando gli dai la pizza? – infieriva, accendendosi l’ennesima sigaretta, dopo l’ennesimo caffè – che farai la fine della Megera, eh? Carmela, soprannominata la Megera, era stata amica di mia nonna. Mia madre aveva ereditato quell’amicizia come un lascito di cui sentiva di dover disporre, per pena e per altruismo, o meglio, per il bisogno egoista di sentirsi una benefattrice. Carmela era una di quelle persone che in giro si finge di non conoscere e che, come me, non potevano vantare una buona fama in paese – mia madre, infatti, se ne vergognava. Abitava in fondo all’ultima strada in una casupola di un solo piano, circondata da un grosso giardino maltenuto, in cui ospitava una colonia di gatti – alcuni randagi, altri in stallo per qualche giorno; altri ancora, ormai anziani, erano stati abbandonati lì dai padroni che non tolleravano di dover assistere alla loro morte. Non aveva marito né figli e si pensava perfino fosse in grado di esercitare qualche strana fattura – a chiunque capitasse una sfortuna, anche minima, si riteneva essere vittima di uno dei suoi malocchi. Questo – l’essere un uccello del malaugurio – era il destino che mio padre riteneva giusto per me, per aver fallito.

Un giorno, sul finire di settembre – l’equinozio di autunno si era portato appresso un grigiore fin troppo simile a quello inglese – mia madre, dopo avermi sfiorato per l’ennesima volta con le narici il cuoio capelluto mentre ero chino sul piatto di spaghetti che aveva preparato per mio padre – e che io stavo trafugando, scorrendo, con un dito, la solita vetrina di sorrisi perfettamente bianchi – invece di tentare di nuovo di dare un nome a quel profumo, armeggiò in un cassetto di fianco al lavandino e lasciò sul tavolo un pacchetto rettangolare, incartato con spago e pagine di giornale.
«Che devo farci?» dissi, senza alzare la faccia dal telefono.
«Portarlo a Carmela».
«La Megera?».
«Non chiamarla così».
«Anche tu la chiami così».
«Glielo porti, per favore?».
«Perché non ci vai tu?».
«Non posso, devo rifare il pranzo a tuo padre, visto che ti stai mangiando tutto tu».
«Non può rifarselo da solo?».
«Si può sapere che cosa ti costa?».
«Non mi va di farmi vedere con quella, ho già i miei casini».
«Te lo chiedo per favore».
«Allora glielo porto stasera, tra una pizza e l’altra».
«No, ora, che poi te lo scordi».
«Non mi va».
«Ti farebbe bene uscire a fare qualcosa di diverso».
«Non c’è niente qui che possa farmi bene».
«Devo arrabbiarmi come quando avevi sedici anni? – mia madre mi sfilò la forchetta di mano e la rimpiazzò con il pacchetto, capovolgendo poi il cellulare, in modo che lo schermo sparisse a contatto con la tovaglia – Gliel’avrò ripetuto venti volte al telefono, ma non ti darà mai la cifra esatta, non ha pazienza, controlla solo che siano almeno una trentina di euro».
«Fai sul serio?».
«Almeno una trentina di euro».

Abbandonai allora il piatto di pasta, m’infilai il telefono e il pacchetto nei pantaloni, rubai sigarette e accendino dallo svuotatasche di mio padre e uscii.
«Solo perché ti vergogni che sappiano che stai ancora appresso a quella» rimbeccai, prima di chiudere la porta.
«Ti farà bene» disse, mettendo un’altra pentola sui fornelli.
In strada iniziai a seguitare gli evonimi sul bordo del fossato, evitando l’asfalto, in modo che i miei passi, attutiti dall’erba selvatica, quasi non emettessero suono. Superati i caseggiati del mio vicinato, tirai fuori il pacchetto e, tentando di non dare nell’occhio, lo scossi. Emise un rumore come di pastiglie in un tubetto. Antidepressivi – di quel suono avevo la nausea. Mia madre se li faceva prescrivere a nome di una zia da tempo rinchiusa in una casa di cura, in un’altra frazione. Dava poi a me il tubetto e la ricetta, raccomandandosi di seguire le indicazioni. Ingoiavo una pastiglia ogni volta che ne sentivo il bisogno, ma sebbene potessi poi godere di qualche ora di pace, l’abbandono tornava con più forza, e più crudeltà. A un certo punto, dopo aver meditato per un’intera notte di ingoiare tutto il tubetto in un solo colpo – in quel caso la morte mi spaventò più della solitudine – smisi di prenderle, senza farmi notare, senza dire nulla. Mia madre doveva essersene accorta, e per questo ora le stava consegnando alla Megera, perché non andassero sprecate. La cosa mi fece sentire derubato dell’attenzione di mia madre, oltre a provocarmi il voltastomaco – così facendo, stava equiparando le nostre depressioni: il male era lo stesso, ma a meritare la cura era soltanto chi aveva il fegato di seguirla.
Poco prima di arrivare al suo cancello, mi sedetti sul muretto di una cascina, appoggiando la schiena alla ringhiera. Estrassi una sigaretta dalla tasca e la accesi, facendo dondolare il pacchetto con l’altra mano, tenendolo per lo spago. Dopo un paio di boccate, un’anziana signora, che non avevo notato essere china tra i filari di pomodori, nel giardino, mi chiamò attraverso le sbarre.
«Così non ti passeranno mai i problemi ai polmoni».
«Ha ragione» dissi, e scaraventai il mozzicone a terra, pestandolo con troppa foga, per l’imbarazzo.
La signora abbandonò l’orto e mi raggiunse, posò le cesoie sulla porzione di muretto all’interno del suo giardino, e allungò le mani sporche di terra per reggersi alle sbarre, poco sopra la mia testa.
«Questo tempo deve ricordarti quando eri via, – riprese, alzando lo sguardo al cielo – non ti manca?».
«No».
«Posso immaginare perché».
«Ora… vado, avevo solo bisogno di riprendere fiato».
«Certo, – la sua voce fu raschiata dal principio di una risata – se passi di qui per le pizze fermati per un caffè, mi farebbe piacere».
«Sarà fatto», mi alzai dal muretto e mi scostai di un passo, l’incombenza delle sue braccia cadenti iniziava a inquietarmi.
«La produce mio figlio».
«Cosa, scusi?».
«La mozzarella che c’è sulle tue pizze. Ha detto che se la fanno mandare pure in America».
«Dev’esserne molto fiero».
«Già, – si staccò a sua volta dalla ringhiera, e recuperò le cesoie – che ci fai qui a ora di pranzo?».
Mi limitai a far dondolare il pacchetto davanti ai suoi occhi, indicando il fondo della strada con un cenno del capo.
«Tuo padre non dice mai a tua madre di lasciar perdere quella Megera?».
«Non più, credo si sia stufato di non essere ascoltato».
«Uno dei suoi demoni mi ha fatto fuori tutte le galline».
«Mi spiace».
«Fai una cosa, per il caffè, passa solo dopo esserti fatto togliere il malocchio. Non si sa mai, non vorrei rimetterci pure i conigli».
«Sarà fatto».
M’incamminai, al centro della carreggiata, in modo che la signora percepisse i miei passi allontanarsi scricchiolando sull’asfalto – sentii i suoi occhi addosso fino a che non raggiunsi i primi metri di ringhiera dell’ultima casupola.
Una volta di fronte al cancello, la possibilità del malocchio iniziò a tormentarmi: ero perfettamente cosciente che non potesse succedere nulla del genere, ma allo stesso tempo il timore che la Megera potesse attaccarmi qualcosa di maligno trangugiò tutto ciò che restava della poca voglia che avevo di portare a termine quella consegna. Mi sedetti allora ai piedi di un castagno a bordo strada, abbandonai il pacchetto nell’incavo delle gambe incrociate e tirai di nuovo fuori dalla tasca le sigarette di mio padre, fumandone tre, una dopo l’altra.
Decisi di aspettare lì tutto il pomeriggio, fino alle sei, orario in cui avrei dovuto iniziare a dirigermi verso la pizzeria, per avere una scusa – sia per me che per lei, soprattutto per me – per fare in fretta, molto in fretta, riducendo al minimo le possibilità che quella Megera avesse il tempo di lanciarmi una delle sue maledizioni.

Verso le cinque e mezza il mio cellulare iniziò a squillare.
Premetti l’icona verde, lo portai all’orecchio e dissi: «Dimmi».
«Che fine hai fatto?».
«Ho quasi finito».
«Sei ancora lì?», nello stupore di mia madre c’era una nota spavento.
Si sono trovati!, disse mio padre, la voce distante, raschiata da un sorso di caffè, e prego, eh, per le sigarette!, aggiunse.
«Dopo vado direttamente in pizzeria» dissi.
«Non passi a mangiare qualcosa?».
«No».
«Ma stai bene?».
«Sì».
«Fai attenzione».
«Sì, mamma, sì».
«Scrivimi quando arrivi in pizzeria».
Chiusi la telefonata, ricacciai il telefono in tasca e presi un’altra sigaretta. La fumai a piccoli tiri mentre iniziava a piovigginare. Mi alzai e abbandonai il castagno. Allungai il mozzicone di fronte a me e lo guardai spegnersi sotto il flusso sottile e impalpabile delle goccioline. Lo gettai poi nel fossato e raggiunsi il cancello della Megera.
Premetti il pulsante del citofono. Il cancello scattò dopo un suono acuto, senza che nessuno mi dicesse niente. Io entrai, badando bene a richiudere immediatamente il battente – l’idea di un gatto in fuga e del conseguente rimprovero, o peggio, malocchio, mi terrorizzava. Carmela uscì dalla porticina verde della casupola e mi attese sotto la piccola tettoia ondulata. Percorsi il vialetto, raccogliendo su maglia e pantaloni i minuscoli puntini della pioggia. Nel giardino non c’era neanche l’ombra di una zampa, o l’ondulare di una coda.
Non appena le fui vicino – odorava di urina, e feci, e mangime umido di qualche sottomarca – le porsi il pacchetto e indietreggiai di un passo.
Lei se lo infilò in uno dei tasconi del grembiule e mi fece strada fino alla porticina verde – oltre l’uscio si sentivano le bocche dei gatti ansimare nelle ciotole. La spalancò del tutto con un piede e si fermò, voltandosi verso lo svuotatasche sulla sinistra, appoggiato a un mobiletto rovinato dagli artigli. Lo afferrò e rovesciò delle banconote e qualche moneta nelle mie mani.
«Mancano sei euro» dissi, continuavo a ripetermi in testa il numero trenta, quasi fosse uno scongiuro.
Carmela emise un grugnito e mi fece segno di entrare, per poi sparire nel ventre scuro della casupola. Io superai di un passo l’uscio e tenni la porta aperta – sentivo i talloni tirarmi indietro, tentati dalla fuga.
La cucina, sulla sinistra, puzzava di stantio: diverse latte di legumi precotti e bocconcini per gatti erano abbandonate sul tavolo, svuotate per metà. Sui fornelli, una grossa pentola di metallo rovinato fumava ancora, un mestolo di legno era piantato in un cumulo di polenta istantanea raggrumata – la scatola appoggiata di sbieco vicino alle manopole. Sulla destra, lungo tutta la parete del salotto, i gatti continuavano a masticare, rubandosi il cibo dalle ciotole e facendo schioccare le crocchette tra i denti.
Quando tornò, Carmela stringeva tra le mani uno strofinaccio. Mi diede i soldi che mancavano e mi allungò quella lingua di stoffa sulle spalle. Fece per sfregarmi, mollemente, come volesse asciugarmi, ma per il timore feci un passo indietro – mentre continuavo a ripetermi il numero nella testa. Lei allora ritirò la mano e fece una smorfia, triste.
«Grazie, – dissi, e per poco non mi uscì il trenta dalle labbra – allora vado».
Mi voltai e feci per andarmene, ma Carmela mi bloccò, aprendo una mano come a dire Aspetta. Io mi fermai sull’uscio – i talloni tiravano talmente forte che iniziai a traballare. Carmela raggiunse un angolo del salotto e si chinò su una coperta raggrumata a cuscino, raccolse ciò che c’era sopra e a piccoli passi tornò da me. Tra le mani stringeva qualcosa di piccolo e tremante, come un batuffolo di cotone. Allungò le braccia verso il mio viso, e me lo offerse. Un micino bianco sonnecchiava sui suoi palmi, le zampe raccolte sotto il corpicino minuscolo.
«Tieni» disse.
Stavo per dissentire, e darmela a gambe – a primo impatto lo colsi come l’inizio di una maledizione – ma nel suo sguardo liquido c’era qualcosa di intimo, puro.
«Non posso accettare» balbettai.
«Tieni. Bacialo».  
Mi sporsi verso l’animale e premetti le labbra sulla sua testolina. Il pelo odorava di qualcosa di tenero – di mandorla e vaniglia, di latte, o di bambola. Carmela mi sorrise e si riportò il cucciolo al petto. Con la testa indicò una delle sedie che attorniavano il tavolo ricoperto di barattoli e andò a sedersi lì accanto, lasciandola vuota.
Chiusi la porticina verde con un tallone, mi aggiustai lo strofinaccio sulla schiena, cosicché mi asciugasse anche il collo, e andai a sedermi. Per la prima volta, ogni cosa, in qualche modo, era rimasta fuori.


In alto: foto di Rusty Watson / Unsplash.

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