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Un’intervista a sei voci per un libro scritto da tre autori. Da luoghi lontani (Arkadia Editore, 2022) non è solo una raccolta di nove racconti (a firma di Giovanni Agnoloni, Carlo Cuppini e Sandra Salvato), ma un concept-book attraversato tutto dal tema dell’altrove, nello spazio, nel tempo e tra le dimensioni. Suddiviso in tre sezioni, “Memoria”, “Sogno” e “Spazi cosmici”, esplora i temi del ricordo, della distanza/prossimità delle sensazioni vissute da persone legate da vincoli di affetto e di pensiero, pur separate da migliaia di chilometri o da decenni. Ma sfiora anche gli orizzonti tentatori evocati dalle leggi della fisica e dai loro limiti solo apparentemente invalicabili, quando rapportati alle evidenze immediate della vita interiore degli esseri umani.
Svariati luoghi del mondo offrono il punto di partenza per questa esplorazione dell’esistenza (da Urbino alla Croazia, dalle Dolomiti a Londra, da Venezia a New York, dalla Sardegna all’Australia), che poi affonda nei misteri del tempo – dell’infanzia e della guerra, dell’amore e del rimpianto – e della stessa esperienza del “fare” letterario e artistico. Per affacciarsi infine sul margine abissale dello spazio profondo e dell’atemporalità.


Intervista a cura di Lia Amen, Anthony Fico e Filippo D’Eliso

  • Quando e come vi siete accorti (tu, Carlo e Sandra) che, pur esprimendo ciascuno il proprio particolare sguardo (e orizzonte), stavate realizzando una raccolta che si caratterizza per un’atmosfera comune e coerente?

    Carlo Cuppini: Il progetto di un libro a sei mani è nato nel 2018, in seguito a una presentazione letteraria in cui tutti e tre eravamo coinvolti in ruoli diversi. In quell’occasione, discutendo di letteratura e di progetti personali, è apparso lampante a tutti noi tre che le nostre somiglianze e le nostre differenze trovavano spontaneamente incastri, triangolazioni, consonanze e completamenti inattesi e stimolanti. È stato spontaneo dirci “facciamo un lavoro insieme”; e da quel momento la prospettiva di un orizzonte comune, inseguito da ciascuno con i suoi modi e lungo i propri percorsi, è diventata un fortissimo richiamo. È stata in effetti un’esperienza nuova e diversa del fare letteratura, per tutti noi: ognuno procedeva in solitudine, intessendo le sue trame, facendo i conti con i suoi personaggi, con le sue ricerche e con i suoi fantasmi; eppure sapevamo che in determinati momenti di questo o di quel racconto ci stavamo anche avvicinando l’uno all’altro, tramite canali invisibili e assottigliamenti delle membrane. Per tutto il tempo della lunga gestazione – quattro anni, dall’idea alla pubblicazione – ci siamo percepiti costantemente vicini e in dialogo, anche se i momenti di concreto confronto non erano ovviamente quotidiani. La differenza di stili, di temi, di generi non ha costituito un ostacolo; al contrario, ci è sembrata una ricchezza da raccogliere così com’era, nella prospettiva di un libro di racconti vari ed eterogenei nei livelli più esterni, ma saldamente uniti da linee sottili, vibrazioni e consonanze riconoscibili in quelli più profondi. In una fase intermedia del lavoro, quando ci siamo confrontati dettagliatamente sui materiali a cui stavamo lavorando ognuno per sé, la struttura dell’opera è emersa da sola. Tre parti, nelle quali ognuno di noi era presente con un contributo, articolate in modo da tracciare un disegno dell’esistenza: la memoria, e quindi il rapporto con il passato e con l’infanzia; il sogno, come incerta interrogazione della realtà, dei suoi strati, della sua tenuta, dei possibili diversi “realismi” dell’esperienza; gli spazi cosmici, come indicazione verso gli sconfinamenti, i passaggi di stato, la scoperta di soglie e il loro possibile attraversamento.

  • Anche se il sentimento di un luogo si orienta in qualche modo tra due polarità, lontananza/vicinanza, probabilmente non possiamo avvertire come “lontano” un luogo che non abbiamo prima sentito “vicino”. In quale momento percepisci che un luogo ti è vicino/relativo e che saprà poi manifestarsi a te nel desiderio dell'”altrove”?

    Giovanni Agnoloni: La misura della percezione della vicinanza o lontananza è sempre molto personale, e anche per la stessa persona muta negli anni. È una cosa su cui ho riflettuto molto, in questi mesi di intensa promozione del libro in giro per l’Italia e sulla Rete (v. qui). Il tempo, sappiamo ormai dalle più avanzate equazioni di fisica quantistica, in definitiva non esiste, ma è solo la percezione soggettiva dell’unico processo irreversibile in natura: la dispersione termica che si accompagna all’aumento dell’entropia (disordine). Del resto, l’aveva già intuito Sant’Agostino nel libro XI delle Confessioni, dove afferma che la misurazione del tempo avviene nella mente dell’uomo. Di “reale” rimane dunque lo spazio. Sappiamo però anche un’altra cosa: che lo spazio ha, come appare sempre più chiaro, una natura olografica, conseguenza del fenomeno dell’entanglement quantistico (ormai comprovato, tanto da aver fruttato l’ultimo Premio Nobel per la Fisica agli scienziati Alain Aspect, John Clauser e Anton Zeilinger): ne consegue che ogni punto, almeno potenzialmente, è collegato a tutti gli altri, ed è come se questi vivessero in quello, e ogni luogo potesse essere, al contempo, se stesso e ognidove (per mutuare un’espressione cara all’amico e collega Davide Sapienza). Questa “ovunquità”, se mi passate il neologismo, è appunto compresenza di “qui” e “altrove”. La differenza, ancora una volta, la fa la mente umana, che può percepire un luogo come vicino o lontano in relazione agli stati emozionali che sta vivendo. Nel mio caso, e non credo solo nel mio, il punto di comprensione, o di svolta, consiste in certe epifanie: insomma, arrivo in un posto e avverto che mi sta comunicando qualcosa con straordinaria intensità, così mi rendo conto all’istante che risuonerà in me a lungo e mi suggerirà storie, percorsi narrativi, scenari per i miei futuri (o attuali) romanzi e racconti – in genere so fin da subito quali, per quanto neanch’io mi renda conto del “come”. Forse è per questo che difficilmente scrivo di un luogo mentre ci sto dentro. Più spesso lo racconto quando sono tornato a Firenze, così come parlo di Firenze mentre sono impegnato in qualche residenza letteraria all’estero. In definitiva, quindi, il discrimine tra “lontano” e “vicino” lo produce sempre l’intelligenza intuitiva, canale di comunicazione privilegiato con la dimensione più sottile – quella che il fisico David Bohm avrebbe chiamato l’“universo implicato” (mi rifaccio al testo di Massimo Teodorani La fisica dell’infinito).

  • In questo percorso condiviso di (ri)/elaborazione di geografie fisiche/oniriche e della memoria, vi è capitato di riconoscere parole capaci di innescare il sentimento della lontananza, o magari siete riusciti a individuare un vero e proprio “codice” utile a ridisegnare luoghi lontani?

    Sandra Salvato: Immagino che ognuno possieda un proprio vocabolario per descrivere la lontananza, ma penso anche che alcune di queste parole possano invecchiare, non essere più funzionali a un racconto, placare o innescare tale sentimento, questo perché i fatti della vita ci sconvolgono, ci cambiano, mutano le nostre percezioni e quella familiarità che vantiamo rispetto a un concetto, una persona, un punto nell’universo. La lontananza non si misura solo col tempo e lo spazio, non sono sempre l’età o un luogo a determinare il metro, perciò non vedo codici lessicali che valgono ad libitum per rappresentarla. Prendiamo le fotografie, distillati di storia passata o presente capaci di funzionare da scivolo per vari altrove. Lo stato d’animo con il quale vado a decifrare il segno, ecco, per me quello è il vero architetto della lontananza, il suggeritore in un preciso momento. Vi sono immagini – magari scattate da una manciata di minuti – in cui non mi riconosco e che archivierò tra le cose incapaci di generare un rapporto emotivo. Vi sono lontananze che non riesco o intendo elaborare, altre invece mi vengono donate, e subito generano un ossimoro: la lontananza come prossimità, la lontananza che si fa sostanza viscosa, che mi rimane attaccata alla pelle. Mentre scrivo mi rendo conto che altre parole stanno andando ad aggiungersi a un vocabolario in continua evoluzione e che oggi, a quasi un anno di distanza dall’uscita del libro, potrei non puntellare questo atlante con le stesse parole di quando l’ho scritto insieme a Giovanni e a Carlo. La mappa di esistenze-assenze che è venuta a delinearsi sembra un unico viaggio compiuto da tre persone contemporaneamente con varie stazioni per ognuno di noi. Tuttavia, nonostante l’impressionante omogeneità, tanto in senso letterario che di pensiero, farei valere anche le rispettive differenze, intese come la possibilità di ciascun autore di ritrovare quelle stesse geografie fisiche e oniriche con altre luci interiori, parole in grado di far scintillare diversamente i ricordi e l’immaginazione. Siamo diversi da ieri e, probabilmente, anche da domani.

  • In una delle sue conferenze, Michel Foucault coniò il termine “eterotopia”. Il suo concetto si modella su quello dell’utopia ma è simmetricamente inverso rispetto a questa, perché privo del mito e dei luoghi che caratterizzano l’utopia. Sta a indicare «quegli spazi che hanno la particolare caratteristica di essere connessi a tutti gli altri spazi, ma in modo tale da sospendere, neutralizzare o invertire l’insieme dei rapporti che essi stessi designano, riflettono o rispecchiano». Un’eterotopia, per esempio, può essere uno spazio irreale che si apre dietro una superficie come lo schermo di un pc, oppure uno spazio reale connesso ad altri ambienti circostanti, come le nostre case. Ma le eterotopie possono anche trascendere il tempo collegando passato, presente e futuro, e nei vostri racconti i personaggi si trovano a muoversi sia per tempi che per luoghi in cui essi sono e non sono, descritti con un linguaggio privo di lirismo. Quali sono i miti e i luoghi comuni che cercate di dipanare nei vostri racconti?

    Giovanni Agnoloni: È una domanda che mi permette di riprendere e sviluppare i contenuti già emersi nella mia precedente risposta. La “plurisemanticità” dei luoghi-eterotopie sta proprio nella loro specialissima qualità di saper esprimere appieno il potenziale “olografico” di ogni punto dell’universo. È come se fossero impregnati di una sostanza di ognidove, capace di esaltarne la polivalenza percettiva, rendendoli straordinariamente ricchi di risonanze o sfumature di gusto, proprio come farebbe un accordo musicale intenso e seducente, o il sapore di una pietanza o di un vino carichi di molteplici sfumature. Solo che qui non sono in gioco soltanto i cinque sensi fisici, primo strumento di comprensione anche di significati più elevati – mi riferisco alla trattazione di Jon Kabat-Zinn nel saggio Riprendere i sensi –, ma anche quelli più elevati dell’intuizione e della percezione sottile. Insomma, le eterotopie geografiche (non penso tanto a quelle dei “non luoghi” sintetici della Rete) sollecitano le doti più “sensitive” della mente umana, spalancando echi di altri luoghi (come accade in tutti e tre i miei racconti, dove la mente diventa tramite di contatto e raffronto tra vari altrove) e di altri “tempi” dello stesso luogo, come per esempio succede nella Urbino de “Il palazzo rinascimentale” di Carlo Cuppini e nella Romagna, nella Pozzuoli e nella Spalato di “Niente da dichiarare” di Sandra Salvato. In tutto questo, dici bene, non c’è bisogno di lirismo, ovvero, potremmo dire, di propensione all’esaltazione “melodrammatica” delle sensazioni evocate da luoghi dotati di questo potenziale evocativo. C’è, al contrario, necessità di un realismo che sia piena aderenza all’esperienza totale della fruizione dei luoghi e delle esperienze. Ed è questo che abbiamo cercato di attuare. Il che significa – e qui sta il potenziale di “rottura” del nostro esperimento narrativo, al di là del fatto di essere un libro a tre voci – includere nella narrazione del reale tutti gli aspetti che esso propone, e non solo quelli che rispondono alla scontata dimensione della narrazione “orizzontale”, oggi prevalente in Italia, che al massimo ammette la descrizione della vita interiore dei personaggi, ma esclude le percezioni di Oltre. Noi, invece, inseriamo nella narrazione della realtà anche le visioni, le voci interiori, i sogni rivelatori che perforano il velo dell’apparenza. In alcuni casi si tratta di fatti che sono realmente accaduti, in altri di eventi che avrebbero potuto verificarsi. Nell’una come nell’altra ipotesi, fanno parte della realtà, anche se non sono spiegabili se non in un’ottica di “contemplazione” – dal latino contemplari, cioè “accogliere nello spazio sacro” della propria interiorità (dal templum degli antichi àuguri) –, che altro non è che la disposizione ad accogliere ciò che l’universo prospetta attraverso le storie che formano la Storia, anche quando sfuggono agli stretti parametri della logica materialistica. Ciò nondimeno esistono, e un realismo che pretenda di escluderli sarebbe per lo meno tanto orbo quanto il non saper provare meraviglia davanti all’ineffabile ricchezza della vita.

  • La letteratura, oltre ad essere luogo di espressione e condivisione, è anche terreno di competizione e conflitti. Di scrittori che hanno messo da parte le loro differenze (almeno temporaneamente!) per creare un sodalizio nella storia se ne contano pochi. Nel panorama italiano mi vengono in mente solo Fruttero e Lucentini, così diversi per cultura e formazione, che hanno popolarizzato la fantascienza in Italia e insieme hanno scritto dei libri memorabili. Nel caso della vostra collaborazione, come siete riusciti a trovare un punto d’incontro e a far convergere le vostre sensibilità in un’unica direzione?

    Sandra Salvato: Hai detto bene, la letteratura è un terreno di confronti e Da luoghi lontani ne concentra addirittura tre in un unico spazio. L’essere riusciti a trovare un nostro baricentro non è dipeso da una ricerca, dallo sforzo di assomigliarsi o trovare combinazioni vincenti di pensieri e parole. La forza della nostra magica “eterotopia” è nata da un istinto, che poi è quello che fa scattare l’amore, l’amicizia, la condivisione spontanea di un’esperienza. Se gli opposti si attraggono – così è stato per gli ideatori di Urania –, allora noi siamo anche più avvantaggiati: quando ci siamo incontrati per la presentazione del libro di Carlo Il mondo senza gli atomi, ci siamo come riconosciuti nel desiderio comune di avere pagine bianche a cui dare un corsivo denso, da riempire con un viaggio che stesse a metà tra il reale e il sognato. Le nostre rispettive sensibilità per alcuni temi dell’esistenza – l’importanza della memoria, di andare oltre la superficie delle cose, di vedere “oltre”, di crescere in consapevolezza affinando le proprie capacità di indagine di sé e di ciò che ci circonda o sta altrove – si sono fatte strada da sole, dimostrando come l’editoria abbia dei limiti nei preconcetti. Scrivere con altri autori si può fare, magari con lo stesso spirito con cui Mozart componeva divertissement “da camera” a quattro mani, ossia di intimità e complicità, capace di sottolineare la forza delle differenze e al tempo stesso i meravigliosi accordi armonici. La musica fa parte della scrittura; se un libro non ha una sua propria melodia o un suo ritmo, significa che non è riuscito neppure come assolo. Pensiamo anche a Wu Ming, alla forma di romanzo collettivo che è come un grande condominio dove ciascuno porta in dote la propria esperienza. Noi non siamo un trio e neppure Camilleri e Lucarelli, non si tratta di trovare la perfetta commistione di stili, ma una perfetta sintonia sul dove approdare. L’idea del dove, nello spazio e nel tempo, riguarda proprio il traguardo del pensiero, chiamato a spostare confini, creare diversi “luoghi possibili” come faceva Borges. Farsi sedurre dalla fantasia, dall’ipotesi di un’estensione del proprio io, farlo libero di volare in altri luoghi, significa tentare di accendere una luce su quello che non sappiamo. Le nostre scritture a volte paiono risolversi come un incanto, iniziamo a scrivere ma non sappiamo dove ci porteranno. Questa, secondo noi, è la forza del libro, che è fatto di una materia che trascende qualsiasi schema o diktat letterario, e trasporta in una pluridimensione che, come scrive Fritjof Capra ne Il Tao della fisica, rivela varietà e complessità infinite.
  • Nonostante la diversità dei temi e dello stile scelti per i vostri racconti, a una seconda lettura si nota una forte ispirazione tratta da qualche eco del passato. Quali sono i libri e gli autori che vi hanno maggiormente influenzato?

    Sandra Salvato: Alcuni dei “miei” autori li ho portati dentro le pagine, quasi a volerli far parlare direttamente: Julio Cortázar e Stefano Tassinari. Sono maestri a cui devo una parte importante della mia educazione letteraria. Mentre scrivevo ho riletto anche alcune pagine de L’Angelo della storia di Bruno Arpaia, di cui ammiro il passo elegante e la profonda umanità dei personaggi a fronte di una storia cruda e senza salvezza. La composizione dei quadri, la capacità di cucire le scene nel flusso della memoria è anche di Christa Wolf, di cui ho amato Trama d’Infanzia.

    Giovanni Agnoloni: Non sono mai “consapevole” delle influenze letterarie, mentre scrivo. A distanza di tempo, rileggendo i miei testi, trovo però delle assonanze. Potrei dirti che dietro il racconto “Alleghe” intravedo certe risonanze di Mario Rigoni Stern e di Vasco Pratolini, laddove dietro “Momenti sovrapposti” colgo sprazzi di William Gibson e dietro “Il sole residuo” intuisco la presenza di ambientazioni e atmosfere care a Paul Auster e a Don DeLillo. Ma sono, appunto, solo etichette percettive che lasciano il tempo che trovano. La genesi di un testo per me è sempre frutto, prima di tutto, dell’evoluzione di un magma interiore.

    Carlo Cuppini: Mi piace avere qui la possibilità di “intessermi” con le risposte dei miei co-autori. Cortázar è stato un “nodo” che fin dal nostro primo incontro letterario ha unito le maglie mie e di Sandra facendole diventare una sola coperta di lana calda e ispida, che invita allo stesso tempo al sogno e al brusco risveglio. E DeLillo potrebbe essere il nume tutelare in cui si incontrano e si sublimano i temi del tempo, del vuoto, della percezione, trattati con un’attitudine tanto narrativa quanto filosofica – temi verso i quali condivido con Giovanni un forte interesse. Un altro autore verso cui questi miei racconti sono debitori è certamente John Coetzee, per il suo sguardo scarnificato sull’infanzia e su altri misteri. Durante una presentazione del libro ci è stato fatto notare che ognuno di noi tre ha citato esplicitamente un autore in uno dei suoi racconti. Non è stata una scelta consapevole, ma anche questo fatto rivela forse un desiderio di contatto con i fili della letteratura che attraversano il tempo e gli spazi. Nel mio caso si tratta di Platone, che con il suo dialogo sull’immortalità dell’anima, il Fedone, viene portato da un astronauta all’interno della capsula spaziale, come viatico per potersi meglio smarrire, o per trovare la forza di ritornare a casa.

  • Tre autori, tre sezioni tematiche, tre argomentazioni: memoria, sogno, spazi cosmici, per un totale di nove racconti che si snodano in una simbolica differenza epocale anche inerente all’anno di nascita dei singoli scrittori: 1972, 1976, 1980. Un triangolo equilatero di lato quattro. Quale messaggio cela nella concretezza del reale un lavoro del genere, il cui attacco dirompente – nell’epigrafe iniziale – cita Fritjof Capra per la curvatura dello spazio vuoto che avvolge il mondo?

    Carlo Cuppini: Non provocarmi con la numerologia, o mi risveglierai troppi ricordi delle letture junghiane fatte negli anni dell’Università! Ma per restare per un momento nel gioco dei numeri, potremmo dire che questi casuali ritorni del tre e del quattro evocano l’aspetto a cui mi riferivo poco fa rispondendo a Lia: l’incontro in una forma unitaria di somiglianza e diversità, di stabilità e dinamica, di identità e trasformazione, di movimento e contemplazione. La forma geometrica che hai descritto racchiude e unifica tutto questo. Ogni libro, in fondo, è come il tempo della fisica moderna (ma anche come quello della metafisica medievale): un oggetto dato, un piano esistente in sé, tutto insieme, che tuttavia ha il potere di iniziare a scorrere, aprendolo e calandovisi all’interno; con il limite però di non poter fare esperienza, nello stesso tempo, del libro come oggetto compatto (da mettere sotto la gamba del tavolo) e del fluire del tempo e della vita all’interno di esso, e della nostra mente. O una cosa o l’altra. Il tempo e i tempi che abbiamo raccontato nei nostri racconti, così come i luoghi, sono lontani forse dalla percezione comune che se ne ha normalmente: sono scatole che contengono altre scatole, enigmi che si risolvono soltanto ponendo altri, più sottili, enigmi. Vuoi sapere se da queste premesse possa emergere un messaggio che riguardi la concretezza. Io credo di sì. Per prima cosa va chiarito che questo libro racchiude nove racconti che sono storie, narrazioni, accadimenti possibili, e non teoremi tesi a dimostrare qualcosa. In ogni stazione comandano i personaggi, i loro destini, le loro relazioni, i loro pensieri e sentimenti, le scelte e i casi. Tuttavia, una volta che il libro è stato pubblicato, nei mesi della pandemia, con Giovanni e Sandra ci siamo detti che forse un senso concreto, perfino politico, questo libro ce l’ha: nella misura in cui tenta di salvare alcuni fili sottili, invisibili, inesplicabili e avulsi da ogni possibile misurazione, della vita e delle storie. In un tempo dominato dall’ossessione per i dati e dalle preoccupazioni materiali, mostrare che esistono altri ambiti dell’esistenza che meritano di essere salvati può apparire come un messaggio incisivo, che si rivolge concretamente alla realtà della vita che, in fondo, ciascuno decide lungo quali traiettorie condurre.

  • Appare evidente, già nel titolo, una concezione quantistica del reale. Nel momento in cui tre osservatori guardano lo stesso mondo si avrà il collasso di tre realtà differenti. Siamo di fronte all’incompatibilità di un codice ternario che vuole superare la distopia dualistica degli opposti. Quale futuro ci riserva la vita?

    Giovanni Agnoloni: La concezione quantistica è decisamente al centro della mia visione della vita, nella quale (come sto cercando di illustrare in un mio nuovo saggio narrativo in corso di stesura) non vedo alcuna contrapposizione tra ragione e intuito, dimensione materiale e dimensione spirituale – come del resto ha evidenziato Fritjof Capra ne Il Tao della fisica, una frase tratta dal quale, come già sottolineato nella tua precedente domanda, abbiamo scelto, con l’approvazione dell’autore, come epigrafe in apertura del nostro volume. Detto questo, è evidente l’apparente contrapposizione due-tre che ben evochi, dato che tutta la fisica quantistica si basa sulla circostanza che le particelle subatomiche si “individuano” solo nel momento in cui le osserviamo, rimanendo altrimenti una “nube probabilistica” in cui sono al contempo corpuscolari e ondulatorie, insomma particelle e onde. È il fisico Carlo Rovelli, in tutta la sua produzione, ma in particolare nell’ultimo saggio Helgoland, a evidenziare come tutta la realtà, fin nella sua struttura più microscopica, sia imperniata sul concetto di relazione, dato che niente esiste di per sé, ma si definisce nel quadro di un’interazione con altro, in un ubiquo “gioco” di 1-con-1 che si proietta su scala cosmica, inglobando in sé anche il 3 e numeri ben più elevati. In questo senso, noi, come ben dici, siamo appunto tre, ma è anche vero che ciascun vertice di un triangolo è in relazione immediata, ogni volta, con uno degli altri due, per cui in ogni 3 ci sono tre possibilità di 1-con-1 che si sommano, elevandosi, in questo plurisfaccettato interagire, a una sorta di “potenza”, o meglio di “potenziale” infinitamente superiore. Carlo, Sandra e io ci siamo incontrati per una di quelle coincidenze non casuali che sono le sincronicità care a Jung e Pauli, il cui collegamento con l’entanglement quantistico appare assai fondato, come ben spiega sempre Massimo Teodorani in Sincronicità. L’essere amici che si sono ritrovati spontaneamente in un percorso letterario condiviso dopo essersi conosciuti alla presentazione di una raccolta di racconti di Carlo Cuppini intitolata Il mondo senza gli atomi sembra di per sé una dichiarazione d’intenti venata di queste risonanze. Ecco perché abbiamo lavorato efficacemente prima da soli, ognuno sui suoi testi, e poi, in fase di editing, insieme e l’uno sui racconti dell’altro, senza mai litigare, con uno spirito “beatlesiano” – della prima parte della storia del gruppo, almeno – che aveva come unico obiettivo rendere il più intenso possibile il risultato della nostra condivisione. Ovviamente non so che futuro ci riserverà la vita, ma sono convinto che non possa esserci futuro senza questi due fondamentali elementi: la consapevolezza di chi siamo (che è anche propensione alla realizzazione della nostra vocazione esistenziale) e la capacità di consonare con gli spiriti affini, senza la quale diventa molto più difficile anche saper sopportare quelli avversi, evitando così di cadere nella tentazione del conflitto, che già sappiamo essere quasi sempre distruttiva.

  • Nulla accade per caso. Mozart nel 1786 scrisse il Trio Kegelstatt in Mib per pianoforte, clarinetto e viola. Kegelstatt significa in tedesco “un luogo dove si gioca ai birilli”. Il Trio è composto da tre movimenti: I. Andante II. Minuetto III. Rondeaux: Allegretto. Eric Rohmer nel 1988 scrive in qualità di regista cinematografico la sua unica opera teatrale Il Trio in Mib. Si tratta in tutti e due i casi di un compromesso artistico: il clarinetto, strumento relativamente nuovo per l’epoca mozartiana, aumentò la sua popolarità e l’andante del primo movimento fu il trait d’union dei due protagonisti dell’opera di Rohmer. Quali ripercussioni con Da luoghi lontani avremo in ognuno dei tre autori Agnoloni, Cuppini, Salvato?

    Sandra Salvato: Mi fa piacere che torni Mozart in questa conversazione, si vede che vi sono inaspettate assonanze! Premesso che il compositore era già famoso a 14 anni – ricordo di aver scritto un pezzo su un suo viaggio col padre a Bologna per affinare il proprio geniale talento –, non è certo nella popolarità che risiede lo scopo della scrittura. Per quanto mi riguarda è prima di tutto un movimento interiore (per non perdere la similitudine musicale) che ha effetti taumaturgici, mi allontana dallo stress e dai pensieri lunghi, mi dà pace e si autoalimenta. Quando scrivo non smetterei mai. Non so se questo si potrà tradurre in un seguito, insieme ai miei coautori o da sola, ma sento di essere anche pitagorica: l’unità, il tre come numero perfetto, insomma… mai dire mai. Essendo il mio debutto letterario, sono ancora nell’onda di Hokusai, travolta da una forza che mi sostiene, dove il monte Fuji sullo sfondo è il traguardo, una visione che si dischiude oltre la schiumosa vertigine del mare. L’idea di navigare con due persone che stimo e a cui mi sento legata da una solida e profonda amicizia, mi offre il sostegno che un principiante spesso deve inventare per tenere alta la corrispondenza tra le aspettative e il viaggio. Da luoghi lontani ha materializzato alcune visioni, mi ha fatto incontrare voci solo pensate, destinate all’implosione di un pensiero solingo. La prima ripercussione è senz’altro questo senso di gratitudine che mi pervade e compensa i giorni che non trovano le parole o sono dedicati ad altro. Per adesso mi lascio trasportare e vediamo se vi saranno altri luoghi lontani che mi aspettano.

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