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Lo sanno gli occhi già stanchi.

Lo sa il piede sempre instabile.

Lo sanno le goccioline di sudore che scivolano lente sulla mia pelle. 

Lo sa il computer che va in stand by mentre sullo schermo nero riconosco il mio riflesso. 

Lo sa la penna stretta tra le mani. Sa cosa significa soffocare.

Nella hall, poche persone. Pavimenti di marmo bianco dove pilastri grigi ostacolano il sole in questo museo paradisiaco che un po’ odio. Vedo Gian dirigersi fuori, a fumare una sigaretta. Lascio cadere la penna sulla tastiera. Scuoto il pacchetto di Camel blu morbide, ne sfilo una e lo raggiungo, accendino in mano. A quell’ora, dopo pranzo, la frescura mattutina è evaporata sotto lo stesso biancore che sento ardere in gola. Mi faccio spazio fra i turisti indecisi. 

Supero la porta, Gian è di spalle ma mi sente vicino. La sigaretta tra le dita, la bocca in un mugugno amaro libera il fumo. «Fabri’, ho una proposta per te».

Esempi delle sue proposte per me: raccogliere rifiuti e rivenderli al mercato; vendere padelle alle signore e derubarle; spacciare a una sagra di paese; usare il furgone di suo cugino per improvvisarsi ditta di traslochi e svaligiare appartamenti.

«No, Gian, non ne voglio sape’ niente».

«Ma che è, sei matto?» mi stringe le spalle tra le mani e mi scuote, la cenere della sua sigaretta barcolla poco sopra la mia camicia.

«No, so’ stufo delle tue cazzate. So’ stanco, famme campa’». 

«No, no, ascolta zio. Questa è roba tranquilla. Ne ho parlato anche con Margot, lei è d’accordo».

Mi rigiro l’accendino tra le mani. Gian stringe ancora le mie spalle, la cenere è pronta a cadere. Basta un solo movimento. 

«Non è affar mio, Gian. E levami ‘ste mani di dosso». Mi libero e finalmente accendo la sigaretta.

«Eh! Come sei nervoso oggi, perché ti scaldi?»

Lo ignoro. Un bambino, ai piedi della scalinata, è appena sceso dalla macchina. Si volta a guardare ancora una volta e fa ciao con la mano verso uno sconosciuto al volante. 

«Hai presente quel quadro di Butti?»

«Butti?» Ci penso. «Forse Burri?»

«È lo stesso, ci siamo capiti…»

«Se, vabbè, e quindi? Quale?»

«Quello bianco che pare fango seccato… sta lontano dalle telecamere, secondo Margot è il più facile da portarci via. Ma dobbiamo farlo adesso, Fabri’» appoggia una mano sul mio braccio. Odio le mani di Gian sempre addosso, odio il museo. Odio ritrovarmi in queste situazioni. Non lo volevo nemmeno questo lavoro, ma in qualche modo dovevamo pur vivere. Io e Gian avevamo deciso di cambiare città, eravamo sempre a zero, sempre con il conto in rosso. Quest’ossessione per i soldi che non ci lascia mai.

«E che altro dice Margot?» 

«Dice che Burri si può vendere a undici milioni di euro. Capisci? Più di tre milioni l’uno. Tre milioni! È la nostra occasione, Fabri’. Dobbiamo farlo oggi stesso».

«Oggi? Zi’ un quadro è una roba seria, mica puoi improvvisare. Ma che stai scherzando?»

Gli luccicano gli occhi. Le gambe magroline del bambino, sotto un paio di pantaloncini, scavalcano gli alti scalini che portano all’entrata del museo. Le braccia, come ali, sembrano alla ricerca di un equilibrio che non gli appartiene. Ce la può fare, lo sa il bambino e lo so anche io. Imito il suo fiatone mentre tiro una lunga boccata dalla mia sigaretta. 

«Fabri’, ti devi fidare. Margot ha detto che il quadro serve pe ‘na mostra temporanea vicino Perugia, le guardie già sanno che devono passare gli addetti a ritirarlo e il capo sta fuori città. Oggi possiamo rubarlo, domani sta in Umbria. Fabri’, è la svolta, ma o adesso o s’attaccamo al cazzo».

«Non lo so, Gian, ma sei sicuro?»

Ha lo sguardo di chi ha fiutato l’incertezza, ma non accetta un “no” come risposta, e non ho scampo. È tutto quello che gli serve per darmi una pacca sulla spalla e dire: «Lo sapevo che potevo contare su di te, c’aveva ragione Margot».

Margot, la responsabile dell’ala ovest. Capelli lunghi, punte bionde. Passo leggero di chi spera di passare inosservata, (mai ai miei occhi). Appena arrivato qui, al museo, si è presentata. Dita sottili, smalto nero come i vestiti. Il sorriso di chi è pronto a ingannarti. E dopo la prima settimana aveva già completato la tela in cui ero pronto a cadere come una piccola mosca. 

Mi aveva portato in giro per il museo, chiedendomi cosa facessimo io e Gian, due tipi come noi in un museo, noi che di arte non ci capivamo proprio nulla. Le ho raccontato dei lavori che avevamo fatto negli ultimi mesi, del perché avessimo deciso di lasciarci Milano alle spalle. «Roma è casa, c’è più calore e non parlo solo di temperature».

Margot, sì, sembrava strana. Come se non mi stesse davvero ascoltando. Ed eravamo proprio lì, davanti al quadro di Burri. Poi, l’imprevisto. Aveva appoggiato una mano sul mio braccio, avevo sentito il calore esplodere, mi ero voltato verso di lei e… un bacio. 

Gian allarga leggermente le gambe, si sostiene stretto al pavimento, in tensione: «Senti qua. Entriamo adesso, non c’è nessuno. Tu prendi Butti…»

«Burri».

«Ah Fabri’… Ma mi stai ascoltando?» Spegne il mozzicone della sigaretta sotto la scarpa. «E se qualcuno ti ferma te dici che va pulito. Io t’aspetto fuori, sul furgone. Sali dietro e partiamo».

«E Margot?»

Il mio corpo e il suo, intrecciati nel bagno del museo. I suoi vestiti neri sul lavandino, le sue gambe intrecciate dietro la mia schiena e le mie mani a trattenerle i capelli, mentre appoggio le labbra sulla sua fronte. Cosa mi ha fatto? I suoi baci hanno il gusto della fine. La sua pelle mi appartiene, il suo orgasmo è la definitiva, già prevista, caduta. 

«Margot… lei deve solo venderlo».

«Eh, certo. Facile così, no? Io faccio il lavoro sporco e lei sta bella tranquilla. Grazie al cazzo. Ma ‘ndo sta adesso?» Getto via la sigaretta. Sento la sete, ma il distributore è lontano.

«No, senti. Meglio così, no? Io e te, Fabri e Gian, è sempre stato così, no? Mica si può mettere in mezzo una donna. Noi lo rubiamo, lei lo vende, liscia così».

«E gli allarmi? Ci sarà qualcosa, un sistema di sicurezza, un antifurto o che cazzo ne so».

«C’ha pensato Margot, fidate».

Avevo raccontato a Gian quello che era successo con Margot, il bacio e poi il sesso.

“Hai capito. Ce n’è voluto di tempo per dimenticare Iris”.

Pensavo che non avrei più amato nessuna dopo di lei. E adesso mi sento confuso, come astratto dal mio corpo, lontano da me. Margot non mi ha più guardato in faccia, e ancora mi evita. Niente messaggi, niente risposte. Ma Gian è riuscito a tenerle testa, a farsela amica, a pianificare una truffa che così semplice non può essere. Cosa sono per lei? Un gioco, un ferito da curare, un ragazzino da mettere alla prova. 

“Levatela dalla testa, senti a me. Ti sei divertito, ti ha fatto bene” aveva detto Gian.

E Margot: “Non ti sarai innamorato?”. Sì, Margot. Forse sì. 

«Entriamo.»

Lo sanno le macchie d’acqua che si formano sulla camicia, lungo la schiena.

Lo sa il respiro, sempre più corto.

Lo sanno le persone che si guardano intorno e vanno oltre come ombre.

Lo sanno le poltrone, al centro della sala, costrette ad ammirare una bellezza che non potranno mai possedere.

Lo sa anche il chiodo che a momenti rimpiangerà un allarmante vuoto.

Lo sanno le mie labbra screpolate come il quadro bianco di Burri. Cretto. La rete in cui sono cascato, lo scheletro dei miei sbagli. 

Non c’è più nessuno in quella sala. Sono solo. È il momento. Allungare le mani, stringere il quadro. Via verso l’uscita, mentire al primo collega che s’insospettirà: “È per la pulizia”. Gian che mi aspetta sotto, prima di scappare. E non posso pensarci troppo. È adesso, o mai. Sento dei passi, non sono più solo. Indietreggio, nessuno deve sospettare di me. Ha l’odore delle cose buone, i passi placidi di chi ha paura di disturbare, ma non vorrebbe essere da nessun’altra parte. È accanto a me. Si spinge sulle punte, per guardare meglio.

Il bambino, quel bambino dalle gambe magroline, adesso è qui. Mi volto a guardarlo. Osserva il quadro, come rapito. Le manine sottili, lungo le gambe, sembrano muoversi come impegnate a manovrare fili invisibili. Cosa ci faccio io lì? Una goccia di sudore scivola via sulla guancia, fino alle labbra aride. E potrebbe sembrare una lacrima. E potrebbe esserlo.

Margot, quanto vorrei ancora quei baci.


In alto: foto © Roberto Galofaro.

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