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Romancero gitano fu originariamente pubblicato nel 1928. In quel tempo frequentava assiduamente l’amico Salvador Dalì, che sicuramente influenzò il giovane poeta con l’esuberanza della sua immaginazione (si pensi alle “notti piene di pesci” e alle “sere pazze di fichi”). Erano solo otto anni prima della morte che lo prese troppo giovane. Fu fucilato senza processo dopo essere stato catturato dalla milizia franchista nel 1936, all’inizio della lunga guerra civile che insanguinò la Spagna del secolo scorso.
La collocazione storica spiega la vitalità sprigionata da questa raccolta dedicata al popolo zingaro largamente presente in Andalusia, regione natale di García Lorca: popolo colorato, vivace e sregolato, viene per il poeta a significare l’anima profonda della Spagna, anima libera e fantasiosa in opposizione diretta con la forza repressiva del dittatore in carica in quegli anni, il generale Miguel Primo de Rivera, arrivato al potere con un golpe nel 1923 e rimasto fino alle dimissioni nel 1930. In quei sette anni, egli proclamò lo stato di guerra per reprimere ogni sciopero o disordine sociale. Lo spirito gitano diventa quindi una bandiera di libertà repressa in una popolazione simbolo di umanità marginalizzata.
Le diciotto romanze risuonano come musiche andaluse, musiche che Federico García Lorca amava grazie agli insegnamenti della madre. Sono vibranti di ritmo e cantilenanti di ripetizioni. Hanno la stessa ermeticità e rarefazione delle canzoni e da esse sono state tratte innumerevoli composizioni musicali, tanghi e milonghe. Anche i temi sono contrastanti e colorati come quadri surrealisti o astratti: amore e morte, sensualità e distruzione. Ne esce una geografia composita in cui l’Andalusia è terra di polvere e di acque, di santi e di assassini, di sogni e di pietre, di canti e di lamenti: tutti coesistenti e tutti vivi, carnali e carnosi. Lo stesso García Lorca sottolinea la prorompente complessità di questa raccolta descrivendola come una pala d’altare andalusa scolpita con zingari, cavalli, arcangeli, brezze romane ed ebraiche, fiumi, criminali, contrabbandieri e bambini nudi.1 Vedi Maurer, Christopher. Federico García Lorca: Selected Poems. Penguin Classics. Penguin Random House Company.

Per parlare di questa raccolta, scelgo d’inoltrarmi su un sentiero forse meno battuto. Un sentiero vegetale si snoda tra queste pagine, un itinerario tra piante e fiori. Verde è la parola chiave, che appare, in tutta la sua polisemia, più di dieci volte nella raccolta. Si pensi all’insistenza che propone lo stesso poeta nel verso ripetuto “verde que te quiero verde”, che il traduttore ha avuto così difficoltà a tradurre. Si capisce perché. Verdi sono anche gli steli dei fiori di cui García Lorca riempie il poema. Pagine di erbario inframmezzano le pagine della poesia. Volti la carta e dietro c’è un fiore, specifico, nominato, cristallizzato in metafora, foriero di leggerezza e di morte insieme.
L’Andalusia è una terra fertile nel sud della Spagna, attraversata dal fiume Genil che scende dalla Sierra Nevada. Qui García Lorca trascorre la sua esistenza tra il cielo e una ricca vegetazione di fiori selvatici, tra le più diversificate del pianeta. Ma non è solo per nascita che si interessa ai fiori. Essi gli forniscono materiale letterario. Studi sulle rose rare e sul linguaggio dei fiori (in particolare possedeva il manuale Nuevo lenguaje de las flores y de las frutas, con alcunas emblemas de las piedras y los colores) gli servono per la commedia teatrale Donna Rosita nubile o Il linguaggio dei fiori (in lingua originale Doña Rosita la soltera o el lenguaje de las flores).2Si veda l’articolo “The Discourse of Desire in the Language of Flowers: Lorca, Freud, and “Doña Rosita” di Francie Cate-Arries in South Atlantic Review 57. 1 (1992), pp. 53-68. All’interno della commedia, in cui la serra è il sito di una borghesia decadente e la rosa sfiorita il correlativo della zitella, si trova anche la canzone “Cosa dicono i fiori” (Lo que dicen las flores) che elenca la simbologia di fiori comuni. Il sottotitolo di questa amara commedia allude anche a un’interessante contaminazione poesia-paesaggio: il testo è diviso in “vari giardini” (“Poema granadino del novecientos, dividido en varios jardines con escenas de canto y baile”). La stessa contaminazione avviene nella poesia “Burla di don Pedro a cavallo” in Romancero gitano, che è una “romanza con lagunas”: alle strofe narrative si alternano strofe-stagno, acquatiche chiamate “lagune”. Anche qui il paesaggio entra nel testo.

I 18 poemetti di cui è composta questa raccolta sono un vero turbine di immagini che fan girar la testa per l’ardimento. Ognuna di queste ballate contiene un fiore. Andiamo a coglierli, questi fiori sparsi tra i versi, considerandone il valore poetico. Si badi bene che non si tratta solo di “piante” o “alberi” generici: sebbene ci siano anche canneti e boschi, quelli che colpiscono sono i fiori con il loro nome botanico specifico che appartiene a un erbario.

Tuberose e giacinti
Nella prima ballata, “Romanza della luna luna”, i fiori sono riferiti alla luna che prende per mano un bimbo, forse ucciso dal cavaliere che appare minaccioso tra i versi, e se lo porta via. La luna è “vestita di tuberose”, quindi costellata dei fiorellini bianchi carnosi della tuberosa, come punti di luce o piccole stelle. È anche profumata come le tuberose, di un profumo intenso che ammalia e stordisce. A questo fiore specifico è affidata l’immagine della delicatezza commossa della luna che si porta via il bimbo. La stessa fiorita passionalità si trova nella poesia “La sposa infedele”: è la pelle dell’appassionata fedifraga ad essere più fine della tuberosa, mentre i suoi seni sono mazzi di giacinti (abbondanti grappoli turgidi, con piccoli fiori carnosi e profumatissimi). Un altro corpo femminile floreale è il corpo della tristissima Soledad (solitudine) Montoya nella “Romanza del nero dolore”. La descrizione di questa donna sofferente è arricchita di immagini aspre: incudine, cavallo, ombra, “piangi succo di limone”. La sola Soledad ha le “cosce di papavero”: il papavero è un fiore rosso dai petali molli, facilmente scosso dal vento sullo stelo sottile e peloso. Cresce selvaggio e solitario nei campi di grano e soprattutto ha un cuore nero. Come Soledad.

L’alloro
Nella seconda ballata, “Preziosa e il vento”, insieme ai pini e agli ulivi appare un sentiero “anfibio, fatto di allori e di cristalli”. È il sentiero su cui Preciosa, ragazzina gitana, fugge da un attacco. Lo stupro viene trasfigurato in immagini naturali: osceno (o verde) è il vento che la insegue. L’alloro è la pianta in cui si trasforma Daphne per sfuggire alla violenza di Apollo, un arbusto forte, con foglie verde scuro e lucido, che in questa poesia cresce insieme ai cristalli, immagine di fragilità ma anche armi taglienti, su sentieri anfibi, sentieri inaffidabili su cui corre la povera Preciosa.


Giaggioli e melograni
La “rissa” della terza ballata è un quadro violento che ricorda la Guernica di Picasso, dove appaiono come singulti disordinati e sovrapposti immagini di sangue e coltelli. Ma sono i fiori che si ergono anche qui a simboleggiare la fioritura di sangue. Quando muore Juan Antonio, egli rotola giù con “il corpo pieno di punte / di giaggiolo e un fiore rosso / di melograno alle tempie”. Giaggiolo e melograno diventano trasposizioni delle armi in questo paesaggio di violenza: il giaggiolo è il gladiolo, un fiore che si erge su uno stelo spesso e rigido come un fucile (in “La sposa infedele” viene accostato alla sciabola: “le sciabole dei giaggioli”). Il melograno è un fiore rosso/arancio di petali accartocciati che si trasforma in un frutto/bomba: una granata di semi rossi (in spagnolo granada è la stessa parola per la bomba, granata, e per il melograno, oltre che per la città andalusa). Questi fiori parlano di armi e sangue.

Agavi e rose brune
In “Romanza sonnambula” si stende una notte in cui una zingara “verde carne e chioma verde” aspetta affacciata al balcone e in cui un uomo si dibatte in agonia. Violenza e malinconia vengono racchiuse nel verde della zingara e del ritornello (verde que te quiero verde) con tutta la sua polisemia. Il paesaggio è irto e velenoso: il fico ha rami di carta vetrata, il bosco è un “gatto selvaggio”, “irto di spine d’agave”. Agave è una pianta grassa, dalle proprietà cicatrizzanti, ma anche dalle lunghe foglie rigide e spesse, seghettate e pungenti come scimitarre. Nell’aria aleggia un sentore di “fiele, menta e basilico”, uno “strano sapore” tanto profumato quanto avvelenato. Questo paesaggio non lascia scampo all’uomo che sanguina, non di sangue, ma di “trecento rose brune / sulla pettorina bianca”. Anche le rose si anneriscono in questo quadro.

Mirti, viole, girasoli e magnolie
Piena di fiori è la ballata de “La suora gitana”: sono i fiori ricamati da una suora su una tovaglia d’altare, capolavoro di pazienza e di abilità. La tovaglia per la messa è un trionfo di colori e fili d’oro che fa sbocciare i fiori. Nella prima stanza troviamo una descrizione d’ambiente che trasforma il convento in un orto. “Silenzio di calce e mirto. / Malva tra le erbe e gli aromi. / La suora ricama viole / su una tela paglierina”. Le mura vengono impastate di vegetazione: la calce con il mirto. Il mirto è una siepe verde scuro con bacche blu violaceo usate per i liquori, dal forte profumo balsamico. L’orto del convento, tra erbe e aromi, straripa di malva. La malva ha piccoli fiori viola chiaro venati di viola scuro che vengono usati come medicinale calmante. Sulla tovaglia, non gialla ma del colore della paglia, la suora ricama le viole. Sulla tovaglia sbocciano fiori da punto esclamativo: fiori grandi come i girasoli (gialli) e le magnolie (bianche), crochi (zafferani gialli), tra nastri lustrini e lune: “¡Qué girasol! ¡Qué magnolia / de lentejuelas y cintas! / ¡Qué azafranes y qué lunas, / en el mantel de la misa!”
Benché chiusa in convento e tenuta a bada da una chiesa che “ringhia” come un orso, la suora gitana è partecipe della fantasia del suo popolo. Scalpita in silenzio perché “vorrebbe ricamare / fiori di sua fantasia”. La sua sofferenza è espressa da una metafora bellissima: le si spezza il cuore “di zucchero e di verbena”. Il cuore di questa suora non può che essere zuccherato come una tisana di erbe (le verbene hanno proprietà depurative e lo stesso colore violetto delle malve). Mirto, malva, viole e verbene: forse la tovaglia che sta ricamando è la tovaglia viola della Passione, forse la sua passione.

I fiori degli arcangeli
Le tre romanze dedicate agli arcangeli non mancano di aggiungere fiori all’erbario. Crescono su specifici siti architettonici: la chiesa di Granada, il ponte di Cordova e le strade di Siviglia. Queste tre poesie fanno dell’architettura una sinestesia, intrecciando la città d’immaginazione: Granada “di strilli e alte finestre” (“San Michele”); Cordova con la sua “architettura del fumo” fatta di brezze sopra gli archi di trionfo (“San Raffaele”); Siviglia le cui piazze fanno inginocchiare il cielo tanta è la bellezza di Gabriele, come viene descritto in questa incredibile immagine: “Quando china la sua testa / sopra quel petto di diaspro / la notte cerca spianate / perché vuole inginocchiarsi” (“San Gabriele”).
Anche in queste città sbocciano fiori. San Michele, patrono di Granada, è visto nella sua chiesa-torre alta sulla città, ma sotto di lui si stendono campi di girasoli pieni di luce. San Raffaele, patrono di Cordova, è descritto nella sua statua, situata sul ponte che unisce le due parti di Cordoba, ma il punto di vista è quello delle giunchiglie, che sono i narcisi con le loro trombe dorate. La terza poesia, dedicata a San Gabriele, è un tripudio di metafore: Gabriele passeggia sulla strada come uno splendido ragazzo. La sua carne è fatta di fiori e di frutti: “Un bel ragazzo slanciato [di giunco in spagnolo, quindi flessuoso come la pianta] / spalle larghe, vita snella, / pelle di mela notturna, / occhi grandi, bocca triste, / nervi d’argento rovente, / gira per la via deserta. / Le sue scarpe di vernice / apron le dalie del vento”: giunchi, mele e le dalie, fiori drammatici, larghi, concentrati di petali sottili. L’arcangelo viene identificato con il giglio, simbolo di purezza, con cui è solitamente raffigurato nell’Annunciazione alla Vergine: “Non c’è palma che lo uguagli”, egli è “un po’ giglio, un po’ sorriso”. Gabriele è il giglio e il gelsomino (“gelsomini il tuo fulgore / apre sul mio volto acceso”). Entrambi fiori bianchi dal profumo dolcissimo e languido. Questo arcangelo Gabriele è un flaneur da far girare la testa al poeta: “Vorrei farti accomodare / su un divano di garofani” (i garofani sono gli immancabili fiori all’occhiello delle giacche del dandy).

Fiori di morte

L’ultima sezione della raccolta è dedicata a leggende e tradizioni, a zingari uccisi e a stragi compiute dalla guardia civile. Antoñito el Camborio viene catturato e ucciso in due romanze, un’altra è dedicata a un “morto d’amore” e un’altra a un “morto in piazza”. Anche in questa sezione così maschile troviamo fiori: sono fiori spezzati. Antoñito el Camborio è descritto con “pelle d’ambra e verde luna / voce di maschio garofano”, dalla “pelle impastata / con olive e gelsomino” e dalla schiena spezzata come uno “stelo di mais”. Anche la sua morte è descritta come la morte floreale in un verso che spezza il gambo del fiore con un’enjembement: “Tristi donne della valle / portavano giù il suo sangue / d’uomo, sereno di fiore / reciso, ed amareggiato”. Il lutto investe tutto il villaggio nella “Romanza del morto in piazza”, tanto che muta la vegetazione del luogo: prima c’erano i cespugli di oleandro, fiori profumatissimi su alti rami che racchiudono una linfa velenosa. Ora essi lasciano il passo alle piante della morte e del cimitero: ortiche e cicute mortali. “Ora, se vuoi, puoi tagliare / gli oleandri del cortile … ti cresceranno ortiche / e cicute fra le costole”

In conclusione, la traiettoria poetica di Romancero gitano fluttua fra passione e morte, bellezza e violenza, fantasia e costrizione. Non può che essere punteggiata di fiori che sono la quintessenza della vitalità e della fragilità. I gitani appaiono con tutta la loro forza creativa in questa raccolta e non è un caso che una delle piante più spagnole, il geranio cadente, rosso, tipico dei balconi iberici, sia chiamato “gitanillas”. All’estremo opposto, sta la guardia civile. Se vengono i gitani, fanno dei raggi di luna anelli bianchi e collane, dice la prima romanza. Ma se vengono i cavalieri uccidono e abbandonano i cadaveri agli sterpi. Così successe a García Lorca ancora in fiore, ucciso sotto un olivo, abbandonato nel burrone tra ortiche e cicute, e mai più ritrovato.

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