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Nella vita guardava le macchine. Le spostava, anche, a seconda delle esigenze di chi abitava nella piazzetta. Imprecava ogni volta, mentre con quelle mani tozze – le dita non si affusolavano neanche alla punta, ma terminavano come tibie – imprimeva le spinte al volante. Pareva che odiasse spostare quelle macchine, ma pareva anche, per come le guardava, che non pensasse mai ad altro. A volte lo si salutava e rispondeva per lui il ronzio di catarro delle sue narici, e un gesto della mano destra che era come di conta.

Capitava di trovarlo sveglio nel suo basso anche fino a notte fonda, il faccione purpureo rischiarato dalla luna e la bocca lasciata aperta sui denti gialli come una cassaforte appena scassinata. In quei momenti, nel bianco stolido dei suoi occhi guizzava brevemente lo stesso lampo di intelletto che gli antichi videro nei grandi strateghi. Uomini d’armi al pari di Milziade, Temistocle e Lisandro si occupavano di eserciti pronti a decidere le sorti di un popolo con una scrupolosità minore di quella che il nostro guardamacchine impiegava per stabilire le sorti del mio tragitto del sabato sera.

“Quello il dottore domani piglia presto la macchina…” 

Quando rincasavo tardi potevo coglierlo a mormorare frasi come questa, e sempre con una serietà, con un’autorevolezza e pure un velo di affetto per le sue macchine – macchine nostre, di noi che abitavamo in piazzetta, ma sentimentalmente parlando anche un po’ sue – e per quel lavoro che gli dava uno scopo nella vita.

Mio padre diceva che quando un giorno il nostro stratega dei parcheggi sarebbe morto l’avrebbero dovuto scrivere sui manifesti, che guardava le macchine, perché quelli così non si ricordano mai per nome e cognome. E in effetti noi il cognome di don Totore non l’abbiamo mai conosciuto. Forse a vederlo era don Totore anche all’anagrafe: giuravamo che nessuno avesse mai neanche provato a chiamarlo Salvatore; che anche da bambino lo si chiamasse col soprannome perché in fondo il suo destino era già scritto da qualche parte.

Che questo destino lui l’avesse poi letto e compreso, qui il dubbio sorgeva: anche solo il modo in cui grugniva bastava a suggerirci che lui faceva parte della generazione proletaria immutabile e linguisticamente sgangherata di Io speriamo che me la cavo e che con don Totore bambino avrebbe toppato pure la Montessori. Sapevamo davvero poco del suo passato: aveva avuto una compagna – c’era da immaginarla come un esemplare femmina di don Totore, con lo stesso faccione, ingentilito però da lunghi capelli platinati e unghie sgargianti sulle dita a forma di tibia – e aveva fatto il fioraio nelle Marche. Pochi di noi riuscivano a immaginare la delicatezza di un vaso di ciclamini tra le mani da cavernicolo del nostro guardamacchine. 

Nessuno di noi avrebbe mai capito come avesse fatto don Totore a comunicare per anni al di fuori della Campania.

Pure in dialetto, era davvero difficile cavargli qualche parola di più che non attenesse alle macchine, alle partite del Napoli e a qualche showgirl zizzona della televisione. Di tanto in tanto scambiavamo due parole sul suo cane, una graziosa barboncina di nome Rebecca. Se don Totore era l’anello di congiunzione tra l’uomo e il primate, Rebecca lo era tra il cane e il pupazzo: aveva due occhietti scintillanti e un portamento da reginetta di bellezza; più che abbaiare emetteva brevi versi acuti come i maialini di plastica degli Autogrill.

A volte me la lasciava tenere al guinzaglio, ma Rebecca cominciava presto a tirare perché voleva tornare dal padrone. La loro era un’accoppiata improbabile, ma qualcosa era riuscito a creare un legame tra una barboncina che in una vita passata era stata Miss Italia e un don Totore che in una vita passata… beh, era stato sempre don Totore ma guardava le carrozze.

Quando Rebecca passò al paradiso dei cagnolini, ne fummo tutti rattristati e portammo le condoglianze al nostro guardamacchine come si fa per i parenti umani, perché per lui la sua piccola amica era come una figlia, anche se non lo avrebbe ammesso a nessuno. Lui si limitava a bofonchiare qualcosa a capo chino prima di gesticolare verso le macchine, spiegare come aveva spostato la macchina del diretto interessato e poi rientrare in casa.

Una notte però rincasando tardi lo vidi affacciato alla porta del basso, un’ombra di pianto sul volto e lo sguardo non più rivolto alle automobili ma un poco più su, verso il cielo.

Non si accorse che c’ero e rimase per un bel po’ con quell’aria di malinconia, con la luce lunare incisa nelle pupille e le grosse mani poggiate sul legno della porta. Poi guardò verso lo stuolo delle macchine e strinse i pugni, serrò la bocca e mise su un’espressione di dolore consapevole: sembrava quasi si chiedesse: Perché le macchine stanno quiete e io non posso dormire?

Assistendo a quella scena mi resi conto che nessun libro e nessun insegnante mi avevano spiegato il senso del Canto di un pastore errante dell’Asia di Leopardi meglio di un guardamacchine insonne e rimasto del tutto solo. E che forse, anche se non lo sapeva, don Totore aveva più che capito; la sua prosaica esistenza, anche se solo per una notte, s’era fatta davvero poesia. Questo, più o meno finché una pantegana non sgusciò da un’automobile e don Totore, bestemmiando tutti i Santini minori dell’entroterra campano, non afferrò la mazza che teneva in casa, come diceva lui, per sicurezza.


In alto: foto di Alberto Barbarisi / Unsplash.

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