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Nota Introduttiva
Questa, cari lettori, non è una normale intervista, ma un’intervista impossibile, manganelliana. Di seguito troverete infatti una meta-intervista al protagonista del romanzo Bim Bum Bam Ketamina di Claudia Grande (il Saggiatore), scritta ovviamente in chiave scherzosa e, si spera, divertente. Buona lettura!

Quando capisci che è tutto uno scherzo, fare il comico è l’unica cosa sensata. 
(Watchmen, Alan Moore & Dave Gibbons)

«Quanto nastro ha con lei?», chiese Roberto voltandosi, così che ora potevo scorgerne il profilo. La citazione dall’Intervista col vampiro non poteva essere meno opportuna: il Vampiro era calmo ed elegante, mentre Roberto aveva reagito con una certa animosità all’idea della registrazione. Aveva già citato i nomi di fior fior di avvocati, mentre a me passava per la testa che la sua creatrice aveva abbandonato uno studio legale internazionale e che la passione violenta con la quale Roberto si riempiva la bocca di diritto, tribunali e denunce non poteva essere un caso. Volevo dirglielo, ma lui sbraitava e assicurava che m’avrebbero fatto il culo come il profilo instagram di un’attrice onlyfans. Qualunque cosa volesse dire, non mi sembrava buona. S’era calmato dopo un po’, quando con difficoltà ero riuscito a spiaccicare otto parole in fila per quattro: devo farle delle domande, registrare è più semplice.

«Le domande sono ok, è un colloquio di lavoro. Ma addirittura registrarle. Questo è la prima volta che mi succede, metodo finlandese? Io ho lavorato con uno scandinavo», si riferiva senza dubbio al geniale quanto controverso regista di Incunabula, Alexander Soderstrom. «Gente molto strana, abbastanza strana da registrare i colloqui di lavoro.»

«Colloquio di lavoro per…?», domandai leggermente perplesso e allo stesso tempo divertito. Quelli de il Saggiatore mi avevano informato che Roberto era un protagonista a tutti gli effetti, imprevedibile, tendenzialmente rissoso o scontroso o taciturno. Non il personaggio perfetto per un’intervista, per questo il mio preferito. «Questo deve dirmelo lei. Io sono Roberto, l’uomo in affitto, disposto a tutto», questa definizione piazzata in primissima pagina, e la definizione di tuttologo proposta qualche paragrafo più in là, m’avevano illuminato le sinapsi.

«Quasi tutto», lo corressi. Mi sorrise e il suo sorriso non sembrò troppo falso. Aveva una leggera patina di stanchezza, ma probabilmente visto il successo del libro non doveva aver dormito molto nell’ultimo periodo. Forse meno di quanto già facesse di solito.

«Vero, ma questo l’ho capito con il tempo e dopo aver rischiato più volte di farmi saltare la testa. C’è un sacco di gente strana che ti contatta per i lavori più assurdi. È divertente, è stancante, è folle. Bisogna mettersi dei limiti per non impazzire del tutto. L’ho capito con il tempo.»

«E con due percorsi in terapia.» Prendere degli appunti è importante, diventa fondamentale quando ti capita davanti un affabulatore professionista con capacità fantasiose al di sopra della media.
«Indagate così a fondo su tutti i candidati?» Non risposi perché non c’era niente da rispondere. Doveva aver frainteso. «Prendete le dovute precauzioni, capisco. Comunque sì, non so se sia stata più utile la psicoterapia o la mia passione per Amadeus a mantenermi vivo.»
«Quella lettera è molto toccante.» E lo era davvero. Una genuina dichiarazione d’amore che lo avvicinava, forse inconsapevolmente, al Giudariello creatura gallesca amante del Pippo Baudo nazionale. Entrambi pluriconduttori di Sanremo, tra le altre cose. Avrei voluto farglielo notare, ma Roberto non mi lasciò tempo di aggiungere altro.
«Come ha fatto a leggerla? Conosce Amadeus, gliel’ha fatta vedere lui?» I suoi occhi erano speranzosi come quelli di un bambino.
«Veramente io ho letto la storia e…» – enorme e gigantesca delusione. Poi una risata secca.
«Scherzo! Credevo che voi giornalisti non leggeste davvero.»
«Magari non tutti quelli che arrivano e non tutti fino alla fine, ma tendenzialmente tentiamo di…», non potevo permettermi di perdere il filo dell’intervista. Il romanzo del quale avremmo dovuto parlare poneva già abbastanza questioni delicate: non c’erano troppi riferimenti contemporanei? L’influenza dell’iperconsumismo? L’impatto dei social? La struttura interna? L’uso della lingua? Guardai i miei appunti e mi parvero decisamente scadenti. Forse aveva ragione Roberto, noi giornalisti non leggevamo davvero.
«Difendi la categoria, fai bene. Comunque la televisione è la mia vita. E quella di venti milioni di italiani, più o meno.» Mi ripresi con una certa difficoltà.
«Personaggi famosi, omicidi, fatti di cronaca misti a invenzione. C’è un po’ di tutto nella storia. Possiamo dire che attraverso la sua vita e le vicende che si trova a vivere…»
«Digiamolo.» Interrompermi lo divertiva particolarmente. 
«Questo è La Russa, immagino.» Almeno mi dava il tempo di respirare. Mica avevo idea di dove andare a parare.
«Ha visto come mi viene bene? Se vuole posso tornarle utile anche come imitatore. È una qualità che mi è rimasta dall’esperienza nelle cabine.» Tirò fuori dalla tasca l’ennesima fotocopia del volantino e aggiunse, nel lungo elenco di professioni praticabili, anche quella di comico imitatore semiprofessionista. Nelle cabine aveva lavorato per imitare personaggi famosi d’invenzione, non gli attori, ma proprio i personaggi. Sarebbe stato un bell’argomento di discussione, ma il tempo era poco.
«No, non sono qui per questo. Non m’interessa, volevo parlarle d’altro…» e spostai gli occhi dal volantino ai miei appunti.
«Forse per darle le risposte che vuole dovrebbe prima dirmi per quale lavoro mi sto candidando, allora», alzai le mani.
«Non c’è nessun lavoro, è stato un malinteso perché io…»
«Ma allora dove ha trovato il mio numero?», Roberto si tirò su e corse alla finestra per chiuderla, tirare giù le tapparelle. Ci ritrovammo al buio. «Cazzo, questo è un fottuto interrogatorio e lei lavora per la Digos? Merda, merda, merda» e prese a girare per la stanza come un indemoniato.
«No, Roberto, stia tranquillo: è una semplice intervista.» Vedevo soltanto il suo profilo fare la spola tra le quattro mura della stanza e quando s’avvicinò alla porta pensai che l’avrebbe spalancata, sarebbe corso fuori e m’avrebbe chiuso a chiave. A quel punto sì che avrei dovuto chiamare la polizia. Cercai di rassicurarlo. «Volevo parlare del romanzo d’esordio di Claudia Grande. Credevo fosse abbastanza chiaro, che l’avessero avvisata e…»
«E lei si prende la briga di intervistarmi per un libro?» Accese la luce e mi osservò da vicino. Troppo vicino.
«Sì, cioè fa parte del mio lavoro», avrei voluto mostrargli il mio tesserino da giornalista, ma non avevo mai superato l’esame e praticavo il mestiere in modo abusivo.
«Quindi la pagano.» Pareva leggermente a disagio nel parlare di soldi.
«In realtà no, però…», ma quello a disagio ero io.
«Quindi lei non ha niente di meglio da fare che venirmi a cercare, passare del tempo con me, farmi delle domande e parlare del romanzo di Claudia Grande?»
«Bim Bum Bam Ketamina
«Gran bel titolo, cazzo.» Sorridemmo entrambi e la tensione parve scomparire. Ma comunque le finestre rimasero chiuse e le tapparelle abbassate. 
«Concordo. Immagino le sia piaciuto.» Una sola e giallissima lampadina colorava la stanza per di più spoglia, ancora più vuota ora che la luce ne aveva smussato gli angoli.
«Non più del Signore degli anelli, niente è come Il signore degli anelli
«Non vuoi dirmi di più? Mi sembra una risposta un po’ comoda.»
«Non lavora per la Digos?» Feci di no con la testa e lui spalancò un mezzo sorriso. «Con quell’affare acceso», e indicò il registratore, «non dirò nulla di compromettente. Diciamo che l’ho trovato umanamente intenso.»
«A tal proposito. Credo che questo testo sia ricco di violenza perché…»
«Ti infastidisce la violenza? Il mondo è violento.» La stessa esplosione del romanzo dormiva negli occhi di Roberto. Una miccia pronta a consumarsi.
«Sì, volevo dire che racconta benissimo attraverso una serie di figure assurdamente reali e assurdamente metanarrative una frattura sociale e lavorativa molto evidente.»
«Molto evidente, sì», due tocchi al naso.
«E lei che ne pensa?», a pensar male si fa peccato ma.
«Ma io sono un uomo senza qualità, un abietto, un niente. Che devo pensare?»
«Lei ha detto frasi come Reale è ciò che vivi? Reale è ciò che senti? Oppure, da un certo momento in poi, reale diventa ciò che immagini, tutto quello che la tua testa ti racconta. Ricorda?» Non avevo portato con me una copia del libro però alcune frasi le avevo ricopiate pari pari su i miei foglietti.
«L’ho detta io?», si fece avanti per dare un’occhiata, ma si ritrasse sconsolato. 
«L’ha detta lei», certo scrivevo malissimo.
«Incredibile. Le credo, per carità, però non so cosa aggiungere.
Posso raccontarle di mia sorella, se vuole.» Nella stanza, ora che ci facevo caso, erano nascoste due piante. Piccole ma dalle foglie abbastanza grandi. Di botanica ne capivo meno di zero.
«Ci ha già detto tanto nel libro, su quello glisserei. Il rapporto familiare è declinato nella difficoltà di affermarsi, nello sprofondare dei ruoli e delle parti. Il racconto su e attorno Benedetta Rossi ne è un altro esempio.»
«Che storia terribile. Terribile. Il mondo si è letteralmente disintegrato davanti ai miei occhi, capisce?» Io non capivo, almeno non tutto, ma non mi sembrava il caso di contraddirlo. «Però è stato anche molto divertente vivere tutto questo.»
«Ha mai letto Aldo Nove?», ai giornali piacevano molto i riferimenti di un certo livello e poi ormai Nove era abbastanza fuori dal giro, ma vivo e italiano, nessuno mi avrebbe accusato di scomodare i morti, di citare sempre i soliti stranieri.
«No, io devo lavorare, non ho tempo per leggere. Però penso voglia parlare della sensazione lunarparkesca di ritrovarsi su una giostra che gira, gira, gira e non si riesce a scendere.»
«Sì, di questo sentimento avv…»
«Avvolgente, attorcigliante, arrapante. Possiamo dirlo in un’intervista?», chiese sinceramente curioso.
«Può dire quello che vuole.»,
«Allora digiamolo» e riprese con l’imitazione quasi perfetta di La Russa. «È un libro arrapante e per me il sesso è sopravvalutato, è stangante, è noioso. Avrei potuto dire eggitante, ma forse si sarebbe gorso il rischio di limitarsi a una ragione puramente mentale. Invece g’è una gomponente fisiga ghe non va sottovalutata.»
«Data dal ritmo frenetico, dal susseguirsi di scene, immagini, volti», sorvolai sull’imitazione e parve risentirsi anche se non disse nulla.
«Personaggi famosi, tocchi vintage, ricordi d’infanzia comune, novità ultracontemporanee. Un bombardamento che lascia molto soddisfatti», schioccò la lingua.
«Immagino non conosca Giada Biaggi?», non so bene perché glielo chiesi: superare il confine tra i due mondi è sempre delicato.
«La filosofa influencer?», allora la conosceva! 
«Lei!», non capivo bene come fosse possibile, ma la cosa per il momento passava in secondo piano.
«No. Mai sentita», stava sprofondando nel divano.
«Peccato.» I cuscini erano sfondati. Dovevano aver visto tempi migliori.
«Non posso aiutarla.», e neanche io a te avrei voluto dirgli.
«Però c’è una certa affinità: i social, i rapporti interpersonali, i riferimenti filosofico intellettuali frammisti a interventi pop. E una serie di differenze importanti sintetizzabili nell’antitesi Milano Torino. Ma immagino sia inutile porle questa domanda.»
«Inutile.» Aveva perso interesse e l’intervista s’era rivelata un mezzo fiasco. E io che speravo in un aumento. Sarebbe stato un miracolo strappare il rinnovo del contratto.«Allora avviamoci alla fine. Ultime due. Cosa ne pensa della definizione romanzo di racconti?», poi risi, ma non per lui. Mi ricordai che non avevo nessun contratto da rinnovare.
«In che senso racconti e in che senso romanzo?», chiese spalancando gli occhi e guardandosi attorno alla ricerca di una via di fuga. La mia risata doveva averlo spaventato. S’era rimesso in piedi e la salivazione tornava ad aumentare, così come le visite nei pressi del labbro superiore. Anche io avrei voluto abbandonare la nave. Roberto non dava minimamente l’impressione di essere consapevole della realtà e di quello che stava succedendo. Credeva di essere una persona viva? Di cosa pensava stessimo parlando? Chi e cosa credeva di essere? Non volevo essere io a dargli quella notizia. A romanzo terminato un personaggio può decidersi di togliersi la vita? Se sì non volevo di certo essere io la causa del suicidio.
«Roberto, non so come dirglielo, ma lei non esiste davvero. Cioè è il protagonista del romanzo, per questo è qui e la sto intervistando.»
«Questo lo so», mi disse e tirai un sospiro di sollievo, «mica sono un cretino! Intendo dire che siamo ancora fermi a questa bagatella sui romanzi, i racconti, la raccolta, la trama verticale e quella orizzontale…»
«Sono categorie che la critica utilizza», provavo a scusarmi anche se non sapevo bene di cosa dovessi giustificarmi di preciso. «Gli stessi uffici commerciali, insomma è un modo per raccontare i libri e cercare di…»
«Di venderli», sorrise. «So benissimo che non è qui per chiedere la mia opinione sullo stato della letteratura in Italia né possiamo dare alla mia creatrice troppe pretese: è la bellezza degli esordi. Però una cosa volevo dirla, me ne assumo totalmente la responsabilità.
Ha presente il sermone di Niemöller?», scossi leggermente la testa perché non avevo idea di cosa e di chi stesse parlando. «Ha ragione, detto così non dice niente a nessuno. Però sono sicuro che lo conosce. Ecco, io ne avrei fatta una mia rivisitazione, tutta personale:

Prima di tutto vennero a prendere la saggistica, e fui contento, perché tanto non la leggeva nessuno. Poi vennero a prendere i racconti brevi, e stetti zitto, perché mi stavano antipatici. Poi vennero a prendere le raccolte di racconti, e fui sollevato, perché mi erano fastidiose. Poi vennero a prendere i romanzi, e io non dissi niente, perché tanto amavo l’autofiction. Un giorno vennero a prendere i memoir, e non era rimasto più niente da leggere.

Le piace?»
«Non è un tantino dissacrante?, cioè si parlava di ebrei, di persecuzione, di morte», provai a sorridergli perché il testo aveva un suo perché e non volevo negarglielo. 
«Certo, capisco. Perché lei è una persona reale, io sono immaginario, per me la morte è morte letteraria. Se muoiono i racconti, se muoiono i romanzi, se muore la saggistica, qui resta tutto un mare di autofiction», allargò le braccia sconsolato. «Crede davvero che qualcuno farebbe autofiction su di me?»
«Questo però esula dalla nostra intervista, anzi il nastro è quasi terminato e vorrei giusto farle un’ultima doman…»
«Perché alla fine è tutta demagogia, capisce?», non mi diede il tempo di finire e iniziò a parlare come un infervorato, come uno che avesse appena preso una manciata di neve milanese senza nemmeno passare dal bagno. «Cos’era il Decameron? E Proust con la sua ricerca?, pensa si tratti di romanzi, di racconti? È letteratura, cazzo. Pynchon, l’ha mai letto? Perché anche Celati, se ricorda, ha fatto un enorme lavoro con i racconti. Racconti annodati, li possiamo definire così. Vogliamo definirli così? E alla fin fine di che stiamo parlando? Di romanzo o di racconti? Chi se ne frega, penso io. Lei che ne pensa? Se dovessi scegliere…»

Il nastro finisce. L’intervista si interrompe.

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