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Al mio ragazzo piace farlo davanti a tutti. Serve, di solito, un belvedere, un muretto, un posticino carino in centro. Al mio ragazzo piace farlo davanti a tutti, ma ci vuole comunque l’atmosfera giusta.

È la prima volta che qualcuno mi tratta in pubblico come se fossi la sua ragazza. Ora non posso più farne a meno. Lui mi bacia, mi afferra, e allora ansimo. Certe cose, da dove arrivo io, non si fanno. Finora, se ero felice, me lo tenevo per me.

Non passa settimana senza che mi scopi almeno una volta in strada, contro un muro, pure se abbiamo affittato una stanza a Vittorio Emanuele. La camera costa poco, sopra una curva della vecchia linea del tram, e le carrozze in quel punto stridono e mandano scintille. È nostra. 

Se il posto è giusto, il mio ragazzo si sfoga; basta poca pressione per entrarmi dentro e io chiudo gli occhi, lascio andare le spalle all’indietro e sorrido.

Se dico che abbiamo affittato una stanza, intendo che paga lui, perché è l’unico che lavora. Per questo non me la sento di dirgli no quando mi mette le mani nel culo mentre siamo in giro, e ha voglia e magari io mal di pancia e non vorrei proprio. Ma in fondo, quando il mio ragazzo mi prende in pubblico, mi diverto e ubbidisco senza storie.

Ne parlo con un mio amico e insiste che non devo farmi trattare da puttana. Trovati un lavoro, ripete, e che non è giusto, che nemmeno le donne si fanno trattare più così. A me sta bene. Certe cose, da dove arrivo io, non si fanno.

Potrebbe sembrare rischioso, ma se iniziamo a toccarci in qualche posto con tutta Roma dietro, la gente non reagisce male. Qualcuno sorride. Anzi, giurerei una volta di aver beccato con la coda dell’occhio una tipa che ci scattava una foto. Certo, quando andiamo oltre i passanti si spaventano e ci si crea il vuoto attorno. Solo gli sprovveduti passano vicino, finché qualcuno non li strattona o glielo fa notare a bassa voce. Anche così, so che continuano a guardarci a distanza; magari scuotono la testa o si eccitano o non sanno cosa provare, ma intanto guardano. In certi posti siamo una presenza ricorrente: di sicuro c’è chi ci ha visti più volte. 

Una sera dopo il sesso chiedo al mio ragazzo se non sia il caso di aprire un profilo a pagamento. Potrei gestirlo io quando è al lavoro, caricare i video e le foto, scrivere i post, così tiriamo su un poco. Lui se ne sta seduto sul cornicione a fumare nudo. Penso gli possa piacere l’idea di mostrarci davvero a chiunque. Invece scuote la testa, aspetta che sferragli l’ultimo tram giù di sotto e mormora che è più bello gratis. 

Vorrei contribuire all’affitto in un altro modo, perché sempre quel mio amico sostiene che ora ho vent’anni e dovrei trovarmi qualcosa da fare, ma sento di non averne la testa. Il mio ragazzo è un impegno. Quando sono da solo sistemo la camera, compro quello che ci serve, leggo, così ho qualcosa da raccontare. E mi curo, mi esercito con tutta una serie di giocattoli. Quando è in casa, il tempo, ovvio, lo dedico a lui e basta. 

A volte andiamo in sauna. Ci perdiamo sotto le arcate umide, dove i corpi dei maschi si accalcano in penombra a succhiarsi e scoparsi nel vapore. Non sono i momenti che preferisco, non ci facciamo degli amici, non partecipiamo. Chi viene spesso ormai ci riconosce e si tiene alla larga; ad almeno un paio mi sa che stiamo sulle palle. Sarà perché il mio ragazzo non vuole che mi tocchino, solo che guardino. Nel bagno turco vuole che sia io a sedermi sulle sue cosce. Me lo faccio scivolare dentro e lo sento sospirare. Gli altri possono seguire l’orgasmo, ma quando qualcuno allunga le mani lui litiga, con cattiveria. L’ultima volta ha spinto un uomo. Questo cade e sbatte la testa. Il proprietario arriva e urla che ce ne dobbiamo andare.

Questa roba non succede quando siamo all’aperto.

Poi però una notte che siamo al Gianicolo un gruppetto ci grida contro, lui si mette in mezzo e me lo mandano all’ospedale.

Da quel giorno il mio ragazzo si intristisce e non è più lo stesso.

Passa qualche mese e non usciamo mai. A casa scopiamo in silenzio e a volte mi viene da piangere. Prima godeva così forte da coprire il casino del tram; adesso la ferraglia invade la stanza. All’università ci sono degli psicologi con cui parlare gratis e il mio amico mi consiglia di andarci, ma dicono quello che già so, che è un trauma eccetera eccetera, che ci vuole tempo, però più ne passa più mi dispero. 

Un giorno decido che devo prendere l’iniziativa. 

Spingo il mio ragazzo fuori casa e girovaghiamo per ore fino all’Olimpico. Ci mischiamo in senso opposto ai tifosi che lasciano lo stadio. Mentre attraversiamo il ponte, tra i cori, le grida e le bandiere mi sale, lo schiaccio contro il parapetto, tagliando la strada a molta gente. Lui non vuole e prega di no, poi però mi lascia fare. Qualcuno si avvicina, facciamo a cazzotti. A casa, stavolta, il mio ragazzo è felice. Mi tampona il naso rotto. Me lo prendo di nuovo quella notte.

La mattina seguente non parliamo di quello che è successo. Facciamo colazione, i coinquilini vanno a lavoro, il mio ragazzo no; scopre il culo, lo faccio piegare sul tavolo, rovescia per terra il caffè.

Usciamo altre volte, finché non diventa un’abitudine. Spesso torno la notte con le nocche tumefatte e non so se è per qualcuno che ci ha detto qualcosa o per i pugni che ho dato ai pannelli del treno quando sono venuto in metropolitana. 

Se mi sveglio e il mio ragazzo è ancora avvinghiato, lo porto tra i colonnati del piano terra e lo fotto contro il muro finché non gocciola sul selciato. 

A Natale compro un tirapugni. Ho scoperto che non serve una licenza. Il negoziante mi guarda le cicatrici e dice che posso usarlo, però solo a casa. Io faccio ok con la testa. Col mio ragazzo scherzo che se non fa il bravo glielo sbatto sulle palle. Da allora quando scopiamo raschio la parete col tirapugni, e i segni invadono la stanza. Lo metto sempre. Se lo dimentico, è lui che mi chiede di metterlo. 

Il mio amico ha smesso di parlarmi.

Comunque nessuno si è più avvicinato. Certe cose da dove vengo io non si fanno e non voglio più tornare nel posto da dove vengo.
Sono passati mesi. Il mio ragazzo sta meglio. Ha dovuto lasciare il lavoro per un po’. Ne ho uno io. Lui è bravo a rendere la stanza accogliente, anche se con quello che guadagno presto ci trasferiremo in un appartamento tutto nostro. Nel pomeriggio seguo dei corsi all’università. Poi la sera me lo sbatto sotto il cavalcavia, così forte che il tram nemmeno lo sento.


In alto: foto di Benjamin Fay / Unsplash.

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