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Sono piene le librerie di testi dai titoli ermetici, che ci restano indecifrabili anche dopo l’ennesima rilettura. Molti li trovate in questa lista, da cui manca però L’abisso personale di Abn Al-Farabi e altri racconti dell’orrore astratto, un titolo decisamente didascalico per la raccolta scritta da Claudio Kulesko e pubblicata a ottobre 2022 dalla casa editrice Nero. L’autore romano, classe ’91, è alla sua prima prova con la narrativa ma ha già avuto diverse esperienze nel campo della saggistica. In particolare, Kulesko è impegnato nel campo del pessimismo e della teoria speculativa: questi due presupposti filosofici sono fondamentali per interpretare al meglio il suo lavoro.

In questo gabinetto del dottor Abn Al-Farabi troviamo sei storie legate dal filo conduttore reso esplicito fin dal titolo, quell’orrore astratto che può da un momento all’altro entrare nelle nostre vite sconvolgendole per sempre. Le vittime di questo indicibile assalto alla razionalità del quotidiano fanno poca differenza: si tratti di un saggio ai tempi del Sultanato o del comandante di una truppa in un villaggio abbandonato, oppure infine di un inconcludente studente universitario che ripone le sue ultime speranze in un seminario. L’esperienza sostanziale offerta da questo volume sta difatti proprio una progressiva familiarizzazione con l’orrore, che quasi si fa concretamente personaggio e di cui seguiamo l’evoluzione nel corso dei vari racconti: passo dopo passo, conosciamo i mille modi in cui l’ignoto ha la capacità di squarciare un’esistenza, ma più che partecipare alla disfatta delle vittime, anche i lettori diventano seguaci – o solo apprendisti studiosi – del Male assoluto. L’impianto teorico sembra stare molto a cuore all’autore, anche rispetto alla narrazione pura che rischia a tratti di trovarsi stritolata fra queste strette maglie, quasi Kulesko si fosse autoassegnato il compito di dimostrare i suoi precetti in forma narrativa.

I contorni dei sei racconti di Kulesko non sono mai netti, né tantomeno chiari, ma lungi dal trattarsi di imprecisione si tratta di una studiata strategia per instillare nel lettore una sensazione – questa sì precisa – di astrattezza o vaghezza. Anche a livello di ambientazione, sia temporale che spaziale, i testi sono il più possibile eterogenei tra di loro: attraversano luoghi geografici e spazi fisici molto differenti, ma soprattutto epoche diverse, da un antico passato fino a un incerto futuro, come a significare che l’orrore non ha semplicemente accompagnato l’intera evoluzione della razza umana, ma forse ne è stato addirittura la guida. Questa scelta stilistica nasconde però anche una problematica: se «il Male» – se così vogliamo chiamarlo – ha attraversato tutta la storia del nostro mondo, partecipando in maniera assidua alle nostre vite, non dovrebbe perdere almeno un po’ della sua alterità? La sua presenza non dovrebbe risultare meno spaventosa? A furia di imbatterci nell’oscurità, i nostri occhi non dovrebbero adattarsi alla mancanza di luce? Se è possibile abbandonare per un momento i vari riferimenti filosofici e letterari, in questo caso sembra che Kulesko proponga una teoria opposta a quella di un celebre, e sempre discusso, regista: Roman Polanski. Il cineasta polacco ha espresso in maniera concreta e perfettamente visiva la sua concezione del male, che potrà pure aleggiare continuamente nell’atmosfera sotto forma di pulviscolo, ma diventa realmente pericoloso e terrificante quando ce lo troviamo di fronte. Basta citare la sequenza iniziale di Rosemary’s Baby per capire che Polanski non vuole affrontare il male assoluto, ma un orrore localizzato in maniera ben identificata, in quel caso particolare a New York, nell’appartamento di Rosemary Woodhouse e suo marito Guy.

In L’abisso personale di Abn Al-Farabi l’orrore, al contrario, non è mai una presenza concreta e tangibile: piuttosto, si tratta di un costrutto immateriale che si manifesta scuotendo la realtà di chi ci si trova di fronte, di una forza capace di espandersi come una macchia e di rimanere incomprensibile e sfuggente come un’ombra. Infatti, l’impressione principale è quella di vedere affiorare a poco a poco dalla nebbia una figura irriconoscibile ma, allo stesso tempo, stranamente familiare. È per questo che anche degli stessi protagonisti non conosciamo che quei pochi accenni utili per identificarli in maniera sommaria, come se fossero dei prototipi di essere umani che si trovano di fronte a qualcosa che, semplicemente, non possono comprendere, se non per un unico istante fugace destinato a venire immediatamente dimenticato. È quello che succede all’esploratore dei boschi, protagonista del primo racconto Scivolare: il suo tentativo di addomesticare la natura che lo circonda, e gli esseri che la abitano, si scontra con l’imponenza e la maestosità del padrone di quei luoghi, un cervo sacro che compare per incutere all’uomo una sensazione di «timore e tremore» – per restare in ambito filosofico – e spingerlo fuori dai confini del bosco, come l’ospite indesiderato che è. Anche il protagonista del secondo racconto si trova di fronte qualcosa di inconcepibile, che supera ogni possibilità di comprensione: una mattina, il saggio Abn Al-Faradi (un nome che ricorda «l’arabo pazzo» Abdul Alhazred, il mago autore del Necronomicon, ideato da Lovecraft) si trova di fronte a un abisso nero, apparentemente senziente, che lo segue per tutto il giorno. Ovviamente, il saggio è l’unico a potersi rendere conto della sua presenza, che incombe su di lui come una minaccia perenne, come un monito terribile a cui sarà costretto ad abbandonarsi. E infatti, quando si risveglia da quello che spera essere solo un sogno nero, sprofonda in un abisso senza uscita: «Quando Abn Al-Faradi si ridestò dal suo incubo e riaprì gli occhi, si ritrovò in un’oscurità senza inizio né fine. Egli stesso era oscurità, come uno sguardo privo d’occhio, come un occhio capace di vedere solo sé stesso».

Se c’è un elemento che lega i personaggi di Kulesko, del resto, è la loro impotenza. I diversi protagonisti non dimostrano solo la loro incapacità di intervento, ma una vera e propria forma di inadeguatezza verso una dimensione a cui non appartengono, una sorta di «debolezza» di fronte a qualcosa di soprannaturale che dimostra tutta la loro impreparazione. Persino il comandante Sidorov, il protagonista di Noi, il racconto più avvincente della raccolta, deve combattere contro qualcosa che non può sconfiggere. Insieme alla sua truppa si ritrova costretto ad abitare un villaggio fantasma, abbandonato da anni e somigliante a un limbo, ma presto lui e i suoi uomini scoprono di non essere soli: qualcosa di ineffabile e misterioso li minaccia, ma ogni tentativo di fuga o di difesa risulta inutile di fronte a quest’entità sconosciuta e incomprensibile. Recuperando di nuovo un paragone cinematografico, il comandante Sidorov ricorda il pilota R.J. MacReady – interpretato da Kurt Russell nel film La cosa, diretto da John Carpenter nel 1982 – destinato anche lui a una disfatta inesorabile. Non c’è alcuna possibilità di lotta contro questi nemici inafferrabili, i personaggi di Kulesko non possono fare altro che sprofondare nel nero dell’abisso: «La macchia ci corre incontro. Si fa più scura. Il rossore divampa lungo gli arti come sulla superficie di un frutto maturo. Sappiamo di essere visti. Sappiamo che ha paura di Noi. Sappiamo, e il suo terrore è il combustibile che alimenta il fuoco della nostra fame».

Con il racconto che chiude la raccolta, intitolato Dell’origine e destinazione del nulla di questo mondo, l’autore decide di mettere in scena direttamente i precetti di cui le altre storie erano soltanto ammantate. Grazie all’espediente di un anziano professore di filosofia chiamato a tenere un seminario sull’assenza di un vero obiettivo dell’esistenza umana, Kulesko commenta alcuni dei più importanti teorici del campo, da Freud a P.W. Zapfee (un metafisico norvegese del quale l’autore romano ha già analizzato il pensiero nel volume Blackened: Frontiere del pessimismo nel XXI secolo, scritto insieme ad Andrea Cassini e edito da Agualapano nel 2021), passando per Poe, Lovecraft, Thomas Ligotti e Eugene Thacker, di cui Kulesko ha tradotto per Nero due saggi, Tra le ceneri di questo pianeta e Rassegnazione infinita (entrambi per Nero). È proprio il pensiero del filosofo americano che viene incarnato dal Dottor Professore V.A. Strenovitz durante il suo seminario e da cui, in fin dei conti, in chiusura del volume viene persuaso anche l’anonimo protagonista del racconto: «È qui, ora, che mi trovo, ancora una volta. Incollato alla sedia di quest’aula. Solo. Circondato da scricchiolii. A pochi attimi dalla distruzione più totale. La veglia cede il passo a un sonno impenetrabile, in attesa che l’entità che mi tiene prigioniero decida di far ricominciare tutto daccapo. Un nuovo incipit, un nuovo racconto. Ogni volta lo stesso pub, le stesse persone, la stessa aula, lo stesso dolore. Il nulla. Il nulla. Un cittadino della non-esistenza».

Insomma, si sarà capito, L’abisso personale di Abn Al-Farabi è un libro che vuole far male al lettore, colpirlo nel profondo: non c’è nessuna volontà di redenzione, nessuna speranza nella salvezza, semplicemente perché non esiste nessuna scorciatoia, nessuna via di uscita dal buio profondo. Lo stile di Kulesko, però, rischia di rimanere troppo legato a un impianto saggistico, rendendo così la narrazione più antiquata, meno efficace, così poco definita da risultare talvolta fumosa ben oltre gli intenti originari. Il rischio per il lettore di rimanere solamente spaesato di fronte all’assenza di qualsivoglia carnalità o appiglio concreto permane. Ma, finita di leggere la raccolta di Kulesko, di sicuro non avremo paura del mostro nascosto nel buio della nostra stanza, quanto semmai la consapevolezza che, prima o poi, con quel buio avremo a che fare. Nel frattempo, possiamo tranquillamente chiudere gli occhi.

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