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A Imola, nel 1880, non c’è più traccia della Rocca Sforzesca. La cattedrale di San Cassiano è ancora in piedi ma è stata trasformata in una sala per la musica. Anche il convento dei cappuccini non è più quello di una volta e adesso ospita una scuola. Nella chiesa di San Domenico si organizza l’esposizione dei prodotti del giorno mentre in giro non si vedono guardie, soldati o preti. Non c’è povertà e quindi non ci sono mendicanti. Questa Imola del 1880, in cui ha trionfato la rivoluzione internazionale anarchica e socialista, è frutto – parola per parola – del Sogno di Andrea Costa, che a Imola è nato nel 1851.

Un sogno simile potrebbe piacere agli Emperor, una band norvegese black metal. I suoi componenti hanno nomi perfetti per una band norvegese black metal: Samoth, Ihsahn, Mortiis. Essendo nomi d’arte si potrebbe dire che non c’è nulla di strano, sono stati scelti con il preciso intento di avere un suono black metal. Ma Samoth, Ihsahn e Mortiis all’anagrafe risultano Tomas Thormodsæter Haugen, Vegard Sverre Tveitan, Håvard Ellefsen e si potrebbe dire che io nomi reali siano più black metal dei nomi d’arte. E anche nell’aspetto gli Emperor rispondono perfettamente all’idea che si potrebbe avere di una band norvegese black metal: capelli lunghi, facce cattive, vestiti neri, simboli di morte. Però, a differenza della maggior parte dei musicisti black metal, vestiti e truccati come se avessero appena finito di bruciare chiese e profanare tombe ma in realtà cittadini modello, attivi nel volontariato e amanti della famiglia, Samoth, Ihsahn, Mortiis hanno davvero bruciato chiese e profanato cimiteri. 52 chiese e 14.000 tombe, per l’esattezza. All’inizio degli anni ’90 vengono arrestati e condannati per questi ed altri crimini. Però, nonostante le travagliate vicende giudiziarie, nel 1994 esce il loro primo album: In the Nightside Eclipse, nell’eclissi notturna. E in un certo senso, visto che tutto l’album celebra un mondo al contrario, un mondo che deve ancora venire e lo si può solo sognare, l’eclissi notturna degli Emperor è molto simile alla rivoluzione internazionale, anarchica e socialista del sogno di Andrea Costa.

Questo Sogno, che nel 1900 è ancora un semplice sogno, viene pubblicato nel 1900 nella collana «Biblioteca Educativa Sociale» dell’editore Nerbini di Firenze. Bisogna accontentarsi visto che la rivoluzione internazionale non ha trionfato né a Imola né a Bologna né altrove. Ma c’è chi spera, prima o poi, di vederla realizzata. Per esempio un ragazzo mingherlino, biondo e piuttosto pallido. Un ragazzo complicato che, per nascondere la timidezza e sembrare un rivoluzionario, indossa un cappello storto e una cravatta rossa fiammante. Lui, il ragazzo complicato, è Giovanni Pascoli, detto Giovannino o anche Zvanì, arrivato a Bologna nell’autunno del 1873 per iscriversi alla facoltà di Lettere grazie a una borsa di studio di 600 lire. Fra i membri della commissione che esamina i candidati e assegna le borse c’è un professore bizzoso e irascibile, uno da «piove, governo ladro!», uno che sforna articoli politici e li firma con lo pseudonimo Anarkos, uno che compone uno spiazzante Inno a Satana in cui a un certo punto si dice: «Via l’aspersorio // Prete, e il tuo metro! // No, prete, Satana // Non torna in dietro!» e poco più avanti: «Spennato arcangelo // Cade nel vano. // Ghiacciato è il fulmine // A Geova in mano.» Il professore è Giosuè Carducci, che prima di diventare il «vate», prima di trasformarsi nel trombone monarchico e conservatore delle antologie scolastiche, è un poeta ribelle che invoca Satana, minaccia i preti e spenna gli arcangeli. Un poeta ancora acerbo, questo sì, ma comunque un ribelle fatto e finito. Grida ai quattro venti il tradimento degli ideali risorgimentali, insulta Pio IX e organizza pranzi e cene per mangiare di grasso il Venerdì Santo e banchettare a costine di maiale e lambrusco nelle vigilie.

Il suo Inno a Satana, sia detto fra parentesi, finisce nell’album In the Nightside Eclipse della band norvegese black metal Emperor, la cui ultima traccia, la numero nove, si chiama esattamente così, «Inno a Satana», in italiano. Il testo è diverso ovviamente, e per la verità meno inquietante di quello scritto da Carducci, ma c’è sempre Satana che esce dalle ombre e vince contro l’ignoranza.

Intanto, grazie alle 600 lire della borsa di studio, Pascoli prende casa a Bologna e va ad abitare da un imbianchino in Borgo di San Pietro. I soldi sono pochi ma almeno può calarsi nel fermento e nell’agitazione politica del tempo. L’anno 1874, che sta per arrivare, è un anno cruciale. Qualche tempo prima conosce Andrea Costa, anche lui arrivato in città per frequentare la facoltà di Lettere. Povero in canna, Costa cerca di ottenere un sussidio dal sindaco di Imola. Visto che nessuno gli risponde, si fa scrivere una lettera di referenze proprio da Carducci: «Il sottoscritto, professore di letteratura italiana in questa università, attesta che il signor Andrea Costa frequentò nello scorso anno accademico 1870-71 e frequenta in questo principio del corrente anno le sue lezioni con diligenza, e piglia parte alle ripetizioni e agli esercizi di interpretazione e di stile con moltissimo studio e con evidente profitto». Tentativo inutile: anche questa richiesta viene respinta a causa della sua fama di «ribelle ad ogni tradizione».

Comunque la lettera di Carducci dimostra che i due si stanno simpatici: il professore apprezza il giovane Costa, smilzo, piuttosto basso, sempre in disparte ma attento e concentrato dietro le lenti degli occhialini tondi. Costa, a sua volta, ama le lezioni di Carducci e ammira le sue odi populiste e quell’incredibile Inno a Satana. Gaetano Darchini, che in quel periodo abita con Andrea Costa in via De’ Giudei, racconta in un manoscritto autobiografico: «Dopo un anno di università a Bologna mi torna a casa più ribelle di prima e comincia a parlarmi di un certo Carducci, suo professore di letteratura, e poi, come una fanfara mi fa tuonare nell’orecchio l’Inno a Satana. A dire il vero lui ci capiva poco, e io un po’ meno; ma che importa? Così in confuso, tutti e due si capiva che trattavasi del diavolo, e per noi allora ce n’era d’avanzo».

Quel che a Costa e Darchini appare confuso, Carducci lo spiega perfettamente in una lettera all’amico Quirico Filopanti: «Per i teocratici poi, mette conto ripeterlo? Satana è il pensiero che vola, Satana è la scienza che esperimenta, Satana il cuore che avvampa, Satana la fronte su cui è scritto: Non mi abbasso. Tutto ciò è satanico. Sataniche le rivoluzioni europee per uscire dal medio-evo, che è il paradiso terrestre di quella gente».

Satanica è anche la rivoluzione che Costa progetta di far scoppiare a Bologna. In fondo, per uno che a 15 anni, mentendo sull’età, tenta di arruolarsi nella brigata garibaldina dei Cacciatori delle Alpi e poi, a 17 anni, si mescola fra le camicie rosse dirette a Brescia, la rivoluzione è una specie di destino. E insomma, per quanto possa sembrare assurdo, in quegli anni si forma un improbabile terzetto di teste calde: Costa, Pascoli e Carducci. A loro si aggiunge, nel 1874, Michail Bakunin. L’anarchico russo deve guidare la satanica rivoluzione prevista per l’8 agosto, anniversario della cacciata degli austriaci da Bologna.

Ma l’organizzazione della sommossa si rivela più complicata del previsto. Il congresso dei lavoratori internazionalisti, che dovrebbe dare il via all’insurrezione, viene sabotato dalla soffiata di una spia che fa arrestare molti cospiratori. Costa, avvisato per tempo, scampa alla cattura e rimanda l’appuntamento al giorno dopo, a Bologna. Ma la sera del 16 marzo, mentre è al caffè del Teatro Comunale con altri internazionalisti, viene sorpreso da una retata. A guidare lo stuolo di poliziotti, guardie e carabinieri è un brigadiere efficientissimo, soprannominato Sgumbrein, che per prima cosa grida ai clienti: «sgomberare, sgomberare!» e poi fa arrestare Costa, Cafiero, Malatesta e parecchi altri. Rimangono in carcere per due mesi poi, siccome non ci sono prove per condannarli, tornano in libertà.

A questo punto è chiaro che le spie sono ovunque e l’insurrezione bolognese può avere successo solo se si agisce nella massima segretezza. Nel romanzo Il diavolo al Pontelungo, che racconta della satanica rivoluzione bolognese, lo scrittore Riccardo Bacchelli rende benissimo questa atmosfera carbonara e lo fa avvolgendo i protagonisti in una perenne cortina di fumo. Per esempio Bakunin, impegnato a fabbricar bombe, è continuamente circondato dal fumo del tabacco e delle pentole in ebollizione. Nella casa bolognese in cui ha nascosto mezzo quintale di polvere da sparo si aggira con la sigaretta accesa in bocca. Facile prevedere, quindi, che il progetto salterà per aria.

Infatti, tre giorni prima del fatidico 8 agosto, Andrea Costa viene arrestato. Nonostante il bruttissimo colpo, Bakunin e gli altri decidono di andare avanti. Il 7 agosto partono da Imola, diretti a Bologna, 150 giovani, sono tutti rivoluzionari e tutti, o quasi, senza armi. Appena fuori città dovrebbero trovare i fucili necessari a piombare sulle guardie, correre al carcere cittadino, liberare tutti i prigionieri e sollevare il popolo. Delle armi non c’è traccia e i 150 partiti da Imola neppure mettono piede in città: molti si sbandano, altri vengono arrestati. La satanica rivoluzione bolognese si rivela per quel che è: un’operazione squinternata senza la minima possibilità di successo. Il fallimento sembra dar ragione a Friedrich Engels: «Tutte le pretese sezioni dell’Internazionale italiana sono dirette da avvocati senza cause, da medici senza malati e scienza, da studenti da bigliardo, da commessi viaggiatori e altri impiegati di commercio».

Comunque Bakunin riesce a fuggire ma Costa, accusato di essere a capo della rivolta, deve affrontare 22 mesi di carcere preventivo e il processo davanti al Tribunale Correzionale. Nel rapporto del questore di Bologna al procuratore del re si legge: «Può dirsi, senza tema di errare, che il Costa fu ed è l’anima e la mente direttiva del partito Internazionale in Italia» il cui programma si può riassumere «in queste poche parole: abbasso la piramide sociale, religioni e credenze, patria e governo, esercito, proprietà, capitale, eredità e famiglia». Una sintesi perfetta.

Il processo dura da marzo a luglio del 1876 e attira moltissima attenzione. L’avvocato difensore è un noto repubblicano, Giuseppe Ceneri, che chiama a testimoniare un rinomato poeta, Giosuè Carducci. Sul Bulletin della Fédération jurassienne del 24 marzo 1876, a proposito del processo, si legge: «la folla accorse in proporzioni maggiori del solito. Si è notato che gli allievi delle scuole hanno abbandonato le lezioni per venire all’udienza». Insomma, tutta l’attenzione è puntata sulla sorte di Costa e degli altri imputati. L’imolese risponde gagliardo alle varie domande e a un certo punto dice: «Del nome di malfattori io e i miei compagni non ci occupiamo». Quelli che oggi lo accusano di essere un malfattore, fa notare, sono gli stessi che in passato venivano chiamati straccioni dalla nobiltà. Perciò non si preoccupa di essere chiamato malfattore e, anzi, ne va fiero. Questa dichiarazione diventa subito famosissima, la gente se la racconta e ci ricama su. Qualcuno riporta quelle parole al padre, Pietro Costa, che commenta: «E sra e vera che mi fiò l’à dl’inzegn, mo me an e cred. L’è sempre pr’al galer».

Non ha tutti i torti. A quei tempi, essere socialisti, anarchici e internazionalisti significa passare moltissimo tempo in galera. Anche senza organizzare insurrezioni armate. Per esempio il ragazzo mingherlino, Giovannino Pascoli, Zvanì, viene arrestato il 7 settembre 1879. Sembra incredibile, il futuro autore di Myricae e dei Canti di Castelvecchio arrestato come un facinoroso rivoluzionario. D’altronde l’abbiamo detto, in quegli anni c’è forte sintonia fra lui, Costa e Carducci. Fra l’altro Pascoli ha già perso la borsa di studio di 600 lire per aver fischiato il ministro dell’Istruzione, Ruggero Bonghi, mentre è in visita all’Università. Poco dopo interrompe gli studi per affiliarsi al movimento internazionalista e frequentare la federazione cittadina. A introdurlo è appunto Andrea Costa, verso la fine del 1876. L’anno dopo Pascoli fa il suo ingresso nella redazione del giornale socialista Il Martello, che è ospitata nella cucina di un sarto, e promette di contribuire a suo modo, cioè scrivendo una poesia. Non scherza, qualche tempo dopo pubblica La morte del ricco, che si chiude così: «Venga l’esecutor! Dubbio, t’avanza! // fissalo col tuo grande occhio sbarrato! // Costui d’un’altra vita ha la speranza: // che muoia disperato! Costui, naturalmente, è il ricco.» E non è la prima provocazione in versi. Per la morte dello zio Alessandro Morri compone una poesia che la zia Luisa Vincenzi, moglie del Morri, sottopone al giudizio della compaesana Giovannina Grilli. «Brusèla» risponde quella, «brusèla! La è contra Crest!». Non passa molto tempo e Giovannino rischia di perdere la supplenza al ginnasio comunale «Guido Guinizzelli», supplenza che gli ha procurato il solito Carducci. Il preside vorrebbe cacciarlo perché fa troppe assenze. E il motivo di quelle assenze è noto al preside e anche alla prefettura, che riceve svariate segnalazioni sull’agitatore Pascoli, sempre in giro a far comizi, sempre circondato da pericolosi sobillatori (in primis Costa) che saluta confidenzialmente gridando, alla maniera degli anarchici: «zòca e manèra!».

Quindi, per tornare al 7 settembre del 1879, si conclude il processo contro un gruppo di internazionalisti, arrestati durante una manifestazione in favore di un cuoco napoletano, Giovanni Passannante, che aveva cercato di pugnalare il re Umberto I a Napoli. Quel 7 settembre si svolge un’altra manifestazione, per protestare contro l’arresto e il processo agli internazionalisti. Partecipa anche Pascoli, che è fra i più esagitati. Viene infatti arrestato dai carabinieri per grida sediziose e oltraggio. L’accusa è di aver urlato: «Viva la Comune, viva l’internazionale, viva i malfattori, avanti vigliacchi sgherri!». Ecco che torna quella parola, malfattori, usata da Costa e diventata per anarchici, socialisti e internazionalisti una specie di titolo d’onore. Nel verbale d’arresto scritto dai Reali Carabinieri si legge: «Al Pascoli si rinvenne la somma di £ 20, composta di un biglietto della banca consorziale, una poesia in dialetto bolognese ed una lettera privata scrittagli da Susa». E qui c’è un piccolo mistero. Di chi è la poesia in dialetto bolognese? Di Zvanì? Sarebbe una notizia sorprendente. Giovannino parla il dialetto, «ad dialèt a m’intend neca me» dice lui stesso, però non risulta che abbia scritto poesie in bolognese. O magari si tratta di dialetto romagnolo ma i Reali Carabinieri lo confondono con quello bolognese. Forse è la famigerata Ode a Passanante che, a quanto riferisce Gian Battista Lolli, suo amico internazionalista, Pascoli improvvisa alla fine del 1878 al termine di una scazzottata fra internazionalisti e monarchici a Bologna. «Mal date, ma ben ricevute!» commenta. E poi recita l’Ode a Passannante che si conclude così: «Colla berretta di un cuoco faremo una bandiera». Dopodiché, a sentir Gian Battista Lolli, la straccia. Oppure finge di farlo, la rimette in tasca, e un anno dopo gliela sequestrano i Reali Carabinieri: «Coń la bratta d’un cûg farem una bandïra».

Dopo due mesi di carcere, il 9 novembre, Pascoli viene interrogato. Nessuno gli domanda della poesia, vogliono sapere cosa combinava durante la manifestazione per Passannante: «Quando fui in detto luogo sentii che da alcuna di quelle persone che secondo me erano convenute all’unico scopo di vedere i condannati si proferivano delle grida fra le quali intesi “abbasso il sovrano anzi il Gran Sacerdote, abbasso i tiranni, viva la Comune, e non sono malfattori”. Sebbene io non proferissi parola, pure fui invitato a seguire i Reali Carabinieri». Un po’ tiepida, come risposta, per un facinoroso socialista. Sarebbe stato bello sentirlo declamare «Coń la bratta d’un cûg farem una bandïra» o, meglio ancora, citare alcuni versi del carducciano Inno a Satana: «E già tremano // Mitre e corone: // Dal chiostro brontola // La ribellione.» D’altra parte l’obiettivo di Pascoli è farsi rilasciare al più presto. Con lo stesso intento il suo avvocato, Giuseppe Barbanti Bròdano, chiama a testimoniare Giosuè Carducci «per deporre sulle qualità morali dell’imputato e sulla sua incapacità a delinquere sul genere di fatti a lui attribuiti». È una decisione un po’ azzardata, anche perché lo stesso avvocato ha appena subito un processo per propaganda in favore dell’ateismo a Reggio Emilia dove, fra l’altro, è andato assieme a Olindo Guerrini e, manco a dirlo, a Giosuè Carducci. Avvocato e testimone, insomma, non sono per niente graditi ai giudici. Eppure, dopo più di 3 mesi di carcere, il 22 dicembre Pascoli viene assolto dal Tribunale Correzionale perché, come si legge in una nota della Questura di Bologna del 22 dicembre 1979 «venne a mancare completamente la prova testimoniale, di modo che il pubblico Ministero si è trovato nella dura necessità di ritirare l’accusa e di chiedere l’assoluzione degli imputati dal Corpo Giudicante». Nella dura necessità: si capisce benissimo che per il giudice l’idea di rilasciare Pascoli è ripugnante. Del resto continua ad essere un sorvegliato speciale del Ministero dell’Interno.Zvanì, infatti, continua la militanza almeno fino al 1883. L’anno prima Andrea Costa è diventato il primo deputato socialista del parlamento italiano. A differenza di Pascoli, non abbandonerà mai la politica e neppure smetterà di finire in galera. Ancora nel 1887, durante una dimostrazione per Guglielmo Oberdan, viene arrestato con l’accusa di aver rotto l’ombrello in testa a un agente di pubblica sicurezza. Morirà il 19 gennaio 1910, a 59 anni. L’epigrafe sulla tomba è opera dell’amico e (ormai) poeta affermato Giovanni Pascoli. Che due giorni dopo inizia la sua lezione alla Facoltà di Lettere di Bologna con una prolusione dedicata a Costa in cui, a un certo punto, fa notare: «E si cominciava così, col dichiarare sospetti di malaffare e addirittura malfattori quelli che a Roma risorta chiedevano le tavole della nuova legge, la luce dei nuovi diritti, il morem pacis, da insegnare ai popoli. Quel giovane sospetto continuò la sua via». Una bella prova di amicizia, va detto, riconoscere a Costa – che pure da anarchico era diventato socialista – la coerenza delle proprie scelte e il coraggio di perseguirle, a costo di essere considerato un malfattore. Titolo che il Tribunale Correzionale di Bologna si è trovato nella dura necessità di rimuovere dal fascicolo di Giovanni Pascoli. Che il giorno dopo l’assoluzione, il 23 dicembre, con una lettera al regio procuratore, mette a segno una memorabile beffa ai danni dell’ordine costituito: «Il sottoscritto, assolto con sentenza di questo tribunale correzionale, in data 22 corrente, domanda alla S.V.I. che gli vengano restituite le 20 lire sequestrategli all’atto dell’arresto». E che la Signoria Illustrissima si tenesse la poesia in dialetto bolognese. Meglio 20 lire e un Inno a Satana perché, come canta la band black metal Emperor, il potente signore della notte, il maestro delle bestie, è portatore di stupore e derisione.

One Comment

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