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«Ciò che tu fai è vergognoso: mai una fata che si rispetti ha accarezzato un bambino. I baci di una fata sono per le colombe, i giovani cerbiatti, i fiori, le creature graziose e inoffensive; l’animale impuro e malvagio che tu ci conduci insudicia le tue labbra».

Il crepuscolo delle fate di George Sand (edito da La Vita Felice, a cura di Angela Cerinotti) ci pone quasi subito di fronte a un conflitto. La giovane fata Zilla ha ritrovato e soccorso il figlio del principe, precipitato in un burrone insieme al suo cane, e lo ha condotto con sé nella valle delle fate. Ma viene immediatamente apostrofata (pun intended) dalla vecchia Trollia con le parole riportate sopra. Nel ridente e pacifico regno di queste creature si delinea quindi una frattura, di certo preesistente ma acuita dalla contingenza, tra “le vecchie”, più conservatrici e determinate nel mantenere lo status quo, e “le giovani”, incuriosite e attirate dalla novità che il bambino e il cane rappresentano. Tramite lo scambio acceso tra Zilla e Trollia veniamo a conoscenza dell’origine delle fate, nella versione di George Sand: erano in origine delle donne che, avendo in odio il crudele mondo degli uomini, se ne sono allontanate bevendo una pozione che le ha rese immortali, e che ha fissato la loro esistenza nel momento in cui è avvenuta la trasformazione (ecco perché esistono le giovani e le vecchie). Il prezzo per la vita eterna è la rinuncia ai sentimenti e alle emozioni umane, alla possibilità di dare la morte e anche di dare la vita. Queste creature vivono isolate nella loro valle, godendo semplicemente della natura e della reciproca compagnia, e anche se emerge un certo senso di noia (soprattutto fra le giovani), tutto sommato le cose sembrano andare per il meglio finché possono non interagire con i sudici umani, portatori di morte e distruzione.

George Sand non si limita a rielaborare il materiale mitologico e fiabesco, ma attinge alla sua – si può dire inesauribile – linfa vitale per dare forma a un ambiente narrativo apparentemente tradizionale, in cui innestare però tematiche nuove, moderne e molto più complesse di quelle di tale tradizione. D’altra parte l’autrice ha grande familiarità con le leggende popolari, tanto che nel 1858 (pochi anni prima del Crepuscolo) pubblica Légendes rustiques (in italiano Le fantastiche leggende della terra, Edizioni Fahrenheit 451, traduzione di Federica Angelini), dove raccoglie alcune di quelle storie che sin da bambina aveva ascoltato nella campagna francese, le più oscure e inquietanti, tramandate di notte in notte. Nonostante nella sua prefazione alle Légendes sembri schermirsi: «Amo troppo il fantastico per non essere che una dilettante di professione», il libriccino che compone è davvero prezioso sia come testimonianza di un’epoca che già negli anni in cui scrive andava scomparendo, sia per il valore letterario e il semplice piacere della lettura. Alcune caratteristiche che, sempre nella prefazione, Sand attribuisce alle leggende che ha selezionato e ri-raccontato sembrano adattarsi bene anche al suo lavoro nel Crepuscolo delle fate: «una miscela di terrore e ironia, una straordinaria originalità nell’invenzione unita a un simbolismo innocente e infantile che attesta il bisogno del vero morale all’interno del delirio fantastico». 

Questo lavoro di rimaneggiamento, rimodellamento e, quasi inevitabilmente, risignificazione del mito mi ha ricordato un testo scritto più di cento anni dopo quello di Sand, ovvero nel 1975 da Monique Wittig e Sande Zeig. Ho pensato quindi di intrecciarne le letture.

Ed ecco il primo intreccio: leggende e mitologia, riscrittura e risignificazione.

Opera strutturata effettivamente come un dizionario, Appunti per un dizionario delle amanti di Wittig e Zeig (Meltemi, traduzione di Onna Pas) si rivela essere, man mano che si legge, anche una narrazione (necessariamente e volutamente frammentaria) di una mitologia diversa da tutte quelle conosciute. Si tratta in realtà di una “simulazione” di mitologia: non traendo origine dalla tradizione orale non può presentarne tutta la complessità e le stratificazioni. Tuttavia è un’imitazione riuscita, quantomeno da un punto di vista letterario, anche grazie all’uso di alcuni dispositivi retorici come la ripetitività di alcune formule o le lievi variazioni su tema che in qualche modo alludono all’infinita ramificazione tipica delle storie orali. 

Il gioco letterario viene scelto dalle autrici come una delle pratiche possibili per riplasmare l’immaginario, operazione che ha una precisa e deliberata valenza politica (aspetto che verrà affrontato nella nota finale).

La mitologia costruita da Wittig e Zeig è incentrata esclusivamente su figure femminili, perlopiù estrapolate da miti esistenti e ri-raccontati, abbiamo quindi tra le voci del Dizionario: Danai, Erinni, Gorgoni, Arpie, Sirene, Streghe etc. Tutte vanno sotto il nome di Amanti, la cui genealogia risale a un unico popolo originario, quello delle Amazzoni: «In principio, se mai vi è stato un principio, tutte le amanti si chiamavano amazzoni. E vivendo insieme, amandosi, celebrandosi, giocando, in un tempo in cui il lavoro era ancora un gioco, le amanti nel giardino terrestre si sono chiamate amazzoni per l’intera età dell’oro». Tuttavia, questo paradiso terreste non è destinato a durare, similmente a quanto avviene nella storia di Sand.

Ed ecco il secondo intreccio: le vecchie e le giovani, le amazzoni e le madri.

Nel Crepucolo, avevamo lasciato la giovane Zilla alle prese con una crisi da gestire e un ragazzino sperso da accudire. Dalla saggia regina le viene concesso di occuparsi del bambino e del cane, seppur lontano dalle altre fate. Inizia così il lungo e accidentato percorso di Zilla per assumere il ruolo di madre, almeno nelle funzioni pratiche, perché invece nell’essenza, se così si può dire, madre non si sentirà mai. E questo è il nodo fondamentale del discorso: Sand non tratteggia la psicologia di una persona che desidera essere madre senza poterlo, non il dolore di non poter sperimentare la maternità, ma quello di non riuscire a provare l’amore materno. Certamente le fate non possono generare, ma nemmeno lo desiderano, perché non sanno cosa possa significare: «[…] se le fate fossero state capaci di amare, sarebbero tutte state innamorate di lui: ma i loro impulsi sono così ben regolati dall’impossibilità di morire che non possono aspirare a un sentimento umano così profondo; la stessa amicizia è loro negata come sentimento capace di procurare sofferenza e quindi di turbare l’equilibrio perfetto e monotono della loro esistenza. Ciò che resta della loro origine umana è perfettamente commisurato alla possibilità di commuoversi senza dolore e senza durata. Così esse sono impulsive e irascibili, ma dimenticano in fretta e dopo stanno ancora meglio. […] si agitano per niente e per niente si rallegrano. Non conoscono la felicità e di conseguenza non la cercano: che cosa potrebbero farsene?»

Quello che succederà a Zilla – dopo aver nei fatti cresciuto il fanciullo ed essere da lui considerata come una madre e, successivamente, quando lui a sua volta avrà dei bambini, aver osservato l’amore che una madre umana (la moglie del ragazzo) sente e manifesta – sarà di essere gelosa di un sentimento che, per sua natura, non riesce a provare. Zilla desidererà il desiderio di amare come una madre. E questo è sostanzialmente il massimo del sentimento umano che riuscirà a raggiungere.

Questa sua irrequietezza e insoddisfazione però non resta isolata, ma in qualche misura coinvolge (le vecchie fate direbbero contamina) tutto il suo mondo, creando una crepa destinata nel tempo a spaccare la comunità.

«[…] questi esseri hanno ragione. La cosa più bella e più preziosa che possiedono è il dono di amare e sentono bene che noi non l’abbiamo. Noi che li disprezziamo, noi siamo tormentate dal bisogno di ispirare affetto, e lo spettacolo della loro felicità caduca distrugge la quiete della nostra immortalità». È la regina delle fate a parlare, interpretando il pensiero delle giovani, le quali chiederanno che venga loro restituita la capacità di amare e sceglieranno di tornare nel mondo degli umani, convinte di poterlo riformare con le arti magiche, correggerne gli errori, castigarne i vizi, ricompensare i progressi. Al contrario, le vecchie si isoleranno ancora di più, rinnovando la loro dichiarazione di guerra contro il nemico di sempre. Nella valle resteranno soltanto Zilla e la regina, che sceglieranno un destino diverso da entrambe le fazioni.

Al contrario del mondo fatato di Sand, che, seppure per contrasto, si inserisce in una realtà simile alla nostra, per Wittig e Zeig non esiste alcun “mondo degli uomini” (né persone di genere maschile). Tuttavia, anche il mito delle amazzoni racconta di una spaccatura e, in modo ancora più determinante che nel Crepuscolo, essa ha come perno il tema della maternità. L’armonia dell’originario «giardino terrestre» dove vivevano le amanti viene spezzata quando molte di esse diventano stanziali, fondano città, si danno all’agricoltura e, soprattutto, «sempre più spesso osservarono crescere i loro ventri». Da quel momento cambia la nomenclatura e con essa la geografia concettuale del mondo delle amanti: «si sono chiamate madri»; e ancora: «le madri si dissero semplicemente donne». La creazione del nome (in un libro che è appunto un dizionario) segna l’origine di una nuova realtà, separata e differente: «Si sono chiamate donne per designare la loro funzione specifica, coloro-che-generano-innanzitutto-e-prima-di-tutto. Le madri hanno definito donne le amazzoni, ma solo con l’aggiunta di un termine descrittivo, al fine di distinguerle da ciò che è veramente una donna. Esse le chiamavano donne-guerriere, donne-amanti, donne-cacciatrici, donne-erranti. Tra le amazzoni non c’erano donne identificate come donne, ovvero come madri. Esse non hanno mai accettato il neologismo donna. Per loro, restavano delle amazzoni, delle guerriere, delle amanti».

Da notare che anche le amazzoni ogni tanto generano delle bambine, e le allevano insieme come ai tempi antecedenti alla rottura. Nonostante ciò, rifiutano di identificarsi come madri e per questo «amazzone è arrivato a significare, nonostante tutto, colei-che-non-partorisce» e, con accezione ancora più dispregiativa (dal punto di vista delle madri, naturalmente): «Amazzone aveva ormai per loro il significato di figlia, eterna bambina, immatura, colei-che-non-si-fa-carico-del-proprio-destino». In maniera in un certo senso inversa rispetto al Crepuscolo delle fate, dove sono le più vecchie che rifiutano (tra le altre cose) la maternità, qui vengono considerate “bambine” coloro che rinnegano quel ruolo.

Terzo intreccio: mortalità, rabbia e dolore

«Il lavoro, la sofferenza e la morte ancora non esistevano nel giardino terrestre» dicono Wittig e Zeig descrivendo l’età dell’oro, quando ancora regnava l’armonia tra le amanti. «Le loro avventure non avevano limiti e l’età non aveva senso. Tutte si consideravano amazzoni». Alla voce mourir/morire si legge però che «Dal giorno in cui i popoli di amanti hanno rinunciato all’idea che fosse assolutamente indispensabile morire, nessuna lo ha più fatto. Tutto il processo della morte è caduto in disuso». Possiamo quindi immaginare un tempo ancora antecedente, in cui si moriva. 

Come già detto, lo stesso è accaduto alle fate, che si sono liberate dalla mortalità, non senza un certo rammarico, almeno per quanto riguarda la vecchia Trollia, che abbiamo imparato a conoscere per la sua amorevolezza: «Per conto mio, se mai mi sono pentita di essermi sottratta, con la pozione magica, alla signoria della morte, è per il pensiero di aver perduto il potere di darla agli uomini. […] La stessa vita implacabile che ci possiede ci condanna a rispettare la vita. È una grande fortuna che noi non siamo più costrette a uccidere per vivere, ma è anche una grande disgrazia l’essere obbligate a lasciar vivere ciò che si vorrebbe vedere morto». 

In ogni caso queste creature vivono in un tempo fermo, che viene poi turbato da qualcosa: una novità, una rottura, la messa in moto della storia.

Nel rapporto tra le creature immaginarie e la morte, due particolari mi hanno colpito. Il primo: nel Dizionario, alla voce rage/rabbia si legge: «Malattia considerata la causa principale del gran numero di morti tra le antiche amazzoni. Si è detto che nel caso in cui fossero state catturate o ferite in battaglia, allora “sarebbero morte di rabbia”». In un mondo in cui si è smesso di morire, si può ancora morire di rabbia. Questo mi sembra interessante. Peraltro il tema torna quasi di soppiatto anche alla voce echappement/scarico: «Se una collera improvvisa ti soffoca, soffoca».

Per il secondo particolare, torniamo tra le fate del Crepuscolo e le accompagniamo alla conclusione della storia. In seguito alla dispersione del loro popolo in direzioni opposte, la regina e Zilla restano da sole e scelgono una terza via: bere alla coppa che restituirà loro la capacità di morire. Non possono prevedere cosa accadrà, se moriranno all’istante o torneranno a essere mortali o se qualche altro lugubre destino le aspetta. Tuttavia Zilla, quale che sia la sorte, accetta di «rifare conoscenza col dolore». La mortalità porta con sé la capacità di soffrire, e quindi di sentire. È ciò che aveva lungamente desiderato.

Nota finale: tirare le fila e fili scoperti

L’idea di intrecciare le letture del Crepuscolo e del Dizionario è nata dall’istinto e per il gioco. Non ho voluto definirla una lettura parallela, né tanto meno un’analisi comparata. Per questo non tirerò le fila del discorso: non voglio stringerle in un nodo e arrivare a un punto, fermo e preciso, perché questi intrecci non hanno pretese di scientificità, sono solo suggestioni. Mi divertiva pensare di poter avvicinare queste opere con lo stesso approccio di quando si cercano somiglianze tra un cane e la sua persona o tra una nuvola e una cosa qualunque o tra una macchia di muffa e un’apparizione mariana. Per giocare a questo gioco, ho necessariamente dovuto tralasciare vari aspetti di entrambi i testi, che tuttavia mi sembrano troppo rilevanti per non farne almeno menzione, seppur brevemente.

– Ne Il crepuscolo delle fate, ha un ruolo importante e uno spazio molto ampio il rapporto (intenso, conflittuale, si potrebbe dire di co-dipendenza) tra la fata Zilla e il suo figlio adottivo. Il personaggio di Ermanno non è affatto secondario, tanto che la sua psicologia viene approfondita quasi quanto quella della protagonista. La sua crescita è segnata dalle difficoltà di adattarsi a un mondo distante da quello umano, che per molti versi sente incompatibile con la sua natura. Vari sono gli episodi in cui si scontra con la nuova madre. In uno dei passaggi più suggestivi si legge: «Ella cercò di incantarlo con un sogno più bello di tutti gli altri. Lo portò sulla luna. Ci stette un attimo volentieri e poi volle andare sul sole. Lei proferì altre formule magiche e andarono sul sole. Ma Ermanno non credette più a ciò che vedeva; ogni volta diceva alla fata: “Tu mi fai sognare, non mi fai vivere”». Questa irrequietezza lo porterà a fuggire dalla valle delle fate, solo per scoprire di essere ormai troppo lontano dalla vita degli uomini, di non poterla più comprendere né adattarsi alle sue regole («Avendo fame, aveva rubato qualche frutto e compariva davanti a un giudice che non riusciva a fargli capire che, quando non si ha da mangiare, bisogna lavorare o morire»). Ermanno avrà comunque il suo epilogo felice, raggiungendo un equilibrio tra i due mondi a cui appartiene e soprattutto, dopo un ultimo lacerante scontro, trovando il modo di riconciliarsi con l’ingombrante figura della madre-fata.

– Il sentimento dell’amore nel Crepuscolo si manifesta in senso pieno e profondo solo come amore materno. L’amore tradizionalmente inteso come “romantico” è relegato a un breve episodio stereotipato (il giovane Ermanno, nel suo periodo di fuga nel mondo degli umani, incontra una ragazza, si innamorano al primo sguardo, si sposano, fanno dei figli). Interessante come le fate, che si erano incuriosite e “agitate” osservando il simil-rapporto madre-figlio di Zilla ed Ermanno, pur assistendo poi anche alla vita coniugale di quest’ultimo (perché si svolge nella loro valle, dove lui si è stabilito con la sua famiglia), non mostrano alcun interesse per questo aspetto. Tanto è vero che quando si disperdono per il mondo, non si fa menzione di un loro desiderio di sperimentare questo tipo di rapporto umano, mentre si parla di un gruppo di fate – tra le altre – che «volevano conquistare un’isola deserta nelle regioni dove il sole è cocente e popolarla di bambini rubati in tutte le parti del mondo». Quindi figli sì, ma senza coniuge.

– Sarebbe interessante soffermarsi su una figura apparentemente secondaria della storia raccontata da George Sand: Bonus. Qualche tempo dopo il ritrovamento di Ermanno, Zilla si imbatte in un uomo moribondo: si tratta del precettore che accompagnava il principe quando questi è scomparso e che, considerato responsabile per la sua presunta morte, è stato condannato all’esecuzione capitale, e pertanto è diventato un fuggitivo. Zilla porta anche lui tra le fate, dove l’uomo inaspettatamente trova molto presto il modo di adattarsi. Messo da parte il ruolo di precettore, si dà alla cucina, specialmente di dolci. Dalle fate che non sopportano di vedere i suoi stracci, viene vestito con abiti da donna. Di fatto passa da un ruolo socialmente riconosciuto come maschile a uno femminile (all’epoca in cui George Sand scrive). Se in un primo momento questo cambiamento può sembrare attribuibile alla convenienza («E, nella piacevole occupazione di dormire e mangiare bene, il precettore dimenticò i suoi giorni di miseria e non insistette presso il giovane principe per insegnargli a leggere»), più avanti le cose prendono una piega diversa.

Quando Ermanno si avventura nel mondo degli uomini, rischiando la vita, Bonus che gli è sempre fedele lo segue e lo salva. In quell’occasione deve nuovamente vestirsi da uomo, ma non appena la crisi è risolta e tutti rientrano nel regno delle fate, ecco che: «Bonus aveva ripreso con premura i suoi abiti femminili e con orgoglio la sua funzione di governante». C’è quindi una netta rivendicazione di quella nuova identità, che fa pensare a una figura transgender ante-litteram.

– Veniamo a Appunti per un dizionario delle amanti di Wittig e Zeig. Come già detto l’operazione mitopoietica portata avanti in questo testo e, prima ancora e in maniera affine, ne Le Guerrigliere di Wittig, si inserisce in un discorso molto più ampio e complesso, che ha una valenza tanto politica quanto filosofica. Wittig invita a pensare l’opera letteraria come una macchina da guerra: «Ogni opera d’arte importante è come il cavallo di Troia al momento della sua produzione. Ogni opera che possiede una nuova forma agisce come una macchina da guerra, perché la sua progettazione e il suo scopo risiedono nella polverizzazione delle vecchie forme e delle convenzioni formali. Tale opera è sempre prodotta in territorio ostile. E più il cavallo di Troia sembra strano, non conforme, inassimilabile, più tempo gli serve per essere accettato. Prima o poi verrà adottato e, anche se lentamente, funzionerà, poi, come una mina. Indebolirà e farà esplodere il terreno su cui era stato piantato. Le vecchie forme letterarie, a cui tutti erano abituati, appaiono col tempo obsolete, inefficienti, incapaci di operare trasformazioni» (in Il pensiero straight e altri saggi, Collettivo della lacuna). L’assalto a un sistema simbolico, anzi al sistema simbolico dominante, smantellandone la narrazione mitologico/storiografica per mezzo anche di una nuova letteratura, è per Wittig un passaggio ineludibile nella lotta contro la dominazione eteropatriarcale. Mettere da parte questo aspetto, come ho fatto io limitandomi a parlare dell’opera da un punto di vista letterario, è forse una forzatura. Mi consola sapere che il valore politico di questa operazione è stato, e certamente continuerà a essere, sviscerato in altri luoghi e da persone più competenti in materia.

– Di pari passo con l’aspetto politico, va la riflessione (e il lavoro) sul linguaggio di Wittig («Distruggere le categorie di sesso in politica e in filosofia, distruggere il genere nel linguaggio – o almeno modificarne l’uso – è parte del mio lavoro di scrittura», ibidem). Questo è forse più evidente in altri testi dell’autrice, in cui per esempio ha un ruolo determinante l’uso dei pronomi (v. L’Opoponax e Le Guerrigliere). In un testo come il Dizionario, la scelta di una forma frammentaria rimanda a una mobilità della prospettiva spesso difficile da trovare in una narrazione strutturata in maniera più classica e statica. Vi si può inoltre riscontrare un intento parodico rispetto a una forma (come appunto quella del dizionario o dell’enciclopedia) tradizionalmente deputata alla istituzionalizzazione e storicizzazione dei saperi. 

In conclusione, potrei dire che ho fatto mia tale prassi di riappropriazione e frammentazione per scrivere questo articolo. O forse anch’io avrei dovuto premettere che «amo troppo il fantastico per non essere che una dilettante». La morale della favola è che, in fin dei conti, questo articolo non è che una favola.

Martin Johnson Heade, Hummingbird and Passionflowers, ca.
1875–85 / The Metropolitan Museum of Art.

5 Comments

  • Solar ha detto:

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  • 1v1 lol ha detto:

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    Mi dispiace, ma la frase fornita non sembra avere senso o essere completa. Non riesco a commentare o comprendere il significato di “fate amazzoni e madri: una lettura intrecciata di George Sand e Wittig Zeig” senza ulteriori informazioni o contesto. Se puoi fornire ulteriori dettagli o chiarimenti, sarò felice di aiutarti a commentare l’argomento in modo più adeguato.

    Silent bob

  • silent bob ha detto:

    Mi dispiace, ma la frase fornita non sembra avere senso o essere completa. Non riesco a commentare o comprendere il significato di “fate amazzoni e madri: una lettura intrecciata di George Sand e Wittig Zeig” senza ulteriori informazioni o contesto. Se puoi fornire ulteriori dettagli o chiarimenti, sarò felice di aiutarti a commentare l’argomento in modo più adeguato.

  • esundertaker ha detto:

    The cost of immortality is the rejection of human emotion, the ability to both take and give life. Even though some boredom may set in (particularly among the younger members of the tribe), life in this valley seems to be going swimmingly for these animals drift hunters. until they come into contact with the filthy humans who carry death and ruin.

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