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Un mio collega, al manifesto, una volta mi ha detto che secondo lui il caso Moro è il nostro omicidio Kennedy, dunque crede che sia sacrosanto continuare a raccontarlo in ogni modo possibile. Un altro mio collega, invece, è del parere opposto e non ne può più di sentir parlare di Aldo Moro, del suo rapimento, del suo sequestro e della sua morte. C’è da capirlo: di queste storie lui se ne occupa da quel dì. Proprio quel dì, cioè il 9 maggio di quarantacinque anni fa, un martedì, quando il corpo del presidente della Democrazia Cristiana venne ritrovato crivellato di proiettili nel bagagliaio di una Renault 4 rossa parcheggiata in via Caetani, a Roma. 

Il problema, forse, è di punto di vista. Come si fa a raccontare un evento accaduto quasi mezzo secolo fa in maniera che abbia senso ancora oggi? È davvero possibile? Quanto è alto il rischio di perdersi qualche pezzo nel tentativo di non lasciarsi sfuggire il senso della storia? Di inchieste giornalistiche siamo pieni. Così come non mancano gli atti ufficiali, le commissioni parlamentari d’inchiesta, le interpretazioni più o meno apocrife, le opinioni, le suggestioni, le fantasie. Del caso Moro sappiamo praticamente tutto: i fatti accertati sono tanti e sono tanti pure i dietro le quinte che possiamo ritenere verificati. La meccanica degli eventi è chiara. Conosciamo quel che è successo, chi sono i colpevoli, quali le dinamiche che si sono innescate durante le settimane del sequestro, cosa è accaduto prima, cosa è accaduto dopo. A conti fatti i misteri rimasti insoluti non sono poi decisivi, non c’è nulla che davvero potrebbe riscrivere la storia. I tentativi di farlo sono per lo più coperture politiche a vecchie vergogne del passato: gli ex comunisti non vogliono ammettere che le Brigate Rosse facevano parte del loro album di famiglia, gli ex democristiani non tollerano che si ribadisca l’ovvio, cioè che Moro fosse inviso a una fetta piuttosto consistente del partito. In fondo è normale: per mezzo secolo l’Italia è stata il paese con il più grande partito comunista del mondo libero e, allo stesso tempo, uno dei paesi più ferocemente anticomunisti: il dibattito pubblico, spesso e volentieri, si è mosso tutto all’interno di questa contraddizione. Con eccessi – non solo retorici – di varia natura. Da qui il revisionismo, il complottismo, l’evocazione di un potere occulto e superiore in grado di determinare i destini dei singoli, di influenzare quelli generali e, in fin dei conti, utile ad assolvere chi c’era e si sente in colpa per non aver fatto abbastanza.

Quando si parla di quanto accaduto durante la primavera del 1978, le discussioni tendono a protrarsi per ore: esiste un gran numero di nerd dalla memoria lunghissima e la voglia matta di scandagliare ogni dettaglio per dimostrare una qualche contraddizione, un qualche punto oscuro, un momento meno chiaro di altri, per poi proclamare a gran voce che allora le cose non sono andate proprio come ce le hanno raccontate. 

Anche qui il punto di vista fa la differenza. Tutti i casi di cronaca, se osservati a partire dai loro particolari, si prestano a interpretazioni ambigue. Figuriamoci una vicenda complicatissima come il sequestro Moro. La verità, però, non si rivela nei dettagli (quello è il diavolo), ma si intravede solo quando si prova a guardare una storia nella sua interezza. 

E qui entrano in scena i narratori, cioè quelli che, più degli storici, degli investigatori e dei giornalisti possono essere in grado di dare un senso a ciò che accade. Perché se l’omicidio Kennedy non è soltanto la rassegna delle ombre di Lee Harvey Oswald, quello di Moro non può essere l’elenco delle ambiguità di Mario Moretti e delle Brigate Rosse. 

O meglio, è tutto insieme. Dunque qualcosa di più. 

Andrea Pomella, nel suo Il dio disarmato (Einaudi, 2022), ha preso i tre minuti dell’assalto di via Fani, quando Moro cioè venne rapito, e li ha dilatati abbastanza da infilarci dentro i familiari del presidente, gli uomini della scorta massacrati, i brigatisti, i testimoni. Quella mattina, giovedì 16 marzo del 1978, alla Camera era previsto il voto di fiducia al quarto governo Andreotti, con il Pci che, per la prima volta, avrebbe messo un piede all’interno del perimetro della maggioranza. Un momento storico che non si sa dove avrebbe portato, ma che si sa bene da dove proviene: dal lungo, complicato e sofferto lavoro di mediazione di Moro e di Enrico Berlinguer. Il compromesso storico, per dirla con i comunisti. Le convergenze parallele, se invece ci piace di più il lessico democristiano. 

Moro alla Camera non ci arriverà mai, perché all’incrocio tra via Fani e via Stresa, alle 9 del mattino, un commando di brigatisti rapisce il presidente dopo averne massacrato la scorta. «Esistono tre verità riguardo a uno straordinario avvenimento di sangue accaduto nel passato: una verità storica, una giudiziaria e una – più sfuggente – che ha a che fare con la percezione individuale e collettiva. Queste tre verità possono essere molto diverse tra loro». Così scrive Pomella nella nota metodologica che accompagna il suo ultimo romanzo. 

Gli domando quale delle tre verità lo convinca di più. 

«Da scrittore non potevo raccontare la verità storica di via Fani, né quella giudiziaria. Quindi ho affrontato la verità percettiva, diciamo. La letteratura racconta l’indicibile, dunque l’unica verità che potevo in qualche modo aggredire era quella che prova ad andare al di là. Poi, forse, la verità fattuale ha preso un po’ la mano a tutti, quindi nessuno si sforza di adottare un punto di vista diverso».

I fatti, dunque. Che poi inevitabilmente finiscono per scontrarsi con la memoria. È un problema abbastanza tipico: parlare di terrorismo con chi il terrorismo l’ha vissuto è necessario, ma non è detto che aiuti a fare chiarezza. Anzi, chi certi eventi li ha vissuti tende a considerarsi ancora una parte in causa, dunque pensa di avere il dovere di difendere la propria parte della barricata.

A una presentazione del libro che ho scritto sul caso Peci, tra i relatori invitati a discutere della questione, c’era anche Mario Paciaroni, giudice a latere del processo in cui furono condannati i responsabili di quell’omicidio. Discutemmo (forse un po’ troppo) su quello che avvenne a Genova, nel covo brigatista di via Fracchia la notte del 28 marzo del 1980, quando i carabinieri fecero irruzione e ammazzarono tutti quelli che trovarono dentro l’appartamento. Secondo lui era improprio dire che si era trattato di un atto indiscriminato. Io, per la verità, non ho mai usato troppi aggettivi per raccontare quel fatto, ma ho comunque segnalato come, secondo la maggior parte delle fonti, si trattò di una sorta di esecuzione sommaria compiuta per rappresaglia. Del resto, se i brigatisti erano convinti di essere in guerra con lo stato, che lo stato poi usasse la forza per difendersi non dovrebbe stupire nessuno. Almeno a decenni di distanza. Paciaroni, però, si sentiva (anche logicamente) in dovere di difendere la memoria della lotta al terrorismo e soprattutto quella del generale dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa, l’uomo che, tra le altre cose, aveva ordinato il blitz di via Fracchia. Tutta la dinamica, al di là dei dettagli, resta comunque spiegabile in termini politici. Dalla Chiesa era stato chiamato per sconfiggere le Brigate Rosse e, da parte sua, la linea da seguire era molto chiara: le Br sparano? Bene, spara anche lo stato. Poi vediamo chi ha più pallottole.

È una posizione lineare, per quanto dura e forse addirittura cinica. Certo, non sono cose che si possono dire in una fiction della Rai, ma a scorrere i vari eventi accaduti durante gli anni del terrorismo e le risposte offerte dallo stato, difficilmente si potrà giungere a conclusioni diverse. 

La memoria, però, tende a cancellare i dubbi e a creare icone, perché le aporie dell’esistenza rovinano ogni buona novella e nessuno vuole essere raccontato a partire dalle contraddizioni che porta con sé. 

In Esterno notte Marco Bellocchio comincia la sua storia con Moro che sopravvive al sequestro delle Brigate Rosse e, ricoverato in ospedale, riceve la visita di Cossiga, Andreotti e Zaccagnini. Un desiderio che le cose fossero andate diversamente? Davide Serino, che di Esterno notte è uno degli sceneggiatori, mi dice che quell’immagine nasce in realtà dall’ultima lettera di Moro, quella in cui ringrazia i brigatisti e si dimette da ogni suo ruolo politico nella Dc. «Quella lettera è di una potenza straripante, è naturale domandarsi cosa sarebbe successo se non lo avessero assassinato. Forse anche per le Br liberarlo sarebbe stato più dirompente che ucciderlo». Pomella la vede allo stesso modo: «Uccidendo Moro le Br hanno ucciso anche se stesse. Per il mio romanzo all’inizio avevo pensato anche io a un finale diverso, con Moro che muore in via Fani, durante la sparatoria: aprono la portiera, una scarica di mitra e via. Poi ho preferito concentrarmi su altro. Ecco, riscrivere la storia è affascinante, ma è anche molto pericoloso». 

A Serino domando se questo riscrivere la storia sia una tendenza. Oltre a Esterno notte, un altro esempio da citare è Il sol dell’avvenire di Nanni Moretti, con il Pci che rompe con l’Unione Sovietica dopo la rivolta di Budapest del 1956. «Forse non siamo felici di com’è fatto questo mondo e proviamo ad aggrapparci alla possibilità di un finale diverso», riflette Serino. «Il nostro cervello cerca sempre di semplificare i problemi che affronta, mettiamo nessi di causa e effetto a cose che magari non ce l’hanno». In un’altra serie scritta da Serino, The bad guy, c’è quella che appare una metafora di questo discorso: nella storia, infatti, c’è il ponte sullo stretto di Messina. Che però crolla. Un futuro alternativo che però si avvicina molto al presente effettivo in cui siamo immersi. «Siamo sempre dalle parti Tomasi di Lampedusa: tutto cambi perché tutto resti come prima», spiega ancora Serino. 

Ma quindi, le cose sarebbero potute andare diversamente? E davvero un singolo evento può cambiare il corso delle cose? È il dilemma di De Gregori: la Storia siamo noi, va bene, ma ciascuno di noi o tutti noi? 

Ovviamente chi si occupa di fiction è in qualche modo obbligato a credere che il singolo uomo (o il singolo fatto) possa essere un punto di svolta per la totalità dell’universo. 

«Anche se non è così, pensarlo è una dimostrazione di speranza», conclude Serino.

I brigatisti hanno sempre pensato di essere padroni del proprio destino. Questa convinzione li ha portati al più tragico equivoco leninista, là dove la ragione dell’organizzazione prevale sulla ragione politica. E tutto, va da sé, finisce in malora. Ancora oggi, nei meandri di Facebook, possiamo trovare ex Br che litigano con ex membri di altri gruppi armati sulle affinità e sulle divergenze delle rispettive esperienze. Per esempio, molti ex Br dicono che loro, a differenza di altri, non si sono mai pentiti né dissociati. Quanto accaduto il 21 marzo del 1988 durante una pausa di un’udienza del processo Moro-ter, quando Barbara Balzerani, Renato Curcio e Mario Moretti si fanno intervistare da Ennio Reimondino del Tg1 e dichiarano conclusa l’esperienza brigatista, non è da leggere in quel senso, ma come il risultato di un’analisi della fase: la lotta armata ha smesso di avere senso, andate in pace. Quel che manca al discorso, però, è una cencia di spiegazione del senso dell’analisi (oltre che della fase in sé e per sé): quindi nel 1986 la lotta armata aveva ancora senso? Mistero. Semplicemente avevano deciso così. I «nuovi» brigatisti, peraltro, manco erano d’accordo, così si dice che la loro storia sia diversa, anche se non si capisce di preciso in cosa differisca da quella dei «vecchi». 

Il fare riferimento solo e soltanto a se stesse è stato un grande limite delle Brigate Rosse: a larghi tratti sembrava quasi che fossero tutti concentrati sul dibattito interno all’organizzazione. Dibattito che peraltro avveniva per lo più a colpi di morti ammazzati in mezzo alla strada.

Per questo, forse, su Moro nessuno di loro ha mai preso seriamente in considerazione l’ipotesi di non ucciderlo: era una questione politica e, su certe cose, non si può né si deve mollare. 

Nel suo Un affare di stato (Cairo, 2008) Andrea Colombo dice che la logica intrinseca del caso Moro è ferrea e che, a guardare i fatti con le lenti della politica, la storia non poteva finire diversamente. Ha ragione, almeno se decidiamo di prendere sul serio quel che dicevano e scrivevano le Brigate Rosse da una parte e i notabili della Democrazia Cristiana dall’altra. Il punto è che, non a caso, oggi non esistono più né le Br né la Dc. 

«Pensare che oggi potrebbe esistere un’esperienza come quella delle Brigate Rosse è fantascienza», dice Serino. «Ho trentaquattro anni e guardo a quella storia con due sentimenti: l’orrore e l’invidia. Orrore perché parliamo di assassini e criminali, invidia perché comunque si tratta di gente che per un’ideale ha sacrificato tutto. Prendiamo Adriana Faranda: per la lotta armata ha abbandonato una figlia. Una cosa del genere non la fai se non ci credi sul serio».

Quindi oggi non crediamo più in nulla? Forse è meglio così. A leggere i rapporti annuali del ministero degli Interni, i reati in Italia calano di anno in anno e, nonostante certa propaganda tenda a far credere il contrario, viviamo in uno dei paesi più sicuri del mondo. Certo, si dirà, è scomparsa anche la conflittualità sociale e proprio in questi giorni assistiamo attoniti al susseguirsi delle manifestazioni francesi contro la riforma delle pensioni mentre qui da noi il massimo è dividersi sull’uso delle desinenze femminili secondo Ambra Angiolini, per il sesto anno consecutivo chiamata dal sindacato a condurre il famigerato concertone di piazza San Giovanni. 

Forse siamo un paese traumatizzato. Esattamente come gli Stati Uniti per Kennedy. 

«Da un punto di vista psicoanalitico Kennedy e Moro sono due archetipi», sostiene Pomella. «Sono i traumi di due nazioni. Non si sono mai ripresi gli Stati Uniti e non ci siamo mai ripresi noi». 

Non sono sicuro sia un male. E tutto sommato è sbagliato guardare al ventennio compreso tra la fine degli anni ’60 e la fine degli anni ’80 come un periodo fatto soltanto di piombo, sangue e violenza. Anzi, a pensarci bene è proprio in questo arco temporale che l’Italia è diventata un paese civile: dallo Statuto dei lavoratori alla legge sul divorzio, dall’aborto alla chiusura dei manicomi, dalla democratizzazione delle forze di polizia alla liberazione dei costumi. Non tutto è da buttare, ecco. Anni di piombo, alla fine, è solo il titolo di un film di Margarethe von Trotta uscito nel 1981. E lei non intendeva il piombo dei proiettili, ma il clima reso plumbeo dalla repressione poliziesca in Germania. 

Però una scintilla c’è stata, indubbiamente. «Quarantamila denunciati, quindicimila arrestati, quattromila condannati a migliaia di anni di galera, e poi morti e feriti, a centinaia, da entrambe le parti», è il conteggio dell’Orda d’oro di Primo Moroni e Nanni Balestrini. Numeri da guerra civile. E come in tutte le guerre, dopo aver preso atto del numero delle vittime, non resta che constatare chi siano i vincitori e chi i vinti. Anche se nessuno sembra volerne parlare davvero e ancora la verità si cerca nel chiuso delle aule di tribunale, invece che fuori, dove il pianeta Terra ha continuato a girare intorno al sole e la vita è andata avanti. Malgrado Moro, malgrado le Brigate Rosse, malgrado i comunisti e i democristiani. 

È tutto nella battuta di un vecchio film di Ettore Scola: «Credevamo di cambiare il mondo, invece il mondo ha cambiato noi». Era il 1974. O forse è domani. Chi può dirlo? 

One Comment

  • Emilia21 ha detto:

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