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Qualche mese fa ho scritto un post su Facebook per chiedere dei consigli di lettura, ma consigli molto specifici. Questa era la mia richiesta:

«Vorrei leggere qualcosa di amarissimo. Non in senso decadente. Qualcosa con un’energia rabbiosa, ma non quella rabbia urlata e pacchiana. Tendenzialmente una roba cerebrale.»

Ho ricevuto molte risposte, ne ho selezionate alcune, ho letto i libri, ed eccoci qui. Una classifica aleatoria di libri amarissimi, in ordine di amarezza. Ho cercato di essere obiettiva su questo punto, mettendo da parte il mio gradimento, non credo di esserci un granché riuscita. Non trattandosi di recensioni, non mi dilungherò sulle trame o sull’analisi stilistica, il focus sarà principalmente sulla tipologia e l’intensità della rabbia espressa. In calce aggiungo qualche consiglio mio, fuori classifica.

Buon amaro divertimento.

1) La casa della fame di Dambudzo Marechera (Racconti edizioni, traduzione di Eva Allione): non solo il libro più calzante rispetto alla descrizione che avevo fatto, è anche diventato per me uno dei libri della vita. Un racconto lungo in forma di sincopatissimo flusso di pensieri, che condensa in maniera esplosiva tranci di vita e pensieri dell’autore, e soprattutto il rapporto ferocemente conflittuale con l’Inghilterra e con il paese d’origine, la Rhodesia poi Zimbabwe. Una vita estrema, segnata da violenza, malattia, rabbia e marginalità ma anche da una profondità e acutezza di visione degne della più grande, immortale letteratura. Mi dispiace che sia stato definito il “Joyce africano”, non mi sembra un autore che debba rendere conto a nessuno della sua identità, o che abbia bisogno di un passaporto eurocentrico per ricevere l’attenzione che merita.

2) Casa d’altri di Silvio D’Arzo (letto nell’edizione Bompiani): confesso vergognosamente che non avevo ancora letto quello che è considerato il miglior racconto della letteratura italiana. E lo è. Amarissimo, ma come un’erba medicinale. Salubre, in un certo senso. Affilato, taglia senza sbavature. Non lascia il fianco scoperto a nessun possibile attacco di speranza. Pulisce tutto.

3) Rapporto sui ciechi di Ernesto Sábato (in Sopra eroi e tombe, Einaudi, traduzione di Jaime Riera Rehren): parte terza di quattro del romanzo citato, è talvolta stata considerata un’opera a sé stante e come tale anche pubblicata. Ma molta critica è fortemente contraria a questo scorporamento. Io per adesso ho letto solo questa parte terza, sentendomi lievemente in colpa, ma mi riprometto di leggere l’intero romanzo. Rapporto sui ciechi, dunque, è la storia di un’ossessione. Il protagonista è convinto che i ciechi, assimilati a creature non propriamente umane, formino una società segreta che muove i fili del mondo. Si è imposto di sventare il loro complotto, ma man mano che si avvicina alla presunta verità si rende conto che si sta trasformando da cacciatore a preda. Rabbiosa paranoia complottista e odio per un nemico che si immagina mosso da pura perversione, nonché in possesso di enormi risorse, permeano tutto il resoconto creando un maelstrom di follia oscura. Un capolavoro asfissiante.

4) Trash di Dorothy Allison (minimum fax, traduzione di Margherita Giacobino): una raccolta di racconti spietati sulla provincia americana, pieni di violenza spaventosamente realistica (c’è molta componente autobiografica) e molta molta rabbia. Mi avevano avvertito che è poco cerebrale, ma non mi ha fatto l’effetto “ora ti strappo meticolosamente le budella con le mie storie tragiche”. Allison resta asciutta pur nel descrivere esperienze terribili. Strazia ma onestamente, senza traccia alcuna di autocompiacimento, e invece con quell’invidiabile aura di dignità di chi ha retto al dolore, e lo tiene in sé e lo governa.

5) Michael Kohlhaas di Heinrich von Kleist (letto nell’edizione Mondadori, a cura di Marina Bistolfi): Kohlhaas è un po’ il prototipo di uomo che si fa giustizia da solo, ma essendo qui l’ingiustizia perpetrata solo in prima istanza da un avversario individuale, per poi diventare sopraffazione sistematica da parte dal potere costituito, non possiamo che empatizzare con la rabbia e la frustrazione del nostro eroe. In bilico tra cieco furore e inflessibile rettitudine, Kohlhaas mette in gioco tutto e tutto perde (la posizione, la famiglia, la sua stessa vita), ma infine la spunta e non solo ottiene giustizia, riesce anche a togliersi una soddisfazione (no spoiler), chiosandola con una delle battute più efficaci di sempre: «tu puoi mandarmi sulla forca, ma io posso farti male, e lo voglio!»

6) Memorie del sottosuolo di Fëdor Dostoevskij (letto nell’edizione Einaudi, traduzione di Alfredo Polledro): ecco un classicone che mi mancava. E classico è anche il moto di rabbia verso sé stessi che lo percorre, e la frustrazione che degenera in meschinità. Capisco, condivido, empatizzo. (Purtroppo).

7) Chiamatemi Cassandra di Marcial Gala (Sellerio, traduzione di Giulia Zavagna): ambientato nella Cuba degli anni ’70, il libro segue le vicende del giovane Rauli, che vive una forte estraneità rispetto alla cultura machista in cui è immerso, subendone le conseguenze. Per tutta la sua breve vita è accompagnato da un qualche alter ego femminile: la madre da bambino gli fa indossare gli abiti della defunta sorella Nancy, i commilitoni lo soprannominano Marilyn Monroe, il suo capitano abusa di lui sostenendo che gli ricorda la moglie lontana. Ma soprattutto, lui è convinto di essere la reincarnazione di Cassandra, la divinatrice della mitologia greca destinata a non essere mai creduta. E in effetti Rauli ha delle premonizioni di morte, sia degli altri che la sua, e come Cassandra vive un eterno isolamento, è rifiutato da tutto il mondo che lo circonda, ritenuto non assimilabile e quindi infine violentemente espulso. Una rabbia vibrante attraversa la storia, ma è come trattenuta dell’apparente rassegnazione del protagonista.

8) Caro vecchio neon di David Foster Wallace (un racconto contenuto nella raccolta Oblio, Einaudi, traduzione di Giovanna Granato): di nuovo un racconto di rabbia verso sé stessi, o meglio un raccontarsi con sguardo spietato. C’è un’analisi interessante della figura dell’impostore. Nel discorso comune attuale, si parla spesso della cosiddetta “sindrome dell’impostore”, intesa come una sensazione costante di inadeguatezza. Invece qui il protagonista vede sé stesso come un impostore nel senso letterale, è perennemente cosciente di recitare un ruolo nei vari ambiti sociali che attraversa, compresa la famiglia, e tutti questi ruoli (o pose o immagini di sé) li giudica falsi, non corrispondenti in nessun caso alla sua identità. La quale sembra ridursi a molto poco, forse solo a questo senso di vuoto e di non essere.

9) Signorina Cuorinfranti di Nathanael West (minumun fax, traduzione di Riccardo Duranti): un giornalista tiene una rubrica di posta del cuore sotto lo pseudonimo di “Signorina Cuorinfranti”. Mentre si fa sempre più spezzare dalle storie desolanti che le lettrici e qualche lettore gli scrivono, cercando in lei/lui risposte e soluzioni che non può dare, è circondato dal cinismo dei colleghi e destinato ad annegare nell’amarezza e nella frustrazione. Ambientato al tempo della Grande Depressione americana, e in effetti…

10) Cervelli di Gottfried Benn (Adelphi, traduzione di Maria Fancelli): certamente cerebrale. Siamo dentro la mente del protagonista, un po’ in balia di riflessioni immagini associazioni, per cui mentre lui perde il contatto con la realtà, noi rischiamo di perdere il contatto con lui. Credo vada letto più come poesia, ha dei passaggi molto belli in questo senso. Per esempio questo: «Se mi avessero colpito sempre sullo stesso punto della testa…? Cosa sono mai i cervelli? Da sempre avrei voluto volar via, come un uccello dalla forra; ora vivo fuori nel cristallo. Ma ora, vi prego, lasciatemi andare, torno a librarmi – ero così stanco – su ali è questo andare – con la mia azzurra spada di anemoni – nel crollo meridiano della luce – nelle macerie del Sud – nel disfarsi delle nubi – fronte polverizzata – tempia dissolta».

11) La perfezione del tiro di Mathias Enard (edizioni e/o, traduzione di Yasmina Mélaouah): tutta la storia è raccontata dal punto di vista, distorto, di un cecchino, così orgoglioso della sua abilità nel tiro da esserne come ossessionato e farne il fulcro della sua identità e della sua vita. Si tratta di una figura estremamente ambigua. Vediamo da vicino la sua psicologia, la sua mente fredda e calcolatrice, ma con tratti paranoici. La scrittura anch’essa freddissima e molto molto cerebrale non favorisce, a mio parere, l’empatia col personaggio. Il che lo rende comunque un esperimento affascinante.

12) La stirpe e il sangue di Lorenza Ghinelli (Bompiani): riprende alla lontana e rielabora il mito di Dracula, costruendo una storia di violenza e sopravvivenza incentrata su personaggi femminili forti e giustamente spietati. Molto sangue, parecchia soddisfazione. «I patriarchi marciscono sotto metri di terra, stretti nelle spire degli alberi che le donne hanno piantato in giardino».

Qui una ristrettissima rosa (un quadrifoglio) dei miei libri amarissimi del cuore:

Lo squalificato di Osamu Dazai (Mondadori, traduzione di Antonietta Pastore): il libro sul suicidio e il disprezzo per sé stessi.

Viaggio sentimentale di Viktor Šklovskij (Adelphi, traduzione di Mario Caramitti): il libro sulla guerra, il crollo degli ideali, sulla sfiducia e l’amore – insieme – per l’umanità.

L’incubo di Hill House di Shirley Jackson (Adelphi, traduzione Monica Pareschi): il libro sul distacco dalla realtà, perché l’adattamento è impossibile e di conseguenza l’infelicità inevitabile. – W o il ricordo d’infanzia di Georges Perec (Einaudi, traduzione di Maurizia Balmelli): il libro dell’assenza e dell’infanzia, della frammentazione e dell’irreparabile.

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