Francesca Matteoni, dopo i racconti contenuti in Io sarò il rovo (pubblicato nel 2021 da effequ) e la raccolta poetica Ciò che il mondo separa (sempre 2021 con Marcos y Marcos), torna con un romanzo, che va a inaugurare un filone narrativo all’interno della collana di saggistica Terra di Edizioni Nottetempo, contenente opere dedicate all’ecologia, alla sopravvivenza dell’umano e del non umano e ai sentieri che tutte le creature possono percorrere insieme.
I Tundra e Peive del titolo sono, per cominciare, un folletto e il gatto mutaforma che lo accompagna. Potremmo identificarli come protagonisti se non fosse che in realtà quello di Matteoni è un romanzo corale, dove i sogni e i ricordi si intrecciano, per creare nuove piste da seguire e imparare così come dovremmo (o almeno potremmo) abitare il mondo.
Tundra e Peive, questo il titolo del romanzo di Matteoni, si affianca a testi come quello di Kohn sulle foreste o l’imponente saggio sulla figura dello sciamano Davi Kopenawa. Si mette in mezzo a questi saggi con un figure che sembrano uscite da fiabe, mitologie e sogni.
Il romanzo ci racconta di Talia, una ragazza che vive in un mondo di cui non conosciamo coordinate spaziali e temporali. Un mondo in cui può di certo vivere e sopravvivere, ma che non riesce ad abitare con cura. Gli alberi stanno morendo, gli animali soffrono, i luoghi sono pervasi da una creatura infestante chiamata Malvaspina. Un giorno, dopo aver dato una degna sepoltura a un gatto randagio, Talia incontra Tundra e Peive, che la conducono in un luogo parallelo a quello umano, chiamato Radura. Le confidano che devono porre un rimedio alla catastrofe ecologica causata dall’uomo, prima che sia troppo tardi. Si uniscono così, alla ricerca della soluzione, uno spirito arboreo alquanto burbero di nome Ramosecco, L’Uomo del Nord e il suo cane Berenice, un corvo e Bess l’Antica, un’umana in grado di comunicare con gli spiriti dei boschi e tutte le creature, in apparenza una semplice sarta di mezz’età.
Un gruppo ben assortito che dovrà scontrarsi con stregoni, prigionieri vittime di incantesimi e forze ancestrali, tutto per riportare un equilibrio almeno apparente, o creare almeno un modo di vivere e vedere il mondo che vada a nuocere a meno creature possibili.
Peive e Tundra guidavano la piccola processione verso la misteriosa Radura. Le vie apparivano vuote. Forse era solo fortuna, pensò la ragazza. Mentre camminavano l’esserino suonava su un flauto rudimentale lo stesso motivo che fischiava dondolandosi dal ramo.
«Che cos’è?» chiese Talia.
«Che ignoranza! Sono i Ramones! I Don’t Wanna Grow Up.
È punk, hai presente? Creste alte mezzo metro e ribellione,» rispose il folletto stizzito.
«Non credevo che i folletti ascoltassero musica punk.»
«E cosa dovremmo ascoltare, Madama Dorè? Dopotutto il punk è roba da emarginati, e noi rientriamo a pieno titolo nella categoria. Comunque ascolto tutto quel che passa il convento.»
La voce divertita e furfantesca di Tundra è solo una delle tante che ci conduce in mezzo ai segreti di un mondo che conosciamo solo in apparenza. Come già successo nelle altre opere di Matteoni, lo scenario del reale viene sbucciato con cura, fino a rivelarne prima i muscoli e poi le ossa. Ciò che conta è quello che è nascosto, che non capiamo perché non tentiamo nemmeno. Eppure la magia c’è, e si trova alla portata di tutti. Per questo ciò che non è magico o fatato non viene riportato tra le pagine del romanzo, perché il mondo reale, o che almeno noi mortali definiremmo tale, non ha molto senso. Anzi lo ha, perché è in primo luogo il mondo degli uomini che ha creato morte e dolore. Tocca quindi distogliere lo sguardo e tornare ai riti, ai sogni e ai ricordi primitivi per trovare una soluzione a tutta questa violenza.
Il romanzo alterna quindi atmosfere che quasi ricordano le classiche fiabe, o pellicole come Labyrinth, storie che portano a ripensarci come bambini. E proprio come le fiabe Matteoni non si tira mai indietro di fronte alla morte, alla crudeltà e al male che al mondo viene inflitto. La magia che immagina l’autrice infatti non è soltanto un semplice potere, qualcosa da utilizzare per ottenere o cancellare qualcosa. Si tratta di uno strumento utile per ricordare, riconoscersi, per trovare un senso di appartenenza.
«Aspetta!» gridò. «Ti conosco?»
L’ombra non rispose ed era tardi per seguirla. Talia guardò l’erba: si stava squagliando in una poltiglia fredda. Si chiese se quello fosse l’inizio del suo vero mondo dimenticato, sigillato dentro il crollo di quello più vasto di tutti.
Uno strumento che non può più trovarsi, come forse era un tempo, nelle mani dei mortali, che sembrano desiderare solo conquiste o evitare sconfitte.
Gli spiriti dei boschi invece e gli animali possono ancora usufruirne, e non solo perché ovviamente non condividono l’egocentrismo tutto umano di pensarsi al centro del mondo, ma perché lontani da un concetto di natura come un costrutto fasullo, artificioso. La natura che vedono ancora fate e animali è una natura che sicuramente non è solo uno scenario di contorno, ma un luogo che può distribuire sia ricchezze che morte, un luogo in cui si possono costruire tane ma in cui si può anche incappare in trappole letali.
Uno dei romanzi che possiamo affiancare a quello di Matteoni non è in realtà una fiaba: anche se è stato creato e pensato come se ne fosse una, finisce per avere una forte impronta ecologista. La collina dei conigli, romanzo del 1972 di Richard Adams, è stato ideato dal suo autore durante un viaggio in auto per intrattenere le figlie con una storia. Adams racconta quindi della colonia di Sandleford, dalla quale alcuni conigli partono alla ricerca di un luogo migliore in cui vivere, spinti dalla visione del loro profeta Quintilio. Il gruppo ben nutrito affronterà diverse avventure, tra incursioni e battaglie, fino a che non riusciranno a trovare un luogo stabile, lontano almeno per ora alla furia umana, che come aveva previsto Quintilio aveva infine distrutto la vecchia colonia in cui vivevano.
I conigli di Adams parlano il lapino e hanno la propria religione. È interessante notare come in questa loro mitologia, quando i conigli vengono creati viene profetizzato che tutto il mondo sarà loro nemico e che non avranno certo vita facile in mezzo alle altre creature. I conigli dovranno correre veloce, cosa che sapranno fare bene ma soprattutto: Sii dunque astuto e inventa stratagemmi, e il tuo popolo mai verrà distrutto.
I conigli devono inventarsi soluzioni disparate per sopravvivere, devono conoscere la natura e non viverla come uno scenario, un fondale in cui muoversi. Le stesse visioni di Quintilio si avverano perché lui prima di tutti gli altri immagina i pericoli che possono stare in agguato in questo scenario complesso, che non è solo una collina da raggiungere, ma lacci fatali posti dagli umani, altri animali sul percorso, cibo che manca e compagne per mantenere viva la specie.
Così in Tundra e Peive le visioni che hanno i personaggi non sono semplici forze naturali che reclamano il loro posto nel mondo distrutto dagli umani, ma la consapevolezza che in quella che chiamiamo natura c’è posto per tutti, che della speranza di può ricostruire. Ecologia, sembra suggerire il romanzo di Adams così come quello di Matteoni, non significa che l’uomo è solo capace di distruggere e che per questo va odiato, ma che le forze in campo sono molteplici e se ognuno fosse capace di scendere dal piedistallo che si è creato sarebbe forse capace di trovare un modo per convivere insieme a tutte le altre creature. Quella che è, in fondo, una basilare lezione antispecista. Tundra l’ha imparata sulla propria pelle di bambino prima e folletto poi:
Che i cuccioli sono stati uccisi, le loro carcasse ovunque, come l’impronta del bastone. L’inverno mi apre come un coltello e io non posso muovermi da qui. Il bene esiste, mamma, lo sai? Parli come un bambino, mi dicevi, hai solo sette anni, mi dicevi – e il resto, quello che non potevo capire, l’ho capito allora nel bianco che dà la sepoltura.
Questo vuol dire appunto non tacere sul male e sul dolore. Questi imperversano certo sul mondo umano ma abitano anche quello fatato, quello che sta dietro. Perché la morte, come insegnano i miti e le fiabe, non è certo distruzione, ma trasformazione. La Malvaspina che percorre le strade è crudele e ingiusta, eppure c’è. Può essere eliminata ma fa ormai parte di noi, di quello che conosciamo e sappiamo può accadere. Anche accettare la violenza significa accettare di ripensare la natura senza una fasulla maiuscola iniziale, che la rende posticcia e inutile.
Un’altra opera che non si tira indietro nel raccontare ciò che significa davvero sopravvivere in questo mondo, e nei mondi che forse stanno nel mezzo, e che si può affiancare al romanzo di Matteoni, è il saggio dell’antropologa francese Nastassja Martin. Il libro Credere allo spirito selvaggio è stato scritto da Martin in seguito all’incontro con un orso durante un’esplorazione della regione Russa della Kamchatka. L’orso l’ha quasi uccisa, ferendola a una gamba e mutilandole il viso, dopo averne strappato parte della mandibola.
Prima viene curata nell’ospedale russo e poi in quello francese, e mentre gli altri si affannano nel ricostruirla fisicamente, in realtà Martin si rende conto che interiormente e soprattutto spiritualmente quell’orso è sempre con lei: del resto è una medka adesso, vive tra i due mondi. Come le fa notare una donna della tribù Eveni, dove appunto Martin conduceva i suoi studi:
Per alcuni, le cose vanno ben oltre. Si dice che le medka continuino a essere “perseguitate” dall’orso a vita. Perseguitate nel sogno o per davvero? chiedo. Entrambe le cose, dice Dar’ja abbassando gli occhi. È un po’ come se queste persone fossero stregate, capisci? Capisco. Una lacrima mi scorre sul viso. Dar’ja tira un lembo del lenzuolo, la asciuga. Quindi anche tu credi che io sia stregata? Se sono davvero medka e se essere medka significa tutto questo perché non mi eviti anche tu? Io non credo niente, risponde Dar’ja. Sono soltanto storie. Noi qui viviamo con tutte le anime, quelle che errano, quelle che viaggiano, i vivi e i morti, i medka e gli altri. Tutti.
Si tratta di accettare il dolore, fisico ovviamente e mentale, e soprattutto riconoscere quanto si è lontani dal trovare un linguaggio comune, un dialogo onesto con l’altro. Per impostare una rotta, o semplicemente ritrovare la strada, spesso tocca scavare così a fondo fino a farsi male. Questo accade a molti dei personaggi del romanzo di Matteoni e soprattutto a Tundra e Peive, che devono ripercorrere la propria storia, ritrovando chi erano un tempo dato che, per quanto siano creature magiche, sono pur sempre fatte di carne.
Vivere con tutte le anime non è semplice, così come non si tratta solo di evocare lo spirito giusto o inscenare il giusto rito per cancellare la Malvaspina e l’operato mortifero umano. Serve tempo e spazio e, prima di tutto, ripensare il concetto di confini. Le frontiere nel romanzo di Matteoni riguardano non la divisione di luoghi da esplorare, ma i modi di ripensare a quale mondo apparteniamo e a quanti altri ci possiamo avvicinare. Si tratta di rivedere il nostro operato e rimetterlo in discussione, pensando agli stratagemmi dei conigli, ai segreti degli orsi e alle storie che gli alberi si portano dietro da millenni.
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