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Ognuno è condannato alla sua memoria. A ciò che ricorda, e a ciò che dimentica”.
– Esther Kinsky, Rombo

Dopo l’ultima tragica calamità naturale, l’alluvione in Emilia Romagna, nei media nostrani si è tornato a parlare del fragile equilibrio che lega l’uomo alla natura. Un tema ampiamente dibattuto anche in letteratura, e che negli ultimi anni ha visto crescere a dismisura i cosiddetti libri di nature writing contemporaneo. In questa prospettiva convivono generalmente due campi: la natura, per l’appunto, e la cultura. Nel suo ultimo romanzo Rombo (Iperborea, traduzione di Silvia Albesano), la scrittrice, poetessa e traduttrice tedesca Esther Kinsky ripercorre un altro evento catastrofico, quello del terremoto in Friuli del 1976, un fenomeno che cambiò drasticamente il paesaggio e la vita dei suoi abitanti, ma si discosta dal genere di cui sopra, o come ci rivela lei, la sua scrittura ha uno scopo più nobile, che scava più in profondità: l’intento della Kinsky è quello di ricostruire il trauma collettivo del terremoto, la memoria di chi ha vissuto quel tragico episodio e l’identità collettiva dei sopravvissuti, attraverso il linguaggio, le leggende e le tradizioni degli stessi. La sua è un’analisi del disastro generato dalla natura, i cumuli di macerie che si lasciano alle spalle i superstiti, il lento rifiorire dell’impresa umana e i mutamenti del paesaggio. Il titolo deriva infatti da quel rumore sordo, il rombo appunto, che rimase impresso in gran parte della popolazione. Rombo è costituito dai resoconti orali dei sette personaggi e dalle varie sfumature che ciascun personaggio dà di quel medesimo episodio, cosicché il tempo risulti a volte sequenziale, alle volte fuori sincrono, a seconda degli spasmi erratici della mente e della memoria. “La montagna ha memoria?” si legge nella prima parte del libro, e questa domanda, malinconica e al tempo stesso dirompente, riecheggia più volte andando avanti nella lettura.

Quando e come è nata l’idea di scrivere Rombo? Come sei riuscita a ricostruire la storia di un evento non più recente come il terremoto del 1976 in Friuli?

Sono arrivata in Friuli nel 2018, e sono rimasta subito colpita dal modo in cui le persone hanno parlato di questo evento. C’era una presenza costante del terremoto come momento decisivo, è saltato fuori in tante conversazioni e, quando ho chiesto loro di parlarmene, ho subito notato che le persone erano davvero ansiose di raccontare i loro ricordi. Anche i segni sono ancora così visibili, la mia casa ha solo crepe nell’intonaco, ma altre case furono abbandonate, e nelle valli montane e lungo la Statale a livello di Venzone e Gemona ci sono ancora ruderi, ricoperti di edera. Mi interessava questo mix di testimonianze e racconto, la presenza di quel trauma, di un trauma che in un certo senso non è colpa di nessuno ma che non potrà mai essere sradicato.

L’Italia compare più volte nelle tue opere precedenti. In particolare, in un passaggio di Sul Fiume, leggiamo “il paesaggio del Nordest italiano non mi usciva dalla mente”. Cosa ti ha colpito maggiormente di questo paesaggio?

Nel Nordest italiano vedo una tremenda malinconia. Le zone sconosciute a ridosso della costa, le tracce di povertà, le storie di migrazione. È molto diverso dal resto d’Italia. C’è molta tragedia che è stranamente filtrata in un orgoglio molto artificioso riguardo le gesta eroiche, ci sono monumenti ai soldati caduti, memoriali su ex campi di battaglia che dovrebbero davvero essere visti come promemoria dell’insensatezza della guerra e non come ricordi di eroismo. C’è una sorta di malinconia in pianura e c’è questo attrito onnipresente che si trova in ogni periferia, dove popolazioni diverse si mescolano, dove si sono combattute guerre, dove un’identità collettiva viene perennemente messa in discussione.

 Nei tuoi libri troviamo spesso luoghi più o meno selvaggi, di confine o comunque con un’ampia presenza della natura e al contrario, una presenza umana limitata. E’ una semplice coincidenza o c’è un significato più profondo in questo?

Mi interessa quello che in inglese si chiama “disturbed lands” (“terre compromesse”). Non sono interessata alla natura in sé, e non mi riferirei mai in modo non ironico al termine “selvaggio“. Selvaggio dovrebbe significare senza interferenze umane, ma a me interessa esattamente il contrario: mi interessano le tracce umane – tanto più che tutte le tracce dell’attività umana sono anche tracce della sofferenza umana – ma anche il modo in cui una forza (gli uccelli, le piante, le rocce, l’acqua) che noi, in mancanza di un’altra parola, chiamiamo “natura”, si ristabilisce, una volta venuto meno l’interesse umano, che in termini politico/economici significa quando è stata sfruttata fino all’osso. È allora che alcune piante ritornano e iniziano a costruire un nuovo ambiente, un habitat per insetti, uccelli e altri organismi. È una specie di effetto ciclico, come una fenice che risorge dalle proprie ceneri, ancora e ancora, dopo la distruzione provocata dagli umani.

In Macchia il tuo romanzo veniva definito come Geländeroman. In Italia è stato tradotto come il “romanzo dei luoghi”. Cosa significa precisamente?

Ho coniato questo genere perché sia gli editor che gli editori (chiamiamoli il lato più dolce del “mercato”) vogliono sempre spingere uno scrittore nell’angolo della “fiction”, della narrativa. Di solito la forma romanzo vende meglio rispetto a qualcosa che mescola diversi generi, anche se questo sta cambiando. Ma poi, nei vari panel, nelle interviste, mi sono sempre confrontata con la domanda che i miei libri non sono realmente romanzi. Che è vero. Così ho pensato al genere di Geländeroman che in realtà dovrebbe minare le aspettative che si hanno da un romanzo “vero”. Gelände è una parola difficile ma anche bella in tedesco, e la mia scelta di questa parola si basa principalmente sull’uso che ne fa Paul Celan nel suo lungo poema “Engführung“.

Analogamente alla domanda precedente, negli ultimi anni si è parlato molto del genere del nature writing moderno, inteso come «paesaggio trasformato da un particolare stato mentale», aspetto che per certi versi ho ritrovato nella tua scrittura leggendo Macchia. E’ un genere in cui ti riconosci? C’è il rischio in questo genere di trasformare la natura in merce, qualcosa di vendibile e consumabile, o pensi che la natura rimanga un’alterità a sé stante?

Non ho niente a che fare con la nature writing. Sono una poetessa che dedica il suo tempo a un modo particolare di guardare il mondo e filtra questa visione attraverso il linguaggio. Il termine stesso è già macchiato dalla sua applicazione a scopi di marketing, puzza di mercificazione. Il termine nasce per definire dove può ancora spingersi la letteratura dopo quello che già nei primi anni ’70 era considerato il tramonto del romanzo, dell’intera fiction narrativa. Qualcuno, di cui ora non ricordo il nome, ha dichiarato in un evento pubblico che il futuro era solo in 3 tipi di scrittura: la scrittura della vita (autobiografica), la scrittura della scienza (science fiction) e la scrittura della natura (nature writing). Fu allora che nacque il termine, ma questo accadeva negli Stati Uniti nei primi anni ’70, quando persone come Gary Snyder scrivevano con un retroterra mentale dei diari di Thoreau. Negli Stati Uniti, dove ogni apprezzamento della natura è inevitabilmente legato al crudele processo di frode e distruzione delle popolazioni native, ha un significato politico completamente diverso da questi termini in Europa, dove il concetto di natura è fortemente associato al romanticismo.

In Rombo la prima cosa che si nota è la scelta di utilizzare più narratori, anziché usare una sola voce. Dal mio punto di vista come lettore, credo che questa scelta renda la storia più ricca e autentica, così come si viene a creare anche un fantastico incrocio tra reportage, mito, biografia e diario etnografico. Sei d’accordo con questa affermazione? Puoi parlare più dettagliatamente di questa tua scelta?

Forse è stata più una necessità che una scelta. Ho saputo del terremoto e delle sue conseguenze attraverso molte voci. Non volevo romanzare la vita di persone reali, riconoscibili, ma volevo anche mantenere questo tema della frammentazione come dominante nel testo. Lavoro da tempo con elementi “corali”, voci collettive che si scindono in voci individuali per poi ricongiungersi. L’intera parte centrale del mio libro di poesie “Schiefern” è costruita in questo modo.

Nella descrizione dei paesaggi in Rombo c’è una forte meticolosità scientifica. E’ il frutto di una tua passione per questi argomenti o c’è stata anche una tua documentazione in campi come la botanica, la geologia?

Il mio interesse per le scienze è principalmente linguistico. Il tedesco, a differenza della maggior parte delle altre lingue in Europa, ha una lingua scientifica che non era interamente basata sulla terminologia latina/latinizzata. La letteratura scientifica del XIX secolo (1800) era abbondante e spesso molto bella. Scrittori come Peter Simon Pallas, uno dei miei scrittori preferiti sulla natura, alla fine del 1700 era così letto che i suoi libri furono pubblicati in varie edizioni per diversi livelli di istruzione. I principali testi su piante, uccelli e rocce sono una fonte di parole meravigliose che rimangono almeno superficialmente accessibili a ogni lettore, indipendentemente dal suo livello di istruzione. Anche se evocano associazioni che non hanno nulla a che fare con l’intenzione dello scienziato, sono comunque materiale che può produrre immagini potenti nella testa del lettore. Quindi, mentre amo il canto degli uccelli e i fiori, e sono infinitamente affascinata da alcuni tipi di rocce, il mio interesse principale risiede nel potenziale poetico del linguaggio scientifico al di fuori della sua applicazione funzionale. Questo è, per inciso, un vero grattacapo per molti traduttori, non per mancanza di abilità ma per mancanza di un vocabolario equivalente.

Un altro aspetto importante del libro è il fatto che la narrazione degli eventi non sia lineare, ma sembra essere più l’accumulo di diversi episodi, frammenti e vicende collegati fra loro. Questo processo di stratificazione a cosa è dovuto?

Questo è un libro sulla frammentazione. Di macerie, di frammenti che restano/riaffiorano. L’ultimo capitolo (Memoriale) è davvero una chiave per la maggior parte delle risposte che darò qui in questa intervista. I frammenti ci ricorderanno sempre l’idea perfida del lineare. Anche la memoria non funziona in modo lineare. I restanti frammenti dell’affresco descritto in Memoriale, queste parti un tempo considerate del tutto insignificanti, sono la testimonianza più potente della frammentazione attraverso un evento traumatico che io potessi mai immaginare. La struttura narrativa è davvero ispirata da queste preoccupazioni e osservazioni.

Nei tuoi libri la capacità di scrittura mi sembra essere posta in primo piano rispetto a tutto il resto. Sia il linguaggio, che la scelta dei vocaboli, così la musicalità della prosa assume un significato importante. Il fatto che tu sia anche traduttrice e poetessa ti ha aiutato in questo?

Sì, la lingua è il materiale con cui lavoro e quindi ogni sua parte è molto importante. Credo che il fatto di essere una poeta sia come una vena che attraversi la mia scrittura in ogni momento, non importa se scrivo un saggio, una storia, un libro per bambini o una poesia. Lavorando come traduttrice posso avere una maggiore consapevolezza della materialità del linguaggio e del modo in cui si può sperimentarlo. Sono sempre stata più interessata a COME è scritto il testo che a COSA tratta.

Un altro tema che mi sembra centrale è quello della memoria di un luogo e del ricordo dei suoi abitanti. Tempo fa sei stata anche premiata del Sebald Prize, e mi sembra ci siano caratteristiche stilistiche, artistiche e tematiche in comune tra la tua scrittura e quella di W.G. Sebald. Penso ad esempio non solo al tema del ricordo, ma mi viene in mente anche il narratore melanconico errante de Gli anelli di Saturno, l’ibrido tra i generi della scrittura, il valore estetico delle rovine, l’importanza della fotografia. Dal tuo punto di vista, ci sono tratti in comune con la sua scrittura?

Questi paragoni non ci portano da nessuna parte, mi sembrano  accostamenti un po’ pigri. Ci sono stati molti autori che si sono occupati di questioni di memoria, ricordo, tempo, trauma, e che sono passati inosservati, Sebald sembrava così originale solo perché le persone erano lettori pigri e non sapevano nemmeno quanto prendesse da altri scrittori che sono venuti prima di lui. Ci sono molte molte più cose che mi separano da Sebald rispetto a quelle che potrebbero essere lette come somiglianze. Forse il culto di Sebald che, secondo me, aveva pochissimo amore per il mondo, ostacola la lettura dei miei libri da parte delle persone. Sono stato paragonata a lui troppe volte per mio conforto, è un paragone pigro che sfiora solo la superficie. Per prima cosa, vorrei dire – e questo è qualcosa di cui sono sempre stata molto orgogliosa: chiunque può leggere i miei libri, nessuno ha bisogno di essere istruito. Tutto ciò di cui il lettore ha bisogno è la pazienza. La stessa cosa NON vale per Sebald. La memoria è ciò che guida tutta la scrittura. Dante invoca la memoria come musa che lo guidi. Memoria è stata infatti la musa associata alla scrittura nell’antichità. Questo non è solo territorio di Sebald. Tra gli scrittori tedeschi della sua generazione, Peter Kurzeck è stato molto più rilevante e importante per me.

Ci sono testi di fiction o di non-fiction, classici o moderni, che ti hanno ispirato per scrivere questo libro, o che comunque hanno influenzato il tuo stile?

Ma non mi ispiro ad altri testi, mi ispiro a quello che vedo e sento. Dalle persone, dalle voci, dai canti di uccelli, dai vari segni. Ci sono libri che amo, ma ad esempio amo più Flaubert che MacFarlane. John Burnside come poeta è stato importante, così come Charles Olson. Nonostante tutto il mio amore per Flaubert, sarebbe difficile trovare somiglianze tra me e Flaubert, anche se la fisicità della sua scrittura (basti pensare alle zolle ghiacciate di terra sotto le suole sottili di Emma Bovary quando corre nella notte per vedere il suo amante) mi ha sempre colpito e forse anche guidato..

All’inizio della lettura di Rombo, personalmente pensavo che fosse un testo esclusivamente letterario, ovvero che non fosse impegnato, in un certo senso apolitico. Ci sono però diversi episodi nel testo, come l’arrivo dei soccorsi, il giornalista che fotografa le vittime e chiede loro di sorridere, gli abitanti costretti ad emigrare nei palazzoni in città, sulla costa…Elementi che tra l’altro continuano ad accadere in Italia in tragedie simili recenti, gli stessi terremoti avvenuti in Italia in seguito. E’ un aspetto critico che volevi evidenziare? Possiamo considerare Rombo un testo anche politico oppure no?

Per favore, TUTTI i miei libri sono decisamente politici. Non posso credere che la gente non lo veda. Macchie lo è, e anche Sul Fiume. La critica delle condizioni ecologiche, economiche e politiche dovrebbe essere sempre implicita, non esplicita, quindi non ho mai voluto esprimere critiche a certi sviluppi politici in Italia. Le sette voci parlano di forme di sofferenza in vari modi e con vari background, e la sofferenza è molto spesso il risultato di una politica discutibile, crudele, scioccante. C’è una bellissima citazione di Pasolini dal suo saggio sulle lucciole che è stato per me una luce guida per molto tempo, dice: “Per capire la gente bisogna amarla”. E non c’è niente di più politico che amare “la gente” – quelli che di solito non hanno una voce, e da questo senso di amore scrivere per chi non ha voce.


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