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C’è qualcosa di terribile nel lucore dell’estate, un’infelicità che cova sotto la natura rigogliosa e il sole accecante, che guizza nel greto di un fiume in cui ci si tuffa per trovare ristoro, che sgocciola nel tempo lento delle vacanze.

È l’estate la stagione più crudele, per questo somiglia alla giovinezza. Lo sa bene Corsi, il dodicenne protagonista di Cuori in piena (Mondadori), l’ultimo libro di Alessio Torino, che come ogni anno da Roma va a passare l’estate nelle Marche, a Pieve Lanterna, il paese di suo padre Sebastiano e in cui ancora vive sua nonna Vera.

Siamo sul finire degli anni ’80, e all’orizzonte per Corsi si prospetta un’estate simile a tutte le altre: girare in bici, fare colazione con la schiacciata presa calda dal forno, tuffarsi al fiume in gare di eroico coraggio adolescenziale.

Questa volta però è diverso, perché l’anno prima, alle Caldare, nel punto più bello e turistico del fiume Burano, un ragazzo della sua stessa età, Andrea Gori, ha perso la vita dopo essersi tuffato, tenuto sotto dal getto imponente della cascata. Le Caldare sono un luogo che Corsi e i suoi amici, Giorgio Angradi e Achille Spada, conoscono a memoria, il loro posto estivo preferito: ne sanno i pericoli e gli anfratti, i punti migliori da cui tuffarsi e anche i periodi da evitare perché troppo affollati.

Quest’anno però Corsi non potrà tuffarsi alle Caldare, suo padre gliel’ha fatto giurare prima di ritornare a Roma e lasciarlo a Pieve Lanterna con la nonna. Seba si fida di quel giuramento da dodicenne anche se riluttante perché Corsi è sempre stato un ragazzino giudizioso e precoce, che a sei anni usava già i forse

Su questa estate poi, grava anche un’apprensione adulta che Corsi può solo intuire: la paura di suo padre Seba di perderlo, di impazzire come Arcangelo Gori, detto Arcàcciolo, il padre di Andrea a cui Seba è legato da un’amicizia giovanile.

Ma quest’anno è diverso anche perché in paese ci sono due ragazze belghe, Federica e Céline, dette le BeNeLux. Ricciuta e bruna una, bionda e altera l’altra, pur non parlando italiano conquistano le attenzioni e i cuori tumultuanti del gruppetto di amici. L’amore deflagra inatteso, scomposto e rumoroso come i fuochi d’artificio durante le celebrazioni del Santo patrono di Pieve Lanterna, si appiccica alle mani come zucchero filato e si insidia nel gesto di girare l’elastico intorno ai capelli per farne una coda, o di mettere le mani in tasca con nonchalance, un amore che sa di vodka alla pesca e baci rubati, di gelosie prima sconosciute.

Inizia così un tempo nuovo, fatto di corse in bicicletta e lunghi giri di giostra, di sfide al cancinculo e di risse con i giostrai “zingari” che competono per l’amore delle due ragazze, di alberghi abbandonati che diventano rifugio e luogo d’iniziazione alla sessualità, ma soprattutto comincia un tempo strisciante di paure, di silenzi adulti e ostilità, di segreti nascosti nella tranquilla routine di un paesino incastonato nell’Appennino marchigiano. 

Contraltare alla controversa natura umana, al buio profondo che tratteniamo all’ombra di noi stessi, è la quieta fissità dell’elemento naturale, in cui Torino si muove perfettamente a suo agio descrivendo le maestose aperture alari delle aquile o i fiori e le piante del posto, soffermandosi sulle anse di un fiume o sulla natura rigogliosa dei boschi. 

E non stupisce che, in questo legame viscerale tra uomo e natura, sia sempre un albero a sancire ed eternare i rapporti padre/figlio: una quercia secolare nel precedente romanzo, Al centro del mondo, e un nespolo in Cuori in piena, l’unico elemento naturale che sopravvive nel giardino di casa Gori dopo che il dolore furente di Arcangelo vi si è abbattuto, piantato il giorno della nascita di Andrea, il figlio perduto, a testimoniare un’esistenza e la vita che si ostina a continuare anche quando è svuotata di senso.

Corsi può solo intuire il dolore di Arcàcciolo, lo può vedere riflesso nell’apprensione di suo padre che gli vieta il tuffo alle Caldare per timore di perderlo, e di impazzire lui stesso, ma è un’eco lontana di qualcosa che è accaduto a qualcun altro, come il rapimento di Farouk Sader che riempie le pagine di cronaca in quei giorni, un’idea vaga che si confonde nella nebbia e viene subito spazzata via dalla frenesia dei giorni d’estate.

Crescere però vuol dire non poter sfuggire alla sofferenza, non poter ricusare il passaggio alla maturità che avviene solo nello scontro violento con la realtà: quando Asha, il dolcissimo setter di Giorgio, viene avvelenato con la metaldeide, qualcosa si rompe per sempre. La caccia all’assassino si fa spietata, il sospetto si addensa nell’aria pulviscolare della bella stagione, rivelando la duplice natura della vita: è il lutto il rito d’iniziazione all’età adulta – non si diventa mai adulti finché non si perde qualcuno che si è amato – ma diventare grandi è anche la cognizione del dolore, della gratuità del male che solo gli umani sanno commettere.

È qui che pulsa il cuore in piena dei protagonisti di questo romanzo dove la natura umana è indagata senza sconti, è in questa esplorazione che si racchiude la ricerca autoriale di Alessio Torino, che presta il suo stile misurato e asciutto, da classico contemporaneo, dove ogni parola è perfettamente al suo posto, alla narrazione di ciò che è smisurato, incontenibile, violento, inesplicabile e così trova un modo per pronunciarlo, e indagarlo.

Dodici anni dopo Tetano, dodici come gli anni del protagonista, Torino ci riporta a luoghi e personaggi che gli sono cari, in un duplice ritorno a Corsi e alle scorribande del suo gruppetto di amici che rendono di nuovo Pieve Lanterna uno spazio mitico, fuori dal tempo. 

Questa volta Tetano, personaggio perduto, è rievocato nel nome del Grand Hotel diroccato che i ragazzi eleggono a loro rifugio segreto, luogo d’elezione dove portare le ragazze o andare incontro al destino lanciando monetine, un modo come un altro per avere l’illusione di poter sfuggire alla propria sorte con la casualità.

Come allora, è la prima persona della voce di Corsi a raccontarci questa storia, a rievocarla nel ricordo, a sancire il punto dopo il quale voltarsi è impossibile senza perdere tutto, forse perché solo la voce di un ragazzo, come pensava Elsa Morante, può attraversare l’orrore e dirlo senza esserne deformato.

C’era qualcosa da cui non si poteva fuggire. Come quando eravamo scappati dalla cava. E io lo sapevo. Qualcosa che assomigliava a quel pezzo di meteorite che aveva centrato la terra. […] Adesso ero io il meteorite, che stava andando verso di loro, anche se ero soltanto Corsi il Giovane, con tre lattine di Coca-Cola strette nel cerchio delle mani.

In questo duplice nostos si ravvisa il cuore in piena dell’autore: l’assenza di un padre che scorre sottotraccia in tutte le sue opere. Che siano padri razionali e presenti come Seba, violenti come Semolino, il padre di Achille Spada, o duri come quello di Giorgio Angradi, tutti segnano, con la distanza o la troppa vicinanza, il solco che sarà valico o fossato al contatto con l’età adulta. Il cuore si svela, si spacca come pesca matura, rivelandosi indifeso e inarginabile.

Ho scoperto quanto fosse grande il mio cuore perché in quel momento si aprì e ci entrò la notte, con le luci stroboscopiche dell’autoscontro. Ci entrò la Vernosa, che smise di gettarsi dal monte per riversarsi dentro di me.

Quando il cuore si apre, è piena e alluvione inaspettata, incontrollabile.

Per fortificare il cuore non basterebbero nemmeno pietre come queste del ponte romano. Dovrebbe essere il cuore stesso, pietra.

Cuori in piena conferma così un saldo immaginario autoriale, sospeso nel tempo del mito, in cui ogni personaggio, che sia umano o vegetale, fiume, aquila, vipera o cane, non è solo sé stesso ma si trasfigura in simbolo archetipico, ancestrale, chiave di volta per indagare la natura umana e il suo passaggio terrestre. Protagonisti della letteratura di Torino sono sempre i ragazzini, sorpresi nel punto di non ritorno di un’ultima estate crudele e luminosa che cambia per sempre tutto, e li traghetta, volenti o nolenti, nell’autunno dell’esistenza.

Nella scrittura di Alessio Torino emergono, imprescindibili, gli echi di Volponi e Morante che si ravvisano nella dura natura degli uomini, nell’assenza della figura materna e nell’abilità di narrare una terra nota e amata che si fa topos letterario, ma anche una profonda conoscenza della letteratura classica e americana, in grado di descrivere i quattro punti di un paese che diventano anche i nostri – le giostre, il bosco, il fiume, la Birra al Ponte – ritrovo dei ragazzi e microcosmo che si fa universale, sfondo tragico di ogni umanità.

Ma nella sua scrittura riecheggia anche l’universo di Cesare Pavese, che aveva fatto del mito il sostrato profondo di ogni sua narrazione e di ogni storia in grado di valicare i confini del tempo. E sembra di ritrovarsi in quella frase che Pavese scrisse una volta a Fernanda Pivano, nel 1942: «[…]Pensavo che descrivere storie di contadini (sia pure psicanalizzati e trasfigurati) non basta ancora. Descrivere i paesaggi è cretino. Bisogna che i paesaggi – meglio, i luoghi, cioè l’albero, la casa, la vite, il sentiero, il burrone, ecc. – vivano come persone, come contadini, e cioè siano mitici. […] Non certo rifare quelli greci, ma seguire la loro impostazione fantastica».

Alessio Torino si sofferma al limitare dell’estate, che è quello di gioventù, affacciandosi a guardare un momento troppo spaventoso per essere pronunciato: quello in cui ci confrontiamo con i padri e iniziamo a vederli nella loro umanità, l’istante felice che cela l’annuncio della tragedia nascosta nell’età adulta che la mente intuisce e rappresenta attraverso i miti, l’unico strumento che l’uomo da sempre conosce per affrontare sé stesso e il proprio destino.

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