Skip to main content

Un luogo inesistente può entrare nel nostro immaginario e fare in modo che diventi reale? È l’esperimento che compie Marco Balzano nel suo ultimo romanzo Café Royal, edito da Einaudi. L’autore milanese (finalista del Premio Strega 2018 con il romanzo Resto Qui; vincitore del Premio Campiello 2015, con L’ultimo arrivato) ci conduce nella sua città attraverso un’opera corale, costituita da diciotto racconti di poche pagine l’uno; ogni capitolo costituisce una storia e ha come titolo il nome del protagonista della vicenda: Gabriele, Betti, Veronica, Luca, Ahmed, per citarne alcuni. Sono le vicende di uomini e donne, che ogni giorno affollano il Café Royal di Via Marghera a Milano. La maggior parte di loro non si conosce, eppure ognuno è indispensabile per ricostruire tutta la trama. Un enorme mosaico in cui ogni pezzo brilla sempre più fino a raggiungere un’esplosione di luce.

Café Royal costituisce uno spaccato di Milano, ai tempi della pandemia, nel momento in cui tutto si blocca e anche un semplice momento d’evasione, come il pregustarsi una bibita, un caffè o un tramezzino nel nostro locale preferito diviene impossibile. Ogni racconto lascia qualcosa in sospeso, da recuperare in un secondo momento. A te che stai leggendo è richiesto un pizzico di attenzione in più, per addentrarsi completamente in questo non luogo.

Compaiono storie di tutti i tipi, dalla signora anziana che ha i figli lontano e cerca un po’ di compagnia; un amore tra due ragazzi omosessuali nato e sviluppato tra incontri furtivi; la relazione clandestina di due amanti; la storia di un immigrato marocchino che torna in Italia per lavoro dopo molti anni; un prete che non si trova più a suo agio nel quartiere elegante milanese e non vede l’ora di tornare in missione. Questi sono solo alcuni esempi per dare l’idea e l’ampiezza della narrazione. Di seguito un piccolissimo assaggio: 

«Di nuovo zona rossa. Via Marghera un’unica saracinesca. Per tagliarsi i capelli, se le cose non peggiorano, gli daranno appuntamento almeno tra due settimane. Così ieri pomeriggio Gabriele ha preso il regolabarba e si è rasato senza pietà davanti allo specchio. […] Gabriele si sforza di uscire ogni giorno, il rischio di mettere su pancia con questa vita da segregati è concreto. Si sveglia generalmente di cattivo umore e per prima cosa tira pugni contro l’armadio. Aveva appena fatto in tempo a iscriversi in palestra, a trovare un ristorante vietnamita che gli piaceva da matti, a uscire con un ragazzo conosciuto a un happy hour aziendale, che hanno richiuso tutto».

È in quei giorni che il nostro quartiere, dapprima vissuto come un luogo di passaggio, magari per andarci solo a dormire, diviene fondamentale. È il luogo della nostra vita, rinchiusa davvero in piccole cose. Il posto dove si instaurano nuove amicizie, nuovi amori, un po’ per noia e un po’ per paura che in quella situazione particolare ci si resti per molto. Gli unici confidenti divengono i vicini, c’è bisogno d’aria, di confrontarsi con più persone possibili, altrimenti si rischia d’impazzire. Cambiare di colpo le nostre abitudini non è affatto facile, quindi cerchiamo di mantenere un appiglio con la realtà precedente. Via Marghera è un piccolo paese più che una via cittadina. Il Café Royal è il luogo della vita. 

«Tiene duro per qualche minuto, poi si trascina zoppicando fino al Café Royal, quasi sotto casa sua. […] Ordina anche lui, beve il cappuccino di fianco a un ragazzo che avrà quarant’anni. Lo guarda buttare giù il caffè, fare canestro con il bicchiere nel cesto dei rifiuti, attraversare la strada e aprire con il gomito il portone di là della strada. In quei secondi Gabriele cerca di immaginare le forme del suo corpo sotto il trench. Alza la testa, risale l’edificio fino al tetto sperando di rivederlo affacciato alla finestra».

Un amore furtivo, che sembra quasi disinteressato, al punto che i due protagonisti restano sospesi nelle loro vite, probabilmente toccherà a uno dei due fare il primo passo. Ci sono poche alternative o momenti d’evasione, tra lavoro, lockdown e qualche uscita strettamente necessaria. 

C’è distanza e vicinanza quasi contemporaneamente: la prima è data dal periodo in cui è ambientata la storia, mentre la seconda scaturisce dal rapporto intimo che si crea con il barista, il nostro confessore. Non c’è solo una distanza fisica, in alcuni casi si finisce per avere una distanza emotiva, sociale dei personaggi, ma il bar restituisce una condizione più personale. Ci dà quell’illusione in cui può accadere di tutto, ci sentiamo coinvolti in ogni vicenda, sentiamo che le loro storie possono essere anche le nostre.

La narrazione è proprio quella di chi racconta in modo confidenziale, la propria intimità, senza  nessun timore di esser giudicati, fatti o eventi ai suoi amici, con la differenza di non sapere chi si ha dall’altra parte, e la totale sicurezza che quella confessione non oltrepasserà la porta del locale. È il momento in cui si torna a ripopolare, vivere quei luoghi, che sembravano destinati a diventare solo una parte della nostra routine. È il caso della storia di Luca e Veronica, i due amanti che si rincorrono in diversi episodi del romanzo. Il locale qui è un luogo per poi passare altrove, magari in una stanza di un albergaccio, oppure restare lì a smaltire una delusione e poi scappare.

«Mentre Veronica apre il portone squilla il cellulare, ma non fa in tempo a rispondere perché in borsa tiene sempre troppe cose. Dopo un minuto squilla di nuovo, lei sgrana gli occhi e invece di salire le scale torna indietro. Cammina senza meta per tutte le vie che aveva appena attraversato. Non sentiva Luca da un paio d’anni. Anche lui ha avuto un bambino. […] Al bar, con gli occhi nella tazza di caffè, mentre raspa lo zucchero con il cucchiaino, d’improvviso le confessa che non gli importa di essere sposato con una moglie a cui vuole bene e nemmeno di avere un figlio perché lui desidera Veronica come quella volta in cui avevano fatto l’amore in macchina». 

È il nuovo inizio delle cose, anche se stavolta non ci troviamo nel Café Royal di via Marghera a Milano, bensì a Torino, ma sempre con un bar come teatro principale. Il luogo in cui tutto può succedere, è proprio allora che il Café Royal assume il significato simbolico di tutta la vicenda. Una storia fugace che si consuma nelle pagine successive, rimanendo però sospesa e tornando con altri elementi più avanti, nel corso della narrazione. Sta tutto in un caffè, quello che segue, potrebbe essere un progetto di evasione per andare lontano, oppure architettare qualcosa o semplicemente restare così com’è. L’indomani risentirsi e poi tornare al proprio mondo, cancellando ogni traccia di quell’evento come se non fosse mai accaduto.

Il romanzo di Marco Balzano è anche altro, non c’è solo amore, ma solitudine, un senso di incomunicabilità con il mondo circostante, un malessere sottile a tratti impercettibile. Esperienza rintracciabile nel capitolo che ha per protagonista Giuliano, un prete alla ricerca della sua vocazione che lentamente si sta affievolendo. 

«Da quando sono arrivato in via Marghera sogno di continuo i due anni che ho passato a Nassamba a costruire una scuola. Mi ricompaiono uno per uno i bambini storpi, quelli senza gambe, quegli altri col labbro leporino, la vecchia coi capelli lunghi fino alla schiena che mangiava con le mani riso e fagioli seduta per terra. Il cielo dell’Africa sembra un soffitto, stendi il braccio, ti alzi sulle punte e lo tocchi. Sogno di continuo l’odore del fango cotto, della paglia setacciata, quello di terra e sudore dei bambini». 

Per Giuliano via Marghera è un triste ritorno alla realtà, è solo uno stare a compatire l’immiserimento della sua società, sotto tutti i punti vista, da quello morale fino a quello economico. È una prova più difficile, rispetto a quella che aveva sostenuto in Africa a contatto con una realtà dura, eppure tornando a casa, in Italia, pensava di stare meglio. Non va così, forse è solo alla ricerca di un senso più profondo della sua esistenza, che la città di Milano non può offrirgli affatto. Qui non ci sono stimoli, c’è solo una piccola folla, pochissime persone rassegnate al corso degli eventi e che vanno in chiesa per dovere, piuttosto che per vera convinzione. Giuliano è lo specchio che riflette quell’esistenza, sa di non poter fare poi molto, perché sente che i problemi di quella gente sono altri. Lui probabilmente ha solo il Mal d’Africa, ma in quel momento sembra quasi non accorgersene, l’oscura nostalgia del continente africano lo trascina nel suo mondo e finisce per spaesarlo ancora di più. Non prova quasi mai a reagire, e quando lo fa, probabilmente trasgredisce qualche piccola regola del suo codice morale, infatti ritorna a fumare, ma poi non lo fa neanche per davvero. Il vero degrado, ai suoi occhi, è in quella parte del mondo che può definirsi civilizzato, Marco Balzano vive quest’inquietudine insieme al suo personaggio.

La pandemia non basta a fermare il flusso dei residenti di via Marghera, tutti si attaccano alle proprie abitudini, quasi fosse l’unica ragione che possa tenerli ancorati lì, in quel momento e in quel luogo. Non riusciamo a concentrarci su ciò che è davvero importante, non ce la facciamo, il nostro unico sforzo è quello di vivere, nonostante tutto. Qualsiasi siano le ragioni, anzi capiamo a fondo che le cose interessanti, molte volte sono le più semplici, a tratti banali. Café Royal diviene così l’evasione, anche per poche ore, dalla propria routine. Il romanzo ricorda che probabilmente ci manca sempre qualcosa, non siamo abbastanza appagati da quello che abbiamo, al posto di accumulare dovremmo iniziare a togliere, solo in quell’istante percepiremo la nostra vera ricchezza.

Nel quartiere elegante e esclusivo di Milano, non mancano storie di solitudine, come quella di Betti, una donna anziana che ha i figli lontano, ma lei sembra non abbattersi, anzi fa di tutto per non sentire la loro mancanza. Così i figli si illudono di poterla controllare, starle vicino, guardarla, soltanto attraverso la telecamera che sorveglia la sua abitazione. Ma quell’aggeggio a Betti non va proprio giù, la opprime, non la fa più sentire libera in quella routine fatta di piccole cose, certe volte anche pericolose, per la sua età. Probabilmente è un modo per starle vicino da parte dei suoi figli, ma in realtà finisce per allontanarla ancora di più dal suo mondo attuale. In fondo i suoi ragazzi vogliono sapere soltanto come sta, un qualcosa che a volte può essere superficiale, se non si è vicini concretamente a una persona.

È una storia che fa tenerezza e addolcisce le pagine del volume.C’è un’evoluzione storica, antropologica di via Marghera, Betti la ripercorre sin dagli esordi della sua narrazione:

«La via Marghera era sempre una via importante di Milano, ma giusto il prestinaio, la sartoria e quella ferramenta dove adesso c’è il bar del Ghigo. Il Giorgio che ha la lingua biforcuta, dice che parlo così solo perché ai tempi ero giovane e ora sono diventata vecchia».

Balzano qui dà un’identificazione precisa del quartiere, i riferimenti servono a non farci smarrire, ma a restare saldati in un luogo, che anche se non conosciamo, impariamo persino ad apprezzare. Anche se siamo lontani o a Milano non ci siamo mai stati. Le parole di Betti sono quelle di una signora anziana, che conosce il posto da molti anni e offre un punto di vista diverso da quello dei più giovani che abbiamo visto sinora. Lei qui vuole restarci, non vuole affatto andarsene, fa di tutto per non rinunciare alle sue abitudini. Il grande quartiere così diviene ancora di più simile a un paese, con i suoi punti di riferimento immutati, una sorta di bussola dove perderci è impossibile. È la soluzione che può prospettarsi ai più giovani. Serve per non far smarrire l’identità di un luogo che è cresciuto, si è imborghesito, ma mantiene saldi i suoi posti di ritrovo, indispensabili nella città per tracciare un senso di ritrovamento, contro l’alienazione percepita nella vita frenetica. Betti pensa al suo passato con nostalgia, rivive l’amore con suo marito Vincenzo, la crescita dei suoi figli e dei suoi nipoti. Avviene una narrazione del suo passato con i suoi segreti, le sue debolezze, le sue paure. Il presente è un po’ noioso, ma lei fa di tutto per renderlo più vivo:

«Ma se cado in corridoio quell’occhio dell’ostia mica si accorge!» gli ho gridato dietro stamattina al telefono. E il Giorgio impassibile: «Mamma, smettila di agitarti. La telecamera ha il sensore dei passi e quando vai in corridoio si gira, per questo l’abbiamo montata sopra la porta!» Ho iniziato a sudar freddo. Non mi ero accorta che l’occhio nero mi segue anche in corridoio». 

Betti è insofferente a queste nuove abitudini, forse non vuole rassegnarsi all’idea di invecchiare in quel modo. Il suo approccio con la tecnologia è ansioso, ma anche rabbioso. Non vuole per nulla obbedire ai figli. Il copione del litigio genitori-figli potrebbe essere uno di quelli più riusciti nella narrazione di romanzi, film o scene teatrali e  in ogni epoca è sempre attuale. Ciò che differisce dal passato è l’utilizzo della tecnologia, ma per il resto sembra tutto invariato.

Café Royal conclude il suo viaggio con la storia di Betti, che non è l’ultima del romanzo, anzi compare nei primi capitoli, ma è volutamente messa in coda proprio per conferire una sorta di progressione cronologica. Le storie continuano a rincorrersi in tutto il volume, anche quando sembra che si lascino per un po’, poi ritornano, come la vita di quei personaggi e anche la nostra. Marco Balzano pone dinanzi al lettore un insieme di situazioni che potrebbero tranquillamente convivere anche in altre realtà cittadine, oltre Milano. Il suo acume, però, fa sì che il Café Royal possa vivere e morire solo nella metropoli meneghina. Ognuno di noi si rivede in almeno una di quelle storie, e probabilmente almeno una volta sarà passato al Cafè Royal, se non fisicamente almeno in maniera ideale. 

Leave a Reply