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Il quartiere di Porta Genova, da sempre, si divideva in due parti: una, quella davanti al ponte di ferro verde, raffinata e festosa; l’altra, quella oltre il ponte, scomoda e chiacchierata. Porta Genova oltre il ponte si diramava in vie inquiete e la sua vita era sfavillante, affollata. Ma era la vita di una città fantasma: racconti. Solo parole, sussurri che bisbigliavano di persona in persona. Qualcuno ci era mai stato, davvero? Dovevi conoscere la sequenza ordinata di incroci e attese da rispettare e certo, che ci voleva un invito, come potevi arrivare in quel buio senza sapere dove andare? Senza sapere che potevi, andare? Non essere atteso significava il nulla, e significava che in quel nulla saresti stato inghiottito. Alex viveva lì, in quell’oscurità di ombre, con un coinquilino, Max. Max aveva uno sguardo triste e una passione per i coltelli. Lisa, occhi azzurro freddo, non temeva Porta Genova oltre il ponte, e narrava storie fantastiche nelle mattine a scuola. Alex, invece, dicevamo: un sorriso immenso, ipnotico come la bellezza immobile di una bambola. Inverno.

Il giorno in cui Lisa scomparve pioveva. Io e Lisa frequentavamo la stessa classe di una scuola di moda, le lezioni erano a frequenza obbligatoria e raramente, qualcuno non si presentava, soprattutto Lisa, la più esuberante, la più curiosa, la più dotata. Non scrisse. Non rispose. Aspettai. I giorni, passarono. Il suo entusiasmo divenne un ricordo, intenso nella sua scomparsa così come era stato intenso nel suo interesse. I giorni, passarono. Il viso di Lisa era ovunque, i manifesti apparirono sui muri di tutta la città. Lisa, ovunque: mi convinsi che fosse stata risucchiata dall’oscurità di Porta Genova oltre il ponte. I suoi occhi mi fissavano da ogni angolo, il suo viso urlava senza voce. Pioveva, piangevo. Nessuno disse nulla, ci si affidò alla dimenticanza. I giorni, passarono. Fu primavera, il tempo aveva sepolto le parole, i manifesti sbiadivano. Estate. In una luce che allungava le giornate fino all’illusione, decisi di cercare Lisa. La conoscevo, c’ero io, con lei, la sera in cui incontrò Alex. Lisa e Alex, uguali, e opposti, Alex la perfezione brillante del bicchiere in attesa, Lisa la goccia di acqua che sprigionava il liquore. Vivevano a casa di lui, casa di lui e Max. Era arrivato il momento. Estate. Porta Genova oltre il ponte fu facile, come ricordavo la strada? Come se qualcosa mi ci stesse accompagnando. Sul campanello i nomi Alex e Max, sillabe che giravano divertenti in bocca come una formula magica. Suonai, ripetendo ossessiva i nomi a voce bassa, una preghiera. Il portone si aprì, appena dentro il contrasto con il buio del palazzo mi fece girare la testa, in fondo al corridoio sentii la serratura, mi sembrò di svenire. Alex era comparso sulla soglia, elegante, i movimenti lenti a rapire lo sguardo. Arrossii.
«Mi ricordo di te, ciao».
Alex mi invitò a entrare aprendo la porta e mi sentii un topolino che si infilava spaventato in una trappola. La casa di Alex era un loft luminoso, una scala ossea saliva in un soppalco, le finestre guardavano il cortile interno, e il tutto appariva intimo. Segreto. Il silenzio mi avvolse, e un’aria umida mi rinfrescò il viso. Tutto, mi apparve meraviglioso. Topolino incantato.
«Sei qui per Lisa».
Il suo tono non domandò. La sua mascella non provò tremore, la sua voce restò intonata. Avrei voluto scuoterlo per sapere se fosse vero, vivo. Il mio sguardo controllò ogni dettaglio.
«Scusa Alex. Non sarei dovuta venire. Non so nemmeno cosa chiederti».
«Ma eri curiosa di vedere questo posto, pensavi che Lisa fosse prigioniera qui? Guarda dove credi».
Alex mi regalò un gesto teatrale. Abbassai gli occhi, imbarazzata.
«Non so niente di Lisa. Lei non mi parlava di te». In quelle parole ebbi un momento di dispiacere, lei non parlava di me? Non eravamo amiche? Alex era stato nei locali in cui andavano, aveva aspettato. E poi si era sentito deriso, arrabbiato. Chi era lei, per lui? Mi chiesi se non avesse visto il suo volto ovunque, lo aveva visto. Cosa doveva fare? Alex non sorrideva, rispondeva meccanico. Sull’ultima sua interruzione rigida, dubitai. Fu il primo dubbio, e mi afferrò come dita gelide che tentavano di graffiarmi la gola. Lo avevo detto io, alla polizia. Solo io sapevo dove abitava Alex.
«Sei stata tu».
Annuii. Disturbavo tranquilla il lupo senza curarmi del pericolo. Questo, era il potere che Alex aveva su di me.
«Ma tu la conoscevi davvero, Lisa? Io non sapevo nemmeno il suo cognome».
Il dubbio continuava il solletico. Lisa aveva raccontato bugie a tutti, ma perché a me? Lasciai il mio numero a Alex, e quando restai sola nel corridoio del palazzo vuoto mi accorsi di ricordare qualcosa. Mi sentivo osservata, uscii fino alla luce della strada, e fu nel sole, nella normalità di una me stessa senza nessun sortilegio a controllarmi, che mi venne in mente. La felpa rosa confetto con le maniche a righe bianche e nere. Era un capo che Lisa aveva cucito a scuola, era la sua divisa, la sua bacchetta magica. E adesso, la stessa preziosa felpa si appoggiava con una cura innaturale sulla ringhiera della scala ossea del loft di Alex. Mi mancò il respiro, la paura mi avvolse felice allargando le sue spaventose braccia. Non lo dissi a nessuno.

La notte non dormivo, il mio viso si scavava nel terrore a ogni sussurro, un batticuore da malattia. Diventai uno spettro. Quando mi guardavo allo specchio mi sembrava di vedere Lisa, lei che mi sorrideva nel riflesso, i suoi lineamenti che si accartocciavano in una smorfia di dolore come se volesse dirmi qualcosa di terribile. Gli incubi mi mangiavano lentamente, gustandomi in bocconi piccolissimi. Di cosa dubitavo? Di chi, dubitavo? L’estate fece svelta la valigia, la luce scappò nei primi giorni di settembre. Chi era Lisa? La sua voce, il suo viso, cominciavano a somigliarmi, come se il suo ricordo si facesse strada dentro me fino a possedermi, e a mostrarsi, fuori. Stavo diventando lei, vittima delle sue intricate storie senza respiro. Con la prima pioggia d’autunno Alex mi scrisse, i brividi mi scossero fastidiosi in una musica antipatica. Un messaggio educato, con firma, mi invitava a passare da lui al loft il pomeriggio successivo. Mi sentii come se la fame che mi sbriciolava fosse finalmente sazia.

Era già buio, il pomeriggio successivo. Ma io ero ormai ombra nell’ombra, e di Porta Genova oltre il ponte non avevo più paura, forte, ero diventata come Lisa, e il buio non poteva ferirmi. Ero dalla sua parte. Cosa avevo fatto per diventare così? Oltrepassai il ponte, la strada mi apparve illuminata come un percorso che mi stava aspettando. Avevo una luce personale, ecco cosa mi aveva donato Lisa. Una parte di lei abitava in me, e mi spingeva in quell’oscurità che lei amava, privandomi del mio ingenuo timore. Ma era qualcosa di mostruoso, perché mi rendeva senza sentimenti. Mi piaceva muovermi in quel nulla e non esitare, mi piaceva avere finalmente un invito per quello che immaginavo come un luogo meraviglioso.

Sfiorai convinta il campanello, Alex e Max. Il portone scattò. I miei tacchi scandirono un ritmo martellante, la porta si aprì, uno spiraglio del corridoio si illuminò come un errore, provai uno sfuggevole fastidio. Mi ero trasformata in una creatura timorosa della luce.
«Entra, ciao».
La voce di Alex, cullante. La sua ombra macchiò lo spiraglio.
«Stai bene?» Sapevo di somigliare alle tenebre che mi comandavano. Sorrisi. Il loft era illuminato da un lampadario di cristalli, un brillio che risaltava l’abbandono del luogo. Impiegai un istante per ricordare. La felpa. Immediato, il mio sguardo andò alla scala, poi ovunque. Nulla. Non mi turbava, c’era qualcosa, dovevo essere dove ero, e continuavo a sentirmi sicura. Alex mi fece accomodare su una poltrona dall’aspetto antico, nell’aria annusavo incenso. La pace, il freddo, e quel profumo di addio mi ricordarono qualcosa di sacro. Di eterno, e infelice.
«Non trovo più Max. Lo so che voi non eravate amici. Lui non aveva amici».
Il tono di Alex cedette.
«Da una settimana non lo vedo più. Non torna a casa, non risponde al telefono. Le sue cose sono tutte qui. Scusa, non sapevo a chi dirlo».
Alex si interruppe.
«Somiglia così alla storia di Lisa. Solo che Max lo cerco solo io. Lo sai che non aveva famiglia? Aveva solo me. Questa casa è nostra».
In quella risposta rimasi incastrata come se l’intero ingranaggio avesse avuto uno stridere inopportuno. Alex mi tendeva un bicchiere di vino troppo pieno, e dietro di lui vidi una lunghissima fila di bottiglie vuote.
«Sto andando fuori di testa, lo so».
Alex si lasciò cadere nella poltrona di fronte a me e bevve un sorso enorme che mi sembrò strozzarlo.
«Le sue cose sono qui, il suo portafoglio, i documenti. Tutto immobile. Sparito, capisci?» In me c’era qualcosa che non era mio, che mi apparteneva senza permesso, e che decideva per me. Brutale, mi mancava ogni battito di cuore. Domandai ad Alex dove fosse la roba di Max, e lui mi accompagnò dietro una libreria a vista. Un letto rifatto con cura. Aprii il portafoglio, un biglietto dei mezzi pubblici. Venti euro. Controllai la carta d’identità. Non cambiai espressione, ma dentro me gioivo, perché vedevo da dove veniva lo stridere pericoloso. Come aria prima di affogare.
«Questi soldi sembrano stirati. La carta è scaduta un mese fa. Troppo perfetto, Alex. Sembra programmato. Non ti eri accorto di niente?»
Alex impallidì stupefatto. Riempì ancora il bicchiere, poi lo rovesciò schifato nel lavandino, e bevve dalla bottiglia. Il suo nervosismo mi prudeva sulle mani. Lo sentii piangere. Il mio cuore non batteva, ma se avesse potuto, sarebbe scoppiato. Fu tristissimo. Alex capì che le sole persone che amava al mondo lo avevano tradito. Restai. A me funzionava poco il cuore, a lui, troppo. L’inverno sostituì i colori.

Io e Alex diventammo inseparabili. L’oscurità di Porta Genova si spostava al nostro passaggio, delusa dalle mancate attenzioni. Nessuno sapeva nulla di Lisa, nessuno sapeva nulla di Max.
Alex diceva che Max non amava i coltelli, che si raccontava avesse accoltellato qualcuno durante una rissa ma che non era vero, che era solo una storiella, insisteva. Alex difendeva una infantile ingenuità che riusciva sempre a stupirmi. Inverno freddo. Il tempo ci scorreva accanto e non ci apprezzava, abbandonandosi in polvere insieme a noi. Inverno, freddo. Quella sera alla fine arrivò. Sera di inverno, Alex aveva fatto fare un duplicato delle chiavi del loft per me. Mi fermai a cercarle sul ponte di ferro verde, e un messaggio mi costrinse a guardare il telefono. Un numero sconosciuto mi ordinava con tono severo di andare subito al loft. Non era lo stile di Alex, e non lo riconoscevo. Mi spaventai. Diventò tutto veloce, il ponte, i gradini, le svolte, gli incroci, e quando arrivai al portone, senza fiato, vidi che era spalancato. Il mio cuore muto venne morso dal sospetto. La porta del loft, aperta, illuminava tutto il corridoio, e sembrava normale. Ancora, ero ancora comandata da quella strana e lucida forza.
«Me ne vado un attimo e tu mi rubi il ragazzo?»
Avevo riconosciuto il suo profumo prima della sua voce. Lisa apparve sulla porta, sorrideva e mi invitava a entrare. Sembrava normale, ma di normale non c’era nulla.
«Questa casa è così bella. Avrei fatto di tutto, per una casa così. Tu non sai che vita ho avuto».
Lisa parlava con fare attraente, e poi si spostò per mostrami Max seduto sulla poltrona antica. Max mi guardò senza espressione, alzando appena la testa in saluto. Lisa chiuse la porta dietro di me.
«Qualcosa da bere, tesoro?»
Lisa indossava la felpa confetto. Mi accorsi che sulle maniche aveva piccole macchioline scure. Poi si voltò, e la mia domanda diventò paura.
«Lisa, ma stai sanguinando?»
Max si era alzato.
«Sei la solita sciocca. Max, vieni ad aiutarmi».
Lisa si arrotolò le maniche e vidi il sangue ormai seccato tra le dita, ne sentii l’odore, una fitta di vomito mi fece vacillare. Max si avvicinava in un rantolo feroce.
«Lisa, cosa hai fatto?»
Riuscii solo a sussurrarlo.
«Tesoro, sei troppo emotiva. Davvero mi pensavi tua amica?»

Il suo male mi stava abbandonando, insieme alla sua forza, e tornavo a riconoscermi. Il mio cuore bussava. Aspetta, non ancora.
«Lisa, dov’è Alex?»
Tremavo. Lei sorrideva, tranquilla, a suo agio.
Approfittai del momento. Max cercò di afferrarmi ma mi mancò, riuscii ad arrivare alla porta, a fare scattare la serratura. Il corridoio, e la luce ormai mia, la strada, la fine. Ma nello scappare un pensiero terribile mi spinse a girarmi un istante, come a misurare la distanza verso il pericolo. Una frazione di tempo così piccola che non ricordo il movimento di nessuno, ma solo una macchia a terra in cui nell’orrore riconobbi qualcosa di a me caro. Qualcosa che Lisa aveva nascosto invitandomi a entrare. Fu un attimo, il mio cuore ritornava a battere tutto nelle vie di Porta Genova oltre il ponte, e io, capovolta, tornavo a essere io, paure e timori e tutto il mio pulsare di cuore dappertutto.

Alex, l’ultimo istante che ho di te, di noi, è una luce tiepida che colorava le tue guance. Il tuo cuore si scaldava, e la quiete avvolgeva quella tua crudele solitudine. In una dolcezza purissima, mi sei finalmente sembrato libero. Qui, è il tuo posto, in una storia che possa custodirti amorevole, nel per sempre.


Foto di Sindy Sussengut / Unsplash.

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